Q uando, nel lontano 1979, il neolaureato Michele Mari riceve “l’azzurro cartiglio” della chiamata al servizio militare poca o nulla è la sua conoscenza di ciò che lo attende: qualche aneddoto e “quel luogo comune, continuamente riproposto dai semplici, secondo cui il servizio militare ‘serve’. Serve a cosa? A ben vedere – tanto ero riuscito a ricavare dall’esame della communis opinio – ad imparare a farsi il letto da soli”. Lo stesso giovane a cui – come ha dichiarato Mari in un’intervista uscita più o meno all’epoca della prima edizione Bompiani di questo libro – “sembrava di essere stato reclutato dalla letteratura e quindi di non poter fare le cose che facevano tutti i miei coetanei”, non immaginava che la sovrana inutilità del militare in tempo di pace potesse offrire alla “recluta letteraria” alcune preziose e segrete soddisfazioni. Certo, sarebbe dovuto passare attraverso innumerevoli “imbrattamenti, tosamenti, trafugamenti, trabocchiettini, soperchieriuole, prevaricazioncelle”, avrebbe dovuto sopportare i ripetuti cameratismi con cui i soldati riescono, quasi masochisticamente, a peggiorare una situazione già di per sé penosa, “come chi spennellasse di marrone una merda bigia per saperla più merda”. Eppure, fra le mura della caserma, quella metafora militare applicata a un giovane letterato avrebbe rivelato tutta la sua ambigua verità.
Il lettore di questo “diario militare” (ma piuttosto che di diario sarebbe più corretto parlare di “memorie”, il libro essendo scritto retrospettivamente e non, come vuole il genere diaristico, giorno per giorno) è disputato da due opposte tendenze, palleggiato tra due alterni e contradditori registri. Anzitutto quello umoristico, qui dominante come in nessun altro libro di Mari, e scatenato da un pirandelliano “sentimento del contrario” che più marcato non potrebbe essere: da un parte la finezza del letterato, la sua cultura umanistica, la sua scrittura preziosamente artata – dall’altra la vita della caserma, gli ammassamenti quotidiani, i già citati intrattenimenti camerateschi e tutte le rigide e ancor meno letterarie imposizioni: i servizi, le corvé, i lavori manuali. Ecco ad esempio, come il narratore autobiografico di Filologia dell’anfibio giustifica la collocazione della pulizia dei cessi tra le mansioni meno onerose:
e poi, perché nasconderlo? un lavoro che ti fa pensare a Rabelais e Céline ha nella stessa oltranza della sua sconcezza i germi del suo riscatto letterario, e a saperla prendere nel verso giusto l’esperienza della Merda può regalarti un senso infantile di pienezza fantastica.
La cifra più appariscente di queste memorie è dunque una netta e appunto umoristica discrepanza tra la forma espressiva scelta da Mari e le vicende, gli oggetti, i personaggi che hanno occupato l’anno trascorso dallo scrittore alle dipendenze dell’esercito italiano. Come ha scritto Luca Serianni:
gli arcaismi che oggi trovano posto nella narrativa e in genere nella prosa letteraria hanno una forte marcatezza espressiva e caratterizzano in modo peculiare scrittori
“difficili” come Gadda, Manganelli, Consolo, Bufalino. Tra questi anche Michele Mari che, nel suo Filologia dell’anfibio, sfrutta la carica ironica sprigionatasi dall’attrito fra prosaica bassezza della realtà descritta ed elevatezza dell’eloquio (arcaismi propriamente detti: magno grande, d’undique da ogni parte; arcaismi semantici: siccome con valore comparativo; varianti arcaiche: romoros; oltre a reggenze ormai abbandonate: inquieto del domani e esclamazioni melodrammatiche: Ahi dolore, ahi magno sconforto!). (La lingua nella storia d’italia, a c. di L. Serianni, soc. Dante alighieri 2001)
Potremmo aggiungere altri numerosi esempi di prezioso antiquariato linguistico (pria, taloranche, appo), riferimenti colti ad autori come Virgilio, Dante, Manzoni, Elliot e immancabili – come da titolo – tecnicismi e schemi interpretativi tratti dal linguaggio e dall’ordine mentale della filologia e della retorica: glosse, postille, varianti, una lectio difficilior relativa alla produzione del “cubo” (il materasso quotidianamente avvolto nelle lenzuola a formare una simile figura geometrica), elenchi puntigliosi, digressioni, sinossi, climax nell’ordine di presentazione dei vari momenti della caserma, ecc.
Quella di Mari è una rigorosa organizzazione manualistico-enciclopedica della vita militare, filtrata dalla ratio filologica dello scrittore e dunque notomizzata, strutturata, catalogata, mappata, disseccata. I lavori, le mimiche dei superiori, gli scherzi dei soldati, gli abiti, le armi, le visite dei parenti, ogni minimo dettaglio del microcosmo militare è passato al vaglio severo e straniante del giovane letterato (“di tutto fui scrutatore, tutto attentamente studiai”). Numerosi disegni da lui stesso realizzati (illustrazioni, schemi, mappe, prospetti), intervengono laddove l’insufficiente precisione della scrittura richieda un complemento iconico (come da manuale, appunto). La saturazione filologica del mondo militare di Mari sembrerebbe causata da una necessità psichica prima ancora che da una deliberata intenzione comica: di Filologia dell’anfibio si potrebbe isolare la stessa “comicità tragica e involontaria” che Mari ha messo in luce nei diari di Gadda (nel capitolo dedicato allo scrittore milanese de I demoni e la pasta sfoglia,), effetto della idiosincratica personalità dello scrittore e della sua incorreggibile, e però artisticamente specifica, inettitudine al vivere semplice e comune. Tale comico-tragico (forse più tragico che comico) scaturito da un contrasto radicale tra la realtà e la sua traduzione letteraria, è certamente uno degli aspetti più caratteristici e accattivanti della narrativa di Mari in generale.
Nella caserma Gaetano de Cordevolis di Como il contrasto è tuttavia risolto, a momenti, da una più profonda coincidenza: l’ordine maniacale, il nevrotico formalismo dello scrittore perde molto del suo anomalo esotismo di fronte alla constatazione di un mondo già di per sé anomalo e maniacale, già nevrotico e formalizzato. Non più inetto ma zelante e motivato, il giovane laureato diventa allora il rispettoso e quasi ammirato custode dei rituali e dei protocolli della caserma. Nell’ordine militare la recluta scopre qualcosa di simile a ciò che lo scrittore cercava nell’ordine delle parole. L’inattesa coincidenza, questa insperata agnizione, costituisce il secondo registro, quello che si potrebbe chiamare il “registro sublime” del diario militare di Mari. Di fronte al continuo spreco, all’ingiustificato sperpero di formalità e di riti bizzarri:
Come non pensare, allora, che come quella teologica anche la tradizione militare abbia corteggiato l’assurdo, raffinando nei secoli una tecnica di designificazione delle cose proprio a marcare la propria alterità appo la vita normale? Perché non credere che questa enorme, flagrante demenza non celi una astuzia tignosa, che facendo del non-senso il proprio unico senso non consegua perfettamente il proprio fine, ciò è a dire perpetuarsi come una liturgia resasi pura forma, come un motivo ornamentale solutosi in mero ritmo?
La cerimoniosità, la vuota ritualità, l’ordinamento gerarchico incontrano il fondo più regressivo e maniacale della filologica sensibilità di Mari. Il piacere con cui lo scrittore si diverte a decostruire le movenze dei soldati, a dissezionare una manovra militare o ad allestire, con un gusto quasi araldico, un dettagliato prospetto iconico delle insegne relative ai diversi gradi della gerarchia militare, questo piacere e quello di altri simili esercizi nomencaltorio-classificatori smettono l’abito umoristico per diventare espressione di una vera, di una autentica jouissance: “Di quell’anno dilapidato le formule, gli arcaismi, i decorativi cavilli, le pompe esteriori, i rituali arcani, sono l’unica luce, la sola passione”.
Qualcuno potrà forse sorridere anche di questa confessata ammirazione dello scrittore per gli aspetti più retrivi e fossilizzati della prassi militare. Lo stesso Mari non manca di dare alle sue appassionate celebrazioni delle liturgie marziali un’enfasi ambigua e quasi caricaturale, sempre al limite della ricaduta comica, sempre in bilico. Solo per qualche breve lampo e come trattenendo il fiato il lettore potrà vedere la figura in filigrana, l’immagine più nascosta dello scrittore velata dietro il filologico trattamento e l’umoristica contraddizione: “la totale adesione allo stile della vita militare come rituale che surroghi un’inesistente fede” (la citazione è un giudizio critico di Mari sul Deserto dei Tartari, tratto dall’introduzione ai Sessanta racconti di Buzzati, ed. Utet 2006).