C
he cosa accade nella mente e nel cuore di una persona che, giunta attorno ai quarant’anni, con un bel pezzo di vita già vissuta alle spalle, una vita da vedente, si ritrova cieca e senza nessuna speranza che la sua condizione possa cambiare? Forse solo Oliver Sacks avrebbe potuto rispondere a questa domanda, e non a caso è lui a firmare la prefazione (e a definire questo libro un capolavoro) dello straordinario Il dono oscuro di John Hull, appena uscito da Adelphi (traduzione di Francesco Pacifico). Sacks e John Hull, docente di teologia australiano, vissuto per gran parte della sua vita in Gran Bretagna, che ha raccontato ogni aspetto della sua nuova esistenza, restituendo una fotografia nella quale c’è tutto: dalla disperazione più nera alla scoperta di un nuovo modo di pensare, di essere, di sognare; dalla frustrazione delle difficoltà quotidiane alla costruzione di nuovi rapporti con i figli, i colleghi, gli amici, la moglie; dal rimpianto e dalla perdita all’accettazione di una condizione che richiede coraggio, immaginazione e dignità, e che non accetta commiserazioni; dalle reazioni di chi gli sta intorno ai suoi pensieri più reconditi, scaturiti da un mondo a parte in cui si fa più intensa la sensazione di esclusione dal mondo degli altri, per approdare infine alla consapevolezza piena e alla capacità di apprezzare un intero mondo nuovo.
Non è un diario, e neppure una storia romanzata, o una dissertazione scientifica: è una raccolta di pensieri e sensazioni, che ha però come esito la composizione di un quadro che nessuna dotta spiegazione avrebbe mai potuto tratteggiare con questa completezza e complessità.
Hull accompagna il lettore nella sua progressiva metamorfosi, a cominciare dalla rappresentazione mentale delle persone. Più passa il tempo, meno hanno una fisionomia definita, e la raffigurazione dei tratti somatici perde importanza. “Durante i primi anni di cecità” scrive, con una delle sue riuscite metafore,
quando pensavo alle persone che conoscevo, finivo sempre per dividerle in due gruppi. Quelle con il volto e quelle senza volto. Era un po’ come aggirarsi per le sale della National Portrait Gallery. Ci sono file di ritratti, e poi di colpo uno spazio vuoto. Si capisce dove stava appeso il quadro dall’impronta lasciata sulla tappezzeria, e la piccola etichetta con il nome sotto.
E questo vale anche per l’immagine di se stesso, che sbiadisce ogni giorno, lasciando dietro di sé tanti interrogativi e molta angoscia: “Fino a che punto la perdita dell’immagine del volto è collegata alla perdita dell’immagine di sé? … Questo significa che non ho più coscienza di me, che sto diventando inconsapevole. È ciò che indica l’archetipo della cecità: la perdita della coscienza, la discesa nel sonno, il senso del nulla, del diventare nulla”.
Naturalmente, impara presto la necessità di interagire con il mondo esterno con l’aiuto di una sorta di ecolocalizzazione che lo riempie di meraviglia: “L’esperienza in sé è straordinaria…è come una sorta di pressione fisica e la si avverte in modo così intenso che si vorrebbe alzare la mano per proteggersi…il senso di pressione si avverte sul viso, piuttosto che sopra e dentro le orecchio. Dev’essere per questo che prima questa singolare esperienza veniva chiamata “visione facciale”… Esiste un linguaggio della cecità” e ancora, a proposito di ciò che suscita il vento: “un cieco entra con tutto se stesso nella ventosità di una giornata”.
Oltre alla pelle, poi, e insieme a essa, interviene l’udito, il cui ruolo è chiarissimo quando piove:
La pioggia ha un modo tutto suo di dare un contorno a ogni cosa; getta una coperta colorata sopra cose prima invisibili… se solo la pioggia cadesse in una stanza, mi aiuterebbe a capire dove stanno le cose, mi darebbe la sensazione di trovarmi davvero lì, anziché di essere soltanto seduto su una sedia. È un’esperienza di straordinaria bellezza.
Anche perché “lo spazio acustico è un mondo di rivelazioni”. La neve, al contrario, è la nebbia dei ciechi, perché fa perdere i riferimenti acustici anche più familiari.
Un contributo fondamentale, nel suo racconto, è quello dei sogni, che lo accompagnano e lo aiutano a elaborare ciò che gli è successo; quasi sempre si tratta di immagini vivide, a colori, in ambienti acquatici, marini, che ben rappresentano gli abissi verso cui è diretto, ma anche la nuova capacità di nuotarvi dentro e l’energia che il suo io nascente vi sta mettendo. E che sono anche una sorta di spettacolo, come lui stesso li chiama, una pausa in cui ritrovare tutto ciò che di visivo gli resta.
Non mancano molti momenti di difficoltà, di depressione, di crisi; non è facile, per esempio, fare i conti con la necessità di regolarità, di una vita scomposta in frammenti, unica condizione che consente di affrontarli, uno alla volta, a lui che, da vedente, era una persona vulcanica e curiosa:
Lo sento fluttuare intorno a me, l’imprevedibile mi aspetta dietro ogni angolo. Mi fa capire quanto inflessibile dev’essere un cieco, o meglio, quanto inflessibile è la vita che si impone alle persone cieche. Familiarità, prevedibilità, gli stessi oggetti, le stesse persone, le stesse strade: privatelo di queste cose e il cieco è riportato allo stato infantile.
Al tempo stesso, però, la quotidianità è liberata da tutto quel rumore di fondo che di solito non permette di cogliere l’essenziale ed emerger una consapevolezza: “Non sono altro che pura coscienza, e come tale potrei essere ovunque”.
Hull ha avuto cinque figli, una prima della cecità, da una prima moglie, una quando ancora vedeva qualcosa, uno nato pochi giorni dopo l’ultimo, definitivo intervento, e due quando ormai era cieco da anni: è interessantissimo leggere come il rapporto con ciascuno di essi sia stato differente, e vissuto da vedente, da persona in una drammatica transizione o da cieco, e quante strategie la sua mente abbia adottato per entrare in relazione con ciascuno di essi.
Via via che lo stato di cieco si consolida, poi, Hull scopre risvolti inattesi, per esempio sulla formazione della memoria, visto che la cecità comporta “la strana sensazione di aver smesso di accumulare esperienze”. Non è così, capisce in seguito, ma è solo che “l’esperienza ha perso la sua punteggiatura”, perché non è più associata alle immagini, ma alle sensazioni, e questo fa un’enorme differenza. Allo stesso modo, l’esperienza tattile, indispensabile, è anche ricca di sensazioni inedite, che rendono il rapporto con la realtà più completo e spirituale, perché la cecità, anche se è “come un grande aspirapolvere che cala sulla tua vita risucchiando ogni cosa… ha qualcosa di purificante, ed è comunque solo una parte di me”.
In definitiva “si comincia a vivere secondo altri interessi, sulla base di altri valori. Si comincia ad abitare un altro mondo”, un mondo pieno di meraviglie e di possibilità, se ci si pone nell’atteggiamento giusto per coglierle. Per questo la cecità è un dono.