P alla è un’orca, il suo ultimo amore la chiama Porcotta e da orca a Porcotta, in effetti, la differenza è poca, si tratta di alcune lettere, l’aggiunta di un vezzeggiativo. E il vezzeggiativo è proprio quello che manca: nessuno mai nel romanzo d’esordio di Domitilla Pirro si riferisce alla protagonista con un soprannome dolce, che la vezzeggi, appunto. Sua sorella la chiama Mina, dal diminutivo Palmina, ma questo la fa uscire dai gangheri, probabilmente perché suona troppo da presa in giro, considerato che l’ultima misura che abbiamo del suo peso è 144, 77 kg: “Clara, precocissimo panzer (per impulsi e grazia, mai per figura. Non lei), era costretta a dividere c’a’a mina – vale a dire con Palma, Palmina, Mina; d’iniziale minuscola, però: mina amputatrice”.
Il soprannome Palla che compare come sottotitolo del romanzo – Diario vorace di Palla – le viene affibbiato dalle Tigri agli Scout, mentre lei fu battezzata Palma, perché nacque miracolosamente viva la domenica prima di Pasqua. Il racconto di quel parto difficilissimo, che avviene al terzo capitolo del romanzo, sollecita l’attenzione del lettore, già destata dall’uso che Pirro fa della lingua. Esso risulta, infatti, molto funzionale alla costruzione dell’ambientazione del romanzo: la storia di una famiglia di origini modeste che vive nella periferia di Roma agli inizi degli anni ’80: “la dondolò sulle ginocchia per farle finire il laccebbiccòtti poi chiese a Clara quanto fosse bella mamma: bellamolìle”. Oppure: “li comandava tutti quella sorella schifida ciccia”.
La descrizione del parto colpisce, invece, per la sua puntualità schietta:
Poi c’è la fase espulsiva – eri corridoio, adesso sei porta. Il feto spinge sulla soglia: e per la soglia questo equivale a un premito sul sacro, come se, sì, come se si dovesse andar di corpo, come se s’avesse un insopprimibile bisogno di farsela addosso, perché partorire è come mettersi a cacare in pubblico, e magari intanto te la sei fatta addosso veramente, tu, Stefania Vettori, e lei, la tua fica santa, adesso è spalancata che fa corrente, e però è colma, piena, ma non come per una bella scopata tipo quella che sognavi di farti col truzzo della scuola guida, no, la fica è otturata in direzione opposta, in uscita, e tu invece sei sempre lì spanata a subire l’invasione, ma dal di dentro.
Tanto corpo in Chilografia, sarebbe stato strano il contrario, del resto. Chi abbia un qualche ricordo di grassezza o anche solo di paffutezza in età infantile o prepuberale riconoscerà come sacrosanto il terrore di Palla delle “partite a palla avvelenata, partite che avevano il discutibile merito di aizzare i maschi contro le femmine e rompere contemporaneamente apparecchi fissi, occhiali, amicizie, autostima”.
E molto dolore, ma mentre la carne è protagonista da subito, come dimostra la citazione sulla venuta al mondo di Palma, il dolore arriva poco a poco, avviene per inerzia. L’inerzia si definisce come una forma di stasi, di immobilità, per questo risulta interessante come molla per l’innescarsi del dramma e della tragedia nel romanzo di Pirro. Non è così usuale che in una storia non siano gli avvenimenti a scatenare il dolore, soprattutto non è scontato che questa modalità di tratteggiare il cambiamento, senza azione, risulti accettabile per il lettore. A rendere il romanzo interessante è allora la solidità dei personaggi, la veridicità dell’inerzia di Palma, che trova il suo apice dopo la laurea triennale, quando la giovane protagonista, che deve confrontarsi con la scelta di continuare gli studi o iniziare a lavorare, si ferma, in casa.
La fragilità di Palma, che corrisponde a un vuoto nella più banale delle interpretazioni della voracità patologica, è talmente ben raccontata che nella lettura essa si incolla a chi legge, come se quell’appiccicoso, la viscosità di tutto quel cibo, di quella condizione sempre più asfissiante, diventassero anche la cifra dell’esperienza della lettura: non ci si stacca, ma fa male. Come un’orca.
Però un’orca è sempre meglio che una porcotta, è anche meglio di un orco, che ha fattezze umane, ma cuore di bestia. Un orco non è certo un mammifero del mare: liscio, bianco e nero, Chanel. Palma è un’orca non solo perché è enorme, ma è anche capace di una violenza infinita, quella che rivolge contro se stessa per esempio, e non solo. In inglese orca si dice killer whale: balena assassina. Questa sapienza anglosassone se la dovrebbero ricordare tutti quelli che ancora si riferiscono alle donne grasse chiamandole balene… Palla docet.