L a comicità romana. Fino a qualche anno fa l’aggettivo designava soprattutto uno stile, un immaginario e un’ambientazione; oggi sempre più spesso identifica un oggetto, Roma in quanto tema; forse, Roma come prodotto.
Questa città si presta facilmente a essere uno spazio dove i comici possono esprimersi. Il comico è in sé un dispositivo di antifrasi, e ha sempre a che fare con il potere. La potenza della realtà che svela il potere della rappresentazione. La riduzione al corpo per esempio; siamo a un funerale e c’è un tizio che scureggia. O il dialetto, la lingua popolare, contro l’artificio di una lingua scolastica, professionale, colta; siamo a un funerale e c’è il prete che parla ciociaro stretto. La comicità romana più raramente è una comicità di situazione; la commedia all’italiana molto romanocentrica funziona sempre meglio quando c’è almeno un non romano tra i personaggi o quando la romanità non è il tratto qualificante.
La città di Roma è l’epitome plurimillenaria del potere – impero, chiesa, palazzo, l’autorità della caput mundi, l’inviolabilità della città eterna. La comicità attecchisce dove c’è qualcosa di autorevole da sbeffeggiare. Le tradizioni comiche fioriscono tanto più se c’è una tradizione culturale canonizzata, almeno un pantheon di cui beffarsi. Gli ebrei per esempio hanno una divinità autorevole non da poco, gli inglesi una nostalgia da potenza imperialista mondiale che ancora cercano di rinsaldare con la Brexit (che non è altro che una commedia nera a sé), gli americani un apparato militare-politico che ha colonizzato il pianeta… Non c’è comicità senza che ci sia un’esibizione di potere a cui fare almeno la linguaccia. E Roma ne continua a avere anche se è ormai è una provincia dell’impero; alla comicità bastano le vestigia.
La comicità romana nasce da Plauto, dal suo miles gloriosus che prende in giro la più temibile istituzione dell’antichità, l’esercito romano; o da Giuseppe Gioacchino Belli che ridicolizza il papa.
Cosa fa er Papa? Eh ttrinca, fa la nanna,
taffia, pijja er caffè, sta a la finestra,
se svaria, se scrapiccia, se scapestra,
e ttiè Rroma pe ccammera-locanna.Lui, nun avenno fijji, nun z’affanna
a ddirigge, e accordà bbene l’orchestra;
perché, a la peggio, l’úrtima minestra
sarà ssempre de quello che ccommanna.Lui l’aria, l’acqua, er zole, er vino, er pane,
li crede robba sua: È tutto mio;
come a sto monno nun ce fussi un cane.E cquasi quasi godería sto tomo
de restà ssolo, come stava Iddio
avanti de creà ll’angeli e ll’omo.
La solitudine e l’insensatezza; c’è una descrizione migliore del potere?
La matrice della comicità romana dell’ultimo secolo è Ettore Petrolini, al centro di un canone di cui lui stesso si burlava: “Quando me dicono discendi da questo, discendi da quello, io dico discendo solo dalle scale de casa mia”. Nino Manfredi, Gigi Proietti, il Bagaglino, Enrico Montesano, cento altri consapevolmente e inconsapevolmente rifanno Petrolini in pezzi di spettacoli, di film, con l’idea che si possa creare un teatro per tutti che nobiliti il popolo, e in cui la lingua romanesca e la cultura della strada siano al centro della scena insieme a un Cyrano de Bergerac o un Amleto. E metà degli attori comici romani arrivano a Petrolini per filiazione diretta attraverso la scuola di Proietti.
La macchietta è centrale se vogliamo capire la comicità romana: la macchietta in sé è un archetipo, costitutivamente caricaturale, bidimensionale, con uno stile di movimento meccanico – dentro Petrolini c’è chiaramente un maestro contemporaneo come Meierhold. Le macchiette di Petrolini sono le tracce che si ritrovano in un classico della comicità romana di sempre, il film culto Febbre da cavallo del 1976 e in metà dei cabarettisti e comici romani di oggi – la scena nata negli anni Novanta, da Lillo e Greg a Paola Cortellesi alla generazione dei programmi della Dandini a quella diventata popolare con le televisioni locali e le manifestazioni come all’Ombra del Colosseo e Scqr (Sono comici questi romani), da Max Giusti a Antonio Giuliani, fino alle serie tv e web come Boris. Ma le macchiette, una certa visione bidimensionale se non automatica – persino robotica – del personaggio sono anche in parte la matrice della comicità romana più classica, Alberto Sordi ovviamente, oggi Christian De Sica o Carlo Verdone. E c’entra anche il fregolismo, ovviamente: quelli che abbiamo detto, fino certo a Alighiero Noschese, o oggi a Arturo Brachetti, Corrado Guzzanti, Antonio Rezza, fino a Max Tortora, Max Giusti, Virginia Raffaele.
La funzione Verdone e la funzione Proietti andrebbero studiate a sé. Se Proietti è più decifrabile, Verdone ha un codice meno leggibile: i suoi personaggi partono da una bidimensionalità petroliniana che si adatta dal teatrino off al linguaggio al tempo televisivo dello sketch, ma poi al cinema grazie ai tempi dilatati, alle ambientazioni di una Roma inedita, di periferie estesissime (il palo della morte di Vigne Nuove), riacquista tridimensionalità. Se quindi nei comici petroliniani c’è una comicità che svincola il movimento e il corpo dalla sua carnalità, lavora per addizione o per sottrazione e nella maggior parte dei casi, lo riduce a due dimensioni (la televisione e la pubblicità appunto alimentano anche questo processo), c’è un’altra parte che invece usa il corpo in modo invece pieno, invadente, se non appiccicoso. Un esempio facile sono tutte le scene di Verdone con la Sora Lella o con Mario Brega, dalle olive infilate in bocca in giù.
Il corpo carnale romano torna nella commedia all’italiana o nei film comici spesso attraverso i caratteristi: Mario Brega, la Sora Lella, Angelo Bernabucci, Ennio Antonelli, Milly Corinaldi, Enzo Salvi… Qui c’è Maurizio Battista in uno dei suoi innumerevoli pezzi su Roma che a minuto 2.00 la tematizza: “Come t’accorgi che hai parlato con un romano? Dai lividi sul braccio. Noi romani se toccamo. Parlà co un romano è na colluttazione”.
Il campione di questa comicità invadente con il corpo è Er Monnezza, il comico composto dal corpo attoriale di Tomas Milian e la voce di Ferruccio Amendola, e anche il più sottovalutato nella tradizione romana, proprio perché rompe il tabù della volgarità esibita. Er Monnezza mastica a bocca piena, ciancica, mena; nonostante le gag con Bombolo siano quasi fumettistiche non sono mai bidimensionali.
Tomas Milian è interessante perché la sua comicità è esplicitamente e rivendicativamente volgare, la sua lingua un romanaccio urlato, pieno di turpiloquio. Ma la sua volgarità ha un’intenzione precisa: l’odio di classe e l’iconoclastia e non il cinismo. Quando vediamo la volgarità di un Filippo Giardina oggi, possiamo facilmente rispondere alla domanda su cosa la distingua. Ora un personaggio come Er Monnezza, la sua assenza assoluta di moderazione, sarebbe quasi impossibile da immaginare nel mainstream romano; Il ritorno del Monnezza con Claudio Amendola nei panni del figlio del Monnezza nella Roma degli anni Duemila, è un film dimenticabile, che svuota completamente la carica sovversiva di una Banda del trucido o del gobbo.
C’è anche un’altra ragione, non solo d’immaginario o sociologica per cui è avvenuta questa neutralizzazione: la lingua romanesca si è modulata quasi tutta in un romanoide, come lo definisce Paolo D’Angelo in Lascetece parlà. Il romanoide è la lingua che parlano Flavio Insinna o Teo Mammuccari alla televisione, o gli spot Lavazza (Manfredi, Solenghi, Brignano, Bonolis e Laurenti), fino a arrivare alle Coliche o agli Actual. Il romanoide perde la capacità urticante del dialetto o della lingua popolare, e trova invece la sua estetica non nella sua capacità performativa di un’alterità, ma nel riconoscimento tra chi parla e chi ascolta.
La lingua del Monnezza è la lingua che non parleremmo, altra, eccessiva, sboccata; quella di Amendola, Max Giusti o delle Coliche una lingua media che possiamo parlare tutti nel momento in cui vogliamo essere simpatici, informali. Il successo di Pilar Fogliati, l’imitatrice di dialetti, è l’esito definitivo e insieme il paradossale rovesciamento dell’anticlassismo del romanesco. L’esito è esattamente l’opposto di quello del Monnezza, dove c’era uno smutandamento del potere del linguaggio, oltre che un ostentato conflitto di classe; mentre le imitazioni di Fogliati sono chiaramente classiste.
La stessa origine del nome Monnezza deriva da una presa in giro del cinema d’autore, Trash di Andy Warhol. Qui Dardano Sacchetti, lo sceneggiatore dei suoi film, l’inventore del personaggio del Monnezza, lo racconta e racconta come capì a metà degli anni Settanta il pubblico fosse maturo per trasformare il poliziottesco drammatico e fascistoide in un genere comico e popolare e persino socialisteggiante.
Questi usi del romanesco non sono nemmeno segreti del mestiere; la comicità romana stessa è spesso autoconsapevole, parla di sé, svela il meccanismo dell’antifrasi, o anche semplicemente il ridimensionamento dato dalla familiarità del romanesco. La didascalia fa ridere. Qui per esempio c’è Montesano che lo spiega proprio al Papa. Qui Proietti che lo spiega al pubblico. Qui Marco Giallini che lo spiega ai suoi colleghi. Qui Max Tortora che si fa beffe di quell’obbrobrio di Celentano-Rugantino.
La possibilità di confusione tra l’uno e l’altro uso – quello iconoclasta e quello omologante – deriva dal pregiudizio romantico del dialetto come lingua naturale, che arriva fino alle serie tv o agli youtuber.
La volgarità del Monnezza sembra simile a quella di un altro classico della comicità romana: Remo Remotti, che è una delle poche figure a andare oltre il mainstream informale, romanoide, e arriva invece a essere anche scatologica.
Ma la differenza fondamentale col Monnezza è il suo rapporto con le istanze emancipatrici: per esempio con l’immaginario femminile. Remotti è esplicitamente sessista, la poetica del Monnezza contiene invece elementi di femminismo strampalati, in grado di mescolare una serie di istanze politiche evidenti dell’Italia degli anni Settanta, come nelle scene in cui stigmatizza la violenza sulle donne, in cui subisce il desiderio femminile, o in cui reclama di poter essere mammo.
Una volgarità, un uso estremo, iconoclasta del linguaggio e del corpo è molto difficile da rintracciare nella comicità romana di oggi, se fatta da una donna ancora di più. Non è difficile accorgersi che quasi tutti i nomi citati finora sono di maschi. La scena del cabaret romano, dei teatri off, è difficilissima per una comica, e le migliori (Paola Cortellesi, Paola Minaccioni, Michela Andreozzi, Lucia Ocone…) riescono a trovare un riconoscimento appena scelgono di non essere più soltanto comiche. Una performer straordinaria come Eleonora Danco è riuscita a essere considerata un’attrice di valore e apprezzata anche come comica solo da qualche anno e solo dopo aver confezionato i suoi spettacoli e il suo film N-Capace come prodotti d’autore.
L’autodefinizione della comicità romana oggi quindi passa per la legittimazione nel discorso pubblico di un immaginario ormai riconoscibile, tematizzato, addirittura mercificabile. La contrapposizione tra Roma nord e Roma sud è l’esempio più clamoroso: diventato un genere ormai della comicità romana, quando non un cliché. Ci sono intere serie di sketch dedicati a Roma nord contro Roma sud, dove Roma nord è borghesia con la puzza sotto il naso e Roma sud i coatti parvenu. Ci sono film fortunati che l’hanno rielaborata – Come un gatto in tangenziale e ci sono una serie di comici che la ripropongono in un modo spesso ormai meccanico, come le Coliche, gli Actual, Pilar Fogliati, Romolo + Giuly. Ma è innegabile che funzioni dal punto di vista della risposta del pubblico.
E c’è anche una parte di comicità romana che usa l’iconoclastia, ma come mera aggressività, per attaccare con una presunta scorrettezza politica obiettivi già fragili come le minoranze o il welfare sociale. L’esempio di Enrico Brignano è fragoroso: la famosa battuta Sei nomade? Allora devi nomadare che viene attribuita a Giorgia Meloni è farina del sacco di Brignano. Come i monologhi che prendono per il culo i sindacati, gli scioperi, il senso di legalità… La comicità di Brignano è talmente gonfia di luoghi comuni e facilissimi cliché che persino la sua parodia è ormai datata. Max Palinuro, il personaggio interpretato da Paolo Mariconda, è del 2011; Giorgio Montanini con il suo dissing del 2015 portò all’esclusione da parte dell’agenzia Sosia & Pistoia – che rappresentava anche Brignano – di Montanini stesso e alla fuoriuscita di un’altra serie di giovani comici che erano nel gruppo di Satiriasi.
Quali sono le strade battute dalla comicità romana oggi? La televisione non riesce a rimodulare i tempi del web o della comicità pulviscolare dei social network come aveva fatto con il teatro off, e produce esperimenti fallimentari come Battute?, non valorizzando talenti come Valerio Lundini. Le cose più interessanti provano a inserire i codici della comicità contemporanea all’interno dell’immaginario romano. Per esempio il lavoro di Corrado Guzzanti, che è stato seminale. Oppure innestando o facendo cortocircuitare per esempio la forma della stand up comedy con gli elementi della romanità. Ci sono sempre più serate collettive di teatro comico – stand up, cabaret, teatro canzone – che allargano i pubblici, da Sgombro al Nuovo cinema palazzo alle ragazze – finalmente – di U.g.o. (da Claudio Morici a Gioia Salvatori, da Arianna Dell’Arti a Francesca Staasch…) e non è un caso che i primi tre speciali italiani di stand up di Netflix siano di tre comici romani: Francesco De Carlo, Saverio Raimondo e Edoardo Ferrario. Oppure ripensando la commedia all’italiana alla luce della sitcom americana (e più di recente per esempio il lavoro di Boris o di The Pills) o anche del dramedy (vedi Valerio Mastandrea o i monologhi di Mattia Torre). Oppure lavorando in una tradizione petroliniana, come fanno Antonio Rezza, Daniele Parisi, Ivan Talarico, Daniele Timpano, il gruppo del Nano Egidio.
C’è un interrogativo centrale che resta in carico per chi pensa oggi di fare il comico. Vero, fare ridere è il primo imperativo; ma è chiaro che la riflessione sul rapporto con il potere (del linguaggio, sociale, dei corpi…) non è aggirabile. Al tempo in cui un comico è diventato il demiurgo del partito più votato alle ultime elezioni e oggi si presenta in un video mascherato male da Joker, per capire come inventarsi un mondo alla rovescia occorre un sentimento del contrario molto sviluppato o un colpo di genio in più.