C osa state fotografando?”, ci chiede perentoria una vecchina ingobbita. “Le case? Fate pure, ma sappiate che la nostra unica vera casa è laggiù”. Indica il cimitero, si volta e si allontana claudicante. Davanti a noi si erge una sorta di tempio greco incompiuto, con tanto di colonne e timpano triangolare. Gli arbusti hanno colonizzato il vialetto d’entrata, e dal semplice cancello di ferro si scrosta l’ultima passata di vernice. In questo angolo d’Europa la morte fa parte della vita, sulle tombe si fanno i pic-nic.
Siamo in una delle strade principali che attraversano la “collina degli zingari” (Dealul Ţiganilor), il quartiere rom (o “cygane” zingaro, appunto, come continua a definirsi gran parte dei membri della comunità) di Soroca, cittadina di oltre ventimila abitanti, polo amministrativo e turistico di questa provincia moldava confinante con l’Ucraina. Ai turisti la cittadina offre due attrazioni principali, una classica e una meno. La prima è la cittadella fortificata risalente alla fine del Quattrocento, di recente restaurata e aperta al pubblico. All’interno non c’è assolutamente nulla, solo un cortile brullo, ma dalle torrette si domina il lungofiume. Di fronte, un gigantesco cuore di plastica stuzzica i turisti a farsi immortalare con la scritta in 3D “SOROCA” e la fortezza come sfondo. La seconda chicca locale è proprio la collina, plasmata da un virtuosismo edilizio che l’ha trasformata in un luogo unico.
Fedeli alla ricerca del “bene effimero della bellezza”, i rom della collina hanno dato alle proprie dimore quel riconoscibile tocco di personalizzazione che contraddistingue il loro tradizionale approccio alla vita. Per i rom il prestigio sociale è tutto, il domani non esiste, si vive solo al presente. Il risultato è un inno al post-moderno, un eclettismo privo di sintesi. Tetti sfavillanti e ville imponenti marcano il paesaggio urbano. Spuntano cupole dorate, merletti e pennoni in ferro zincato, cavalli e leoni scolpiti; ci sono una copia del Capitol Hill di Washington e ben due del teatro Bol’šoj di Mosca. Come in altri luoghi dell’Europa Orientale, la mancanza di una tradizione artistica consolidata e studiata spinge a riformulare i canoni estetici, annacquando i confini tra ciò che è kitsch e ciò che è di tendenza. In un tripudio di ambiziosi abbinamenti di colori, l’ostentazione è considerata un valore, non un disvalore. I turisti che capitano qui e vogliono fotografare queste dimore così peculiari non sono guardati con sospetto. Al contrario, vengono invitati con orgoglio a scattare e riportare a casa un pezzetto dell’inimitabile estetica locale.
Fortezza a parte, infatti, in città non c’è molto da fotografare. Il contrasto visivo tra la collina e il resto della cittadina è prorompente. Dal punto più alto, scrutando Soroca e il lungofiume che accarezza l’abitato, spiccano altri edifici dalle proporzioni ben più ordinarie, grigi e squadrati, e poche case, dal tetto basso. Umili, verrebbe da dire. Il centro città, come in una rappresentazione gotica del Giudizio universale, è la base buia di un triangolo che scintilla al suo vertice.
Non tutte le case sulla collina vantano però ingressi così maestosi. La vistosità degli esterni chiarisce la posizione occupata dagli inquilini nella rigida gerarchia sociale che regge questa comunità. I proprietari delle case più discrete quasi si vergognano di non avere molto da offrire allo sguardo forestiero. “Andate dal mio amico in fondo alla via, lui sì che ha una casa bella”, dice Vasilij. Però poi si ferma, sembra cambiare idea. “Un momento, voi venite da lontano. Lasciate che vi offra almeno un caffè”. Ci accompagna in uno dei bar del quartiere, che funge anche da emporio – sugli scaffali cetrioli sottaceto e salsicce che paiono palloncini. Non ordina nulla per sé, solo tre caffè. Il gestore contribuisce con un bicchiere di vino locale. La Moldova* è una fiera esportatrice di vino, ai tempi dell’Urss rivaleggiava solo con la Georgia. “Mentre aspettiamo che sia pronta la casa principale, dormiamo lì”. Vasilij indica una casetta in muratura, riprodotta in tutti i giardini del rione. “Possiamo metterci anni a costruirla, non abbiamo fretta, un pezzo alla volta”, conclude serafico.
Soroca si affaccia sul fiume Dnestr, quello è il confine con l’Ucraina. Dalla collina degli zingari, guardando al di là del fiume, emerge un panorama molto meno antropizzato, a pochi metri in linea d’aria dal mercato. Una vecchia chiatta affronta ogni giorno la breve traversata, permessa solo ai locali. Il bistrot sulla riva, il Parus (“Vela”, in russo), sembra aver vissuto tempi migliori. Osservato dall’alto, il Dnestr sembra il limes tra civiltà e natura. Sull’altra sponda, distese di campi ucraini verdeggiano verso est, solo qualche covone e sparuti capanni suggeriscono una presenza umana.
Questa cittadina moldava è zona di frontiera, a metà tra due mondi, così come lo stato cui appartiene. Piccola repubblica incastrata tra Romania e Ucraina, la Moldova è stata fino al 1991 la propaggine occidentale dell’Urss, mentre oggi si divide tra spinte europeiste e intramontabili affinità filo-russe. Affinità che raggiungono l’apoteosi nell’irredenta Transnistria, la repubblica separatista che agisce da proxy di Mosca nella regione. Vista da dentro, sembra che la Moldova, il paese più povero del continente europeo, semplicemente, non sappia dove andare. Vive in precario equilibrio; una precarietà che si esperisce anche a livello linguistico. Come a Soroca, anche nel resto del paese si parla soprattutto moldavo (una variante del romeno), la lingua ufficiale della Moldova. Non di rado si sentono, però, anche ucraino e in particolare russo, ancora la lingua veicolare per molti. Nel sud della Moldova si aggiungono alla lista bulgaro e gagauzo, idioma ufficiale della Gagauzia, regione autonoma, a sua volta campo di battaglia tra forze contrapposte. Soroca, la capitale europea dei rom, non può non arricchire questo patchwork linguistico con una particolare variante di romanì, parlata dalla comunità rom locale.
La famiglia di Andrej abita poco distante da quella copia incompiuta di un teatro greco. Ci invitano a entrare a gesti, mentre stiamo passeggiando sul marciapiede opposto. Sorridono e agitano le mani, in segno di saluto. Madre, figlia e figlio minore sono sordomuti. Nicoleta, la nuora, moglie del figlio maggiore, fa da interprete, introducendo i membri della famiglia. Quando negli anni Novanta vivevano in Russia, nel Tatarstan, Andrej è stato campione di lotta greco-romana ai giochi paralimpici. Esibisce con orgoglio un trofeo di allora. Le camere sono ordinate e linde. Come sottolineano i saggi dell’antropologo Leonardo Piasere, nella maggior parte delle culture rom, l’ambito domestico, considerato quasi sacro, deve essere rigorosamente pulitissimo. In casa si entra sempre senza scarpe e le fonti di sporcizia restano fuori. Anche a Soroca, tutte le case, comprese le più appariscenti, non hanno cucina e bagni all’interno. Fornelli e lavatrice sono relegati nel patio esterno; i servizi igienici si trovano in giardino. Mentre ci si scambiano taciti sorrisi, sopraggiunge Adrian, il marito di Nicoleta. “Lavoro all’estero, faccio il rom”, dichiara.
Il sindaco di Soroca, invece, di lavoro fa l’imprenditore. Riceve in un ufficio asettico e spoglio, quasi austero. Sul muro trionfa il tricolore moldavo, con al centro l’uro, il bisonte mitologico simbolo del paese. Come spesso accade all’autorità in provincia, Victor Seu ha il piglio del self-made man e la giovialità del navigato avventore di osterie. Appartiene a quella classe politica moldava che sogna l’Unione Europea, o non di rado una sua versione idealizzata. Fuori dal palazzo del comune, in centro città, sventola una bandiera dell’UE, accanto alla fortezza un cartello recita: “Soroca – oraș european”, Soroca – città europea. Proprio esibendo credenziali da europeista di ferro, Seu afferma di aver invitato numerosi omologhi dell’Europa Occidentale a Soroca per mostrare “come vivono i nostri rom”, qui e nel resto del paese. Specie se confrontata con altri stati europei, la Moldova spicca effettivamente come un’eccezione positiva per il trattamento riservato alle comunità rom. Queste comunità hanno elaborato nei secoli un efficace modus vivendi in sintonia con il resto della società. Sebbene le criticità – in primis l’abbandono scolastico e l’emarginazione socio-economica – siano abbastanza gravi da non poter parlare di una situazione idilliaca, colpisce l’assenza di attacchi contro i rom da parte di politica e cittadini. Soroca, sostiene il primo cittadino, è un modello di integrazione e dialogo tra comunità diverse. Un modello per l’Europa.
Fu durante la guerra fredda che Soroca divenne la capitale di tutti i rom dell’Urss e della Bulgaria. Qui infatti viveva Mircea Cerari, il barone dei rom. Per capire il prestigio di cui godeva questa figura è sufficiente ricordare la fine di Mircea. Così un reportage uscito su D nel 2003, firmato da Nando Sigona, raccontava il funerale del barone:
Si radunò una folla enorme. Rom da tutta la Moldova e dai paesi limitrofi giunsero al villaggio per porgere l’ultimo saluto al ‘re degli zingari’. C’è chi dice fossero quindicimila persone, chi quarantamila. […] L’organizzazione del funerale richiese due settimane, durante le quali il corpo del defunto fu tenuto in fresco alla meglio con dei lastroni di ghiaccio. […] Il corteo funebre, circondato da due ali di folla, accompagnò, per le strade linde del quartiere zingaro fino al luogo della sepoltura, la bara del re. Una bara luccicante, costruita interamente in cristallo e ampia, tanto ampia da contenere un televisore a colori, un fax e un cellulare, proprio come aveva disposto il re prima di morire.
A Soroca, tuttavia, i rom si stabilirono ben prima dell’era sovietica. Lo certifica Nicolae Bulat, un’auctoritas nel campo: lavora al Museo di Storia ed Etnografia della cittadina, è diventato ziganologo per passione. Affascinato fin da bambino dai suoi concittadini dalla pelle scura, ne ha ricostruito la storia, ne ha indagato le dinamiche sociali e, frequentemente, ne ha preso le difese. In questa zona della Moldova i rom vivono almeno dal Medioevo. Da servi della gleba di proprietà dei nobili e del clero fino all’Ottocento, in epoca sovietica furono in gran parte occupati nei kolchozy locali. “Si trattò in pratica di una nuova forma di schiavitù, che per loro fu particolarmente pesante: abituati a spostarsi per il territorio soprattutto per rivendere merci, fu loro vietato di muoversi, in quanto ai contadini del kolchoz, in Moldova e altrove nell’Urss, le autorità sovietiche negarono a lungo il passaporto interno, necessario per qualsiasi spostamento”, spiega Bulat. Quando a metà degli anni Settanta il regime sui documenti si allentò, i rom presero a concentrarsi sulla collina, una zona ancora non urbanizzata, ai margini del centro, eppure molto vicina ad esso. Il boom edilizio che avrebbe reso celebre Soroca in tutta l’Urss esplose in questa fase.
“I rom cominciarono a costruire queste case vistose nella tarda epoca sovietica. Durante la perestrojka, si aprirono i primi spazi per l’iniziativa privata, spuntarono cooperative di piccola-media dimensione. I rom si rimboccarono le maniche e, dimostrando un notevole spirito imprenditoriale, seppero sfruttare le nuove opportunità sorte in campo lavorativo, fiscale ed economico. Avevano una buona rete di contatti, i rom di Soroca erano famosi anche in Siberia”, spiega Bulat con un sorriso. Lo stesso Mircea Cerari fondò una cooperativa di successo, specializzata in tessuti. Se per i moldavi intraprendenti gli ultimi anni dell’impero sovietico furono tempo di vacche grasse, al crollo del Muro di Berlino una violenta crisi economica si abbatté sulla Moldova indipendente. Moldavi e moldave furono costretti a prendere la via dell’emigrazione. Tra loro, molti rom. La maggior parte delle abitazioni sulla collina è rimasta incompiuta, molte sono oggi disabitate.
Come prevedibile, coloro che dormono sulla collina nutrono a proposito dell’Urss una nostalgia profonda. “In Unione sovietica si stava meglio e, con qualche modifica al sistema sociale e politico, io sarei favorevole a un ritorno all’Urss”, afferma lapidario Artur Cerari. Dalla morte del padre Mircea ha ereditato la carica di barone dei rom, diventando un punto di riferimento per le comunità zigane dei paesi nati dal disfacimento dell’impero sovietico. Qualche anno fa gli hanno dedicato un documentario, Der Zigeunerbaron. Oggi lavora come consigliere per le questioni rom del governo di Chișinău, la capitale. Nel cortile della casa a tre piani in mattoncini rossi, la limousine blindata del padre giace ruote a terra sotto agli alberi, il cofano ricoperto da uno strato di foglie morte e polvere. È una Chaika nera, lo stesso modello di quelle che usava la nomenklatura moscovita. Da quando Mircea è morto nessuno ha più il diritto di toccarla.
Godendo di un potere solo nominale, il barone osserva fatalista le mutazioni demografiche che stanno riplasmando anche la sua comunità. “La gente se ne va, emigra, qui non c’è più nulla da fare”, afferma con rassegnazione, versando del tè. “Le condizioni economiche non consentono di restare. Cosa serve a noi zingari? Noi non abbiamo bisogno di nulla, solo che ci lascino libera e aperta la strada per viaggiare, per vedere il mondo. Grazie a Dio, adesso la gente emigra, in Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan, Cina, Iran, Azerbaigian, Georgia, Cecenia”. Invece una volta? “Guardate me, sono zingaro e ho studiato a Mosca, all’MGU, la più prestigiosa università sovietica”, afferma Artur, con orgoglio. “Ho frequentato la facoltà di Scienze internazionali, ho imparato l’inglese e il francese. Guardatevi intorno ora, osservate quanti ragazzini qui non vanno a scuola”. Il francese del barone è però arrugginito e lacunoso, come le ville abbandonate della sua collina. Dopo qualche parola torna al russo: “Sono passati tanti anni, excusez-moi, madame”.
Smagliante nella sua tuta Adidas con ricamato lo stemma dell’Urss, il nipote di Artur, Robert Cerari, autorità giuridica dei rom di Soroca, riecheggia i giudizi dello zio. La sostanziale tolleranza di cui beneficiano i rom di Soroca, a suo avviso, è un lascito sovietico. “Grazie a Dio, qui in Moldova noi zingari non possiamo dirci vittime di abusi o violenze come sento accadere alla nostra comunità altrove, anche in Italia. Noi zingari non ci sentiamo come se fossimo arrivati ieri e dovessimo scappare domani. Questa è la nostra casa e tutti stanno bene a casa propria”, chiosa Robert.
È quasi sera e diluvia. La gente si affretta nelle vie per trovare rifugio al nubifragio. La pioggia scroscia sulla facciata della fortezza. Imperturbabile ed enigmatica, la collina degli zingari aspetta l’indomani per tornare a scintillare su Soroca.
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*La questione se preferire il toponimo Moldavia o Moldova è ampiamente dibattuta e non esiste una linea comune. Noi ci siamo documentati e preferiamo “Moldova”, per due ordini di ragioni: 1) questa denominazione non genera ambiguità perché indica soltanto lo stato con capitale Chișinău, e non la regione storica romenofona né l’attuale regione orientale della Romania; 2) i cittadini moldavi, diaspora in italiana inclusa, preferiscono si usi “Moldova” per differenziarsi dai romeni, con cui hanno una cultura e una lingua molto simili. Qui come la vede il principale portale in italiano sul paese.