I l dodici dicembre del 1969 è il punto di non ritorno nella storia recente del nostro Paese: una bomba collocata nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano, uccide 17 persone e ne ferisce 88. Ci sono voluti trentacinque anni per riconoscere le responsabilità criminali di Franco Freda e Giovanni Ventura, i leader di Ordine Nuovo, una cellula eversiva neofascista. Nel 2005, però, quando si è arrivati a una verità conclusiva, Freda e Ventura non potevano più essere processati perché erano stati assolti con sentenza definitiva nel 1987. L’esecutore materiale, a livello giudiziario, non è mai stato individuato.
Nel 1969 la strage di Piazza Fontana soffia sul fuoco dell’Autunno caldo. La bomba esplode durante le trattative per il contratto più importante della storia sindacale e sociale italiana, dal dopoguerra a oggi. Una trattativa tra i metalmeccanici e la Confindustria, che porterà a un accordo storico e a trasformazioni radicali – tutele dei diritti dei lavoratori, riconoscimenti delle rappresentanze sindacali, aumenti di salari mai visti fino ad allora… Un pacchetto di norme che verrà poi inserito nello Statuto dei lavoratori, approvato dal Parlamento nel maggio del 1970.
La Strage di Stato ha inaugurato la violenta lotta politica che avrebbe connotato gli anni Settanta in Italia (purtroppo, e in cattiva fede, considerando la vitalità dei Movimenti di quegli anni, e le conquiste ottenute negli ambiti più vari, dallo Statuto dei lavoratori appunto alla legge sull’aborto, la legge sul divorzio, solo per citarne un paio).
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Sul finire degli anni Settanta Francesco Cossiga – quel Cossiga che dieci anni dopo sarebbe diventato il più giovane presidente della Repubblica – diceva che “per sradicare il fenomeno terrorista” si doveva respingere ogni tentativo di comprensione del terrorismo.
La linea di Cossiga, insieme ad altri fattori non controllabili, farà effettivamente collassare l’eversione, ma lascerà delle ferite che devono ancora rimarginarsi. E forse non si rimargineranno mai. Per capirne il motivo dobbiamo tornare sulla sottolineatura di prima, comprensione del terrorismo: una formula volutamente ambigua, che finisce per includere sia i simpatizzanti, i fiancheggiatori delle Br e degli altri gruppi, sia chi già allora voleva appunto comprendere cosa stesse succedendo nel paese. Torna utile citare Elvio Fachinelli allora, uno degli intellettuali più importanti di quegli anni, purtroppo oggi semisconosciuto tra i più giovani:
L’approfondimento del reale, in questo settore, è sconsigliato, anzi condannato; consigliato – e praticato – è invece un procedimento di tipo semimagico, dettato dallo smarrimento, in base al quale chi si avvicina o parla o comunque si occupa di un certo fenomeno diventa responsabile.
Così si è radicato un tabù che arriva ai giorni nostri e ancora resiste.
Direi che uno dei principi di questa mistica che circonda la lotta armata in Italia, da destra e da sinistra, è la cosiddetta “geometrica potenza” dell’organizzazione, una definizione che negli anni ha scatenato il complottismo qualunquista (quando si parla di operai della provincia catapultati in fantasiosi campi d’addestramento palestinesi) e l’assurda apologia nostalgica di una potenza militare che non è mai esistita.
Nel dicembre del 1978, sul finire dell’anno segnato dal rapimento e dall’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, Franco Piperno – uno dei leader di Potere Operaio – accennò per primo a questa “geometrica potenza” delle Br in un articolo su Pre-print, una delle tante riviste nate e morte in quegli anni.
Una formula che ha fatto storia, anche se tra tante polemiche. Ecco, penso che abbia senso parlare piuttosto di una geometrica impotenza, proprio per mettere in discussione la leggenda di un’organizzazione perfetta, altamente militarizzata, addestrata…
Parto dall’inizio, dalla prima rapina nella storia delle Brigate Rosse. Una rapina che negli anni assumerà uno status mitologico: in fondo si trattò del primo vero esproprio proletario (un’altra definizione d’epoca) dell’organizzazione. Enrico Fenzi, professore universitario di Letteratura italiana poi passato alle Br, che è stato nella stessa cella di Curcio e Franceschini, in quel memoir incredibile che è Armi e bagagli scrive di come gli venne raccontata quell’impresa. Avevano insistito sulla paura inaudita che li inseguiva – per quella rapina che avrebbe aperto una lunga serie. Non dovevano fallire.
Non perché era la prima volta. Non perché il loro piccolo gruppo sarebbe stato distrutto. Non perché quella rapina aveva per ognuno un valore anche simbolico, di rottura definitiva, di salto. Non dovevano fallire per gli altri: per i loro padri – qualcuno era operaio, qualche altro contadino, quasi tutti erano del PCI e avevano combattuto nella Resistenza – ai quali non sarebbero mai riusciti a far capire quel che erano e quel che volevano. Per le mogli e le compagne, alle quali avevano spezzato la vita. Per gli amici di un tempo, che non li avevano seguiti e li condannavano.
Se avessero fallito, sarebbero finiti in galera prima di avere dimostrato qualsiasi cosa; non sarebbero mai esisti. Eppure approfondendo la dinamica di quella rapina, la storia prende dei contorni meno epici, quasi tragicomici. Prima di tutto, il contesto: una piccola banca a Pergine, vicino al lago di Garda. Come precisa Mario Moretti (nel suo libro intervista con Carla Mosca e Rossana Rossanda), lì d’estate con il turismo “giravano un sacco di quattrini”. È il 1971, e i brigatisti devono ancora passare in clandestinità. Lo stesso Moretti, per condurre la rapina, ha dovuto prendere le ferie dalla Sit-Siemens.
Si presentano subito diversi ostacoli: intanto, la morale operaia dei rapinatori (“un operaio non ruba”). Per non parlare della rivendicazione: in che maniera avrebbero potuto lasciare una firma? Non potevano ancora permetterselo. Un po’ per modestia, un po’ per moralismo, ma soprattutto perché la loro credibilità di organizzazione rivoluzionaria non esisteva ancora.
L’ostacolo più complicato però, fu probabilmente lo sportello del cassiere. Questo è il racconto di Moretti istesso:
All’inizio seguiamo la tecnica vista nei film. Emozionatissimi, impauritissimi, inespertissimi diciamo la frase canonica: mani in alto, questa è una rapina. Ricordo ancora la scena, tutti alzano le mani impietriti, io che per arrivare alla cassa devo aprire un cancelletto di quelli bassi, con l’apertura tipo saloon. Spingo e non si apre, sbatte contro un impiegato il quale, alla terza volta che lo riceve sul ginocchio, mi fa: guardi che se lo tira verso di sé forse è meglio. Era terrorizzato, e io più di lui.
Solo una delle pistole era carica, però, quella di Moretti. Gli altri due avevano una calibro 6 e 35 (“un affare che non spaventerebbe neanche un cane”) e una Flobert a tamburo, che “ha un aspetto terrificante ma è tutta scena”. La rapina, alla fine, andò comunque a segno: la refurtiva venne nascosta tra le tende di un campeggio vicino al lago di Garda, in mezzo alle famiglie in vacanza.
Forse però l’impreparazione non accompagnava soltanto gli appartenenti ai gruppi armati, ma anche chi avrebbe dovuto combatterli. Questo è solo un estratto dell’intervista a Mario Ferrandi (Ex Autonomia Operaia, Ex Prima Linea). Negli ultimi quarant’anni Ferrandi ha portato avanti un lungo percorso di giustizia riparativa, e continua a farlo.
Mario Ferrandi: Secondo me uno dei motivi fondamentali per cui c’è stata la lotta armata è perché era facile. Faccio un esempio che spiega tutto: fino all’83 i carabinieri hanno sempre comunicato le pattuglie in chiaro. Tutte le comunicazioni tra le centrali operative e le pattuglie avvenivano in modulazione di frequenza; sulle radio normali finisce a 108; da 108 a 112 entravano polizia, carabinieri, marina, tutti. Quindi qualunque ragazzo di sedici anni andava a comprare il quarzo, oppure la compravi già fatta la radiolina, sarà costata 50.000 lire, 50 euro oggi… la usavamo quando facevamo gli espropri proletari nei supermercati.
Poi: quando finii latitante a Roma, scoprii che i compagni dei castelli romani avevano le carte d’identità fatte con la biro. Negli uffici comunali ne tenevano a centinaia: andavi lì, puntavi la pistola, te le prendevi. Però noi ci scervellavamo per capire come compilarle usando la macchina da scrivere… poi scoprimmo che si potevano fare a mano con la biro.
I computer, ovviamente, non esistevano. Era come se non esistessero: la possibilità di incrociare i dati non c’era. Allora ti mettevi d’accordo, in tre facevi l’agguato al metronotte, gli ciulavi la pistola, il tesserino, cambiavi la fotografia, e per un anno giravi per l’Italia comprando in qualsiasi armeria armi e munizioni. Non esisteva internet: però questo non significa che non ci fossero strumenti dell’epoca: gli strumenti erano la guida Monaci e la guida Savallo. Erano delle guide grosse, grossissime, che quasi nessuno comprava, costavano centomila lire all’epoca, però erano in tutti i bar… Erano delle guide che spiegavano tutti i riferimenti per le attività: organigrammi, nomi, orari… all’improvviso rapinare le banche era un gioco da ragazzi, gli impiegati li chiamavi per nome.
Noi andavamo all’arcivescovado e ci pigliavamo le cartine militari d’Italia, che erano declassificate per gli scout… Pigli la cartina e inizi a studiare le strade bianche, in modo che tu riesca ad andare senza passare le strade provinciali e statali dove le eventuali pattuglie cercano di intercetterarti. Se fai il cambio della macchina lo fai sotto i ponti, così l’elicottero non ti vede, l’eventuale elicottero… Ma erano tutte misure che non servivano a niente perché non si alzava nessun elicottero, non succedeva niente. Tu intanto li sentivi con la tua radio, “aquila 1, aquila 2, attendete disposizioni, andate al Casello di Pitignano…”.
Insomma: tutto questo non è mai stato capito, né detto, non solo dallo Stato ma anche dall’altra parte, da quei monumenti equestri che si riconoscono in questa idea di grandeur, io qua, io là… era una roba che la facevano i ragazzi. Per darti un’idea: i finanziamenti occulti, ma per favore! Quel trucchetto delle banche che ti dicevo, i Br partivano da Milano per arrivare a Torino e ne facevano dieci in un mese, dieci, di banche, si fermavano due tre giorni in un posto, dove era stato preparato tutto prima, comprese vie di fuga eccetera; poi ti muovevi al contrario dei malavitosi e andavi via con dei pullman per esempio.
L’altra risorsa che sostituiva internet era la Sormani: la biblioteca di Milano dove tutti andavano, gli studenti… quando succedeva qualcosa si individuava l’obiettivo per capire cosa era successo e quando, visto che tutto l’archivio dei giornali era tutto microfilmato… Quindi insomma veniva deciso – che so – di colpire un capo del personale che aveva sparato sugli operai due anni prima, si andava lì, e si faceva una ricerca, come se fossimo studenti… solo che non era una ricerca di biologia ma, per dire, su Macchiarini.
Uno degli aspetti che mi colpisce di più, banalmente, è quanto giovani foste tu e i tuoi compagni quando iniziaste a militare in Autonomia Operaia prima, e Prima Linea poi. Avete iniziato a occuparvi di politica nei primi anni del liceo.
Devi tenere conto che i movimenti si diffondevano nelle scuole medie superiori, in ogni scuola c’era un collettivo, un gruppo, è un mondo difficile da immaginare oggi. Questo abbassa molto la percezione quando poi ti sposti, diciamo, nel mondo adulto, anche nell’università… è come se avessi tarato nella tua mente un parametro irreale. Spesso eravamo vittime di una semplificazione estrema, ingenua.
Riguardo ai Br: ci erano molto lontani sul piano umano, più che sul piano politico. I Br erano visti come dei veterotestementari… il vento di liberazione non gli entrava in testa, erano dei comunisti degli anni Cinquanta. Per molti aspetti dei conservatori… non si poteva andare a letto con chi ti pareva, non potevi farti una canna, eccettera. Per chi faceva parte dei movimenti di quegli anni l’attrattiva per le Br non era così alta, se alla fine lo divenne era perché si stava inscenando era uno psicodramma, una tragedia, “un’evaporazione orgiastico-estatica” l’ha definita uno storico inglese.
Può esistere una memoria condivisa in un paese scisso?
Ovvio che sì, il motivo per cui non esiste è che non si vuole che esista. Nel senso che i fatti sono i fatti, una rosa è una rosa una rosa, i percorsi sono percorsi, ma bisogna volerlo farle. E non vuole farlo nessuno, neanche gli ex. Per il motivo che ti accennavo prima. Se tu entri in un immaginario epico poi non riesci a vedere le derive irrazionaliste, ti puoi fare un anno, due o tre anni, ma c’era gente che dopo dieci anni era ancora lì… il cervello a un certo punto se ne va, non puoi continuare a fare una vita così a lungo, capito?
Il riferimento alla Sormani mi porta a un’altra intervista, quella a Benedetta Tobagi, giornalista e scrittrice, autrice – tra gli altri – di Piazza Fontana, il processo impossibile (Einaudi 2019). La biblioteca Sormani ha visto mescolarsi vittime e colpevoli. In quegli anni ma non solo: Benedetta Tobagi, come molti storici, la conosce bene.
Benedetta Tobagi: C’è stato da subito un piano su cui le parole dei terroristi sono state studiate e vagliate con approccio critico: poi è iniziata una narrazione che ha invaso lo spazio mediatico, in cui i terroristi raccontavano la loro versione dei fatti. Così purtroppo il senso critico è mancato, e si è creato questo effetto di seduzione che ho riscontrato anche 10-15 anni fa nell’ambiente accademico, l’allure romantico che circonda i terroristi, il loro racconto… Questo ha creato un corto circuito, da una parte ha perpetuato quella mitologia della geometrica potenza delle Br, e altre cose che alla realtà dei fatti si rivelerà infondata, ma soprattutto ha creato una distorsione sulla rappresentazione di quella che era l’Italia dell’epoca. Non solo perché si toglieva spazio all’identità delle vittime, chi erano, perché erano state colpite, e che tipo di Italia rappresentavano, ma perché paradossalmente hanno tolto spazio e rappresentanza a tutto quel pezzo di sinistra e movimenti che non erano mai rotolati lungo il pendio del terrorismo e che di fatto si sono trovati schiacciati dalla morsa della lotta armata, la reazione e la repressione.
Negli anni Ottanta ci sono state delle testimonianze straordinarie da parte di vittime del terrorismo che ancora oggi ci danno delle chiavi di lettura straordinarie; penso soprattutto a Colpo alla nuca di Sergio Lenci, quest’uomo sopravvissuto a un proiettile che si interroga sui suoi carnefici… oppure un libro come I giorni dell’ombra di Guido Petter. Però queste iniziative in realtà faticavano a trovare uno spazio. Era come se la società non fosse pronta ad accoglierli.
Se posso parlare non da storica ma con una sensibilità di pancia… La sensazione che ho sempre avuto è che in quegli anni troppe persone facessero troppa fatica a fare i conti con l’indulgenza con cui avevano guardato al terrorismo; se non alla vera e propria simpatia.
Dobbiamo ricordarci anche di quante persone tra i 50 e i 70 anni si interrogano di continuo perché non sanno cosa li abbia trattenuti da fare il salto nel buio, entrare in clandestinità. Non solo c’è chi l’ha fatta franca. C’è chi porta anche il peso di chi si è salvato senza sapere perché, mentre tanti amici sono finiti molto male. È perturbante. Per esempio mi sono fermata a lungo su queste foto dei terroristi giovanissimi chiusi nelle gabbie ai processi.Sono giovani, ridono e scherzano, è ben visibile il travaglio che vivono, le discussioni tra di loro… Però questa cosa, in realtà, è una curiosità che mi ha lasciato mio padre [Walter Tobagi]. Alcuni degli articoli che ha scritto giravano intorno a questa curiosità: chi sono questi ragazzi, e perché questi ragazzi uccidono?
Sono andato a leggere quegli articoli. Il più impressionante, per sobrietà e lungimiranza, è senza dubbio “Vogliono i morti sembrare vivi”.
Un articolo che riassume benissimo la dinamica di quelli che erano gruppi chiusi, gruppi che perdevano i riferimenti con l’esterno perché legati da fortissimi legami affettivi e solidarietà reciproche… trovavano senso e giustificazione soltanto nel continuare a fare quello che facevano, a prescindere da quelli che erano gli sbocchi esterni. È per quello che poi quando si sono aperte le crepe, con il contatto verso l’esterno, queste esperienze si sono vaporizzate.
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Memoria condivisa è un ossimoro, credo lo si possa definire così. Le memorie se sono autentiche, specialmente laddove ci sono state delle divisioni profonde, dove ci sono state guerre civili, conflitti sociali profondi…, come possono essere condivise? Quando ci sono stati dei vissuti così radicali, intensi, da portare qualcuno a uccidere e qualcun altro vedere la propria vita devastata da queste morti? Oppure anche solo a trovarsi sul fronte opposto, pensiamo alla memoria di chi militava nelle forze di polizia…
Un’espressione che può avere più senso è memoria storica condivisa. Perché le memorie possano avere un margine di confrontabilità, e trovarsi a dialogare tra di loro, dobbiamo metaforicamente metterle a sedere intorno a un tavolo. Il tavolo crea una comunicazione tra queste memorie così diverse, che oltre a un certo livello non potranno riconciliarsi mai: se si riconciliano è perché sacrificano una parte della verità del loro racconto.
Quell’approccio radicale-adolescenziale – così diffuso all’epoca – non riesce a farti capire i vincoli che tengono insieme la realtà; l’accettazione del limite, le caratteristiche fangose della realtà. La consapevolezza che il male è sempre presente e si trasforma. Una volta capito questo tu ti poni rispetto alla realtà in una maniera adulta: e ti rendi conto che non puoi arrivare ad alcun cambiamento radicale attraverso la violenza terroristica (e la storia italiana lo dimostra). Anzi, quando tu vai a vedere quali sono state le esperienze di trasformazione profonda della società, lo straordinario ventaglio di riforme che sono maturate dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta, vedi che sono frutto di molto lavoro, trattative, compromessi.
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Mi sono sempre riconosciuta in una frase di Stefano Levi della Torre, un profondo studioso della cultura ebraica: “La giustizia vuole la punizione del crimine perché non si ripeta; la testimonianza vuole che il crimine sia saputo perché il mondo conosca se stesso; la misericordia vuole che siano riconosciuti la vittima e, quando c’è, il pentimento”.
Estratto dal podcast La bomba in testa, di Nicolò Porcelluzzi, prodotto da Storytel, un racconto dell’anti-epica della lotta armata attraverso le voci di vittime ed ex terroristi e i racconti di storici e intellettuali: sei puntate dedicate al rapporto tra femministe e donne combattenti, tra gli eredi del ‘68 e quelli del ‘77, tra Aldo Moro e i suoi carcerieri, tra la verità dei fatti e il dramma di una riconciliazione forse impossibile.