P er salutare Harold Bloom, vogliamo creare un lungo telefono senza fili critico che parta dal Tascabile e salga, indietro nel tempo, fino a Dante: grazie a Rizzoli, pubblichiamo un brano dal Canone occidentale sul nostro poeta, e lo introduciamo con le parole che Joshua Cohen ha scritto per ricordarlo, su richiesta della Library of America. Cohen è uno dei romanzieri di questa generazione più apprezzati dal grande critico, i due hanno anche fatto una bella conversazione per la Los Angeles Review of Books. Cohen è uno scrittore a cui il Tascabile tiene, che unisce tante cose che ci stanno a cuore, dall’invenzione delle parole all’interesse critico per la rete (tra le altre cose ha aiutato Snowden nella stesura del suo memoir appena uscito). In questo ricordo, Cohen continua a inventare parole e a ripescarne di strane, magari qualcosa si perderà in traduzione, ma ci tenevamo a mettere tutti insieme – noi che amiamo l’angoscia dell’influenza più del canone – Joshua, Harold e Dante.
Francesco Pacifico
Bloom è stato lodato per molte cose – fra le altre, è maestro dell’elenco – ma nella moltezza di quell’elenco (saggezza, intelletto, diligenza), è il suo cuore a meritare menzione funebre. Se chiedeste alle generazioni di critici influenzati da Bloom perché la testa avesse la precedenza sul cuore nel solito appello delle sue virtù, direi che risponderebbero che la sua testa era travolgente. E se questo è vero – era travolgente, sì – c’è una risposta ancora più vera ed è che il suo cuore era spaventoso. La sua passione era spaventosa. Più della sua memoria, più del suo gusto, almeno così la vedo io. Mi ha sempre spaventato l’urgenza e, soprattutto, la gravità della passione di Bloom, che trasformò la letteratura in una missione e poté solo trasformare i professionisti e i timbra-cartellino, gli snob e i lettori-sociali in nemici… spesso contro la loro volontà e in modo eterolesionistico. (Ovviamente, Bloom aveva avuto l’intelligenza e la sorte di insegnare a generazioni di suoi nemici il fatto che fossero suoi nemici… Eppure, c’è mai stato qualcuno tra loro che si sia degnato di dirgli grazie?!).
Bloom ha aspettato Il Libro come gli ebrei devono aver aspettato il messia, non passivamente o con scetticismo, ma attivamente, con furore addirittura, facendo le ronde lungo le mura della città e facendo la guardia alle porte per esaminare chiunque passasse – per esaminare quelli che entravano e quelli che uscivano, i mercanti e i mendicanti in pari modo. Questa era la gioia di Bloom, il suo dovere gioioso. Beato chi prende la curiosità per comandamento.
Joshua Cohen
Dante è il più aggressivo e polemico tra i massimi scrittori occidentali, capace, da questo punto di vista, di eclissare persino Milton. Come quest’ultimo, era un partito politico e una setta formata da un solo uomo. La sua intensità eretica è stata oscurata dai commenti degli eruditi, che, anche nei loro momenti migliori, lo trattano spesso come se la Divina Commedia fosse sostanzialmente una riduzione in versi di Sant’Agostino. È tuttavia meglio cominciare sottolineando la straordinaria audacia di Dante, che non ha eguali nell’intera tradizione della presunta letteratura cristiana, Milton compreso.
Nel lungo periodo che va dallo Jahwista e da Omero fino a Joyce e Beckett, la letteratura occidentale non presenta nulla di sublime e irriverente quanto l’esaltazione di Beatrice da parte di Dante, elevata da simbolo del desiderio a status angelico, ruolo in cui diviene un elemento di importanza cruciale nella gerarchia ecclesiastica della salvezza. Poiché, all’inizio, Beatrice è solo uno strumento della volontà di Dante, la sua apoteosi implica necessariamente anche l’elezione di Dante. Il suo poema è una profezia e assume la funzione di un terzo Testamento, per nulla subordinato al Vecchio e al Nuovo.
Dante non vuole riconoscere che la Commedia è un frutto della fantasia, della sua insuperabile fantasia. Il poema, invece, è la verità, universale e non temporale. Ciò che il pellegrino Dante vede e dice nel racconto del poeta Dante mira a persuaderci di continuo dell’inevitabilità poetica e religiosa di Alighieri. Gli atti di umiltà del poema, da parte del pellegrino o del poeta, stupiscono gli studiosi, ma sono assai meno persuasivi del sovvertimento di tutti gli altri poeti compiuto dalla Divina Commedia e della sua tenacia nel dare risalto al potenziale apocalittico di Dante.
Queste osservazioni, mi affretto a precisarlo, si rivolgono contro gran parte degli studiosi di Dante e non contro quest’ultimo. Non vedo come potremmo sganciare la travolgente forza poetica di Dante dalle sue ambizioni spirituali, che sono inevitabilmente stravaganti e non appaiono blasfeme solo perché il poeta vinse la sua scommessa con il futuro nel giro di una generazione dopo la sua morte. Se la Commedia non fosse l’unico vero rivale poetico di Shakespeare, Beatrice sarebbe un insulto per la Chiesa e persino per i cattolici letterari. Il poema è troppo vigoroso per poterlo rinnegare; per un poeta neocristiano come T.S. Eliot, la Commedia diviene un’altra Scrittura, un altro Nuovo Testamento che integra la Bibbia cristiana canonica. Charles Williams – un guru per neocristiani come Eliot, C.S. Lewis, W.H. Auden, Dorothy L. Sayers, J.R.R. Tolkien e altri – arriva ad affermare che il credo di Attanasio («l’assunzione dell’umanità in Dio») non trovò piena espressione fino a Dante. La Chiesa dovette attendere Dante e la figura di Beatrice.
Ciò che Williams sottolinea nell’intenso studio The Figure of Beatrice (1943) è il grande scandalo dell’impresa di Dante: l’invenzione più spettacolare del poeta è Beatrice. Nessun personaggio di Shakespeare, neppure il carismatico Amleto o il divino Lear, è un’invenzione audace ed esuberante quanto Beatrice. Soltanto lo Yahweh dello scrittore J e il Gesù del Vangelo di Marco sono rappresentazioni più sorprendenti o affascinanti. Beatrice costituisce il fulcro dell’originalità di Dante e la sua trionfante collocazione nel meccanismo cristiano della salvezza è l’atto più audace che il poeta potesse compiere per trasformare la fede ereditata in qualcosa di molto più personale.
Gli studiosi di Dante respingono immancabilmente queste mie asserzioni, ma vivono così tanto all’ombra del loro soggetto da perdere spesso la piena consapevolezza della singolarità della Divina Commedia. Quest’ultima continua a essere la più misteriosa di tutte le opere letterarie che il lettore ambizioso possa incontrare, e sopravvive sia alla traduzione sia allo studio approfondito. Tutto ciò che permette al lettore comune di leggere la Commedia deriva da caratteristiche spirituali di Dante che sono tutto fuorché pie nel senso più tradizionale del termine. In fondo, Dante non ha nulla di davvero positivo da dire sui suoi precursori o contemporanei poetici e fa un uso davvero poco pragmatico della Bibbia, ad eccezione dei Salmi. È come se pensasse che re Davide, antenato di Cristo, fosse l’unico predecessore alla sua altezza, l’unico altro poeta davvero capace di esprimere la verità con coerenza.
Come scoprirà ben presto il lettore che si accosta a Dante per la prima volta, nessun altro autore secolare nutre la convinzione così ferma che la sua opera sia la verità, la verità più importante. Milton, e forse il Tolstoj maturo, ci ricordano l’incrollabile sicurezza di Dante, ma entrambi riflettono realtà contrastanti e sembrano più inclini alla visione isolata. Dante è così poderoso – sul piano retorico, psicologico e spirituale – da minare la loro fiducia in se stessi. La teologia non è la sua sovrana ma la sua risorsa, una delle tante. Nessuno può negare che Dante creda nel soprannaturale e sia un cristiano e un teologo, o almeno un allegorista teologico. Tutte le concezioni e le immagini ricevute subiscono tuttavia straordinarie trasformazioni in Dante, l’unico poeta la cui originalità, inventiva e straordinaria fecondità facciano davvero concorrenza a quelle di Shakespeare. Un lettore non italiano che affronta Dante per la prima volta, leggendo una traduzione in terza rima come quella di Lawrence Binyon o la lucida versione in prosa di John Sinclair, subisce una perdita immensa perché non ha modo di studiare l’originale, ma può esplorare ugualmente il cosmo creato dal poema. L’essenziale sono tuttavia la singolarità e la sublimità di ciò che resta, l’assoluta unicità delle capacità di Dante, con l’unica eccezione di Shakespeare. Come nel drammaturgo inglese, in Dante troviamo un’enorme forza cognitiva unita a una creatività che non ha limiti puramente pragmatici.
Quando leggete Dante o Shakespeare, vi scontrate con i limiti dell’arte, per poi scoprire che quei limiti sono stati allargati o violati. Dante rompe tutti gli schemi in maniera molto più personale ed esplicita di Shakespeare e, se crede nell’esistenza del soprannaturale più di quanto faccia il drammaturgo, la sua capacità di trascendere la natura è una caratteristica inconfondibile quanto il naturalismo unico e stravagante di Shakespeare. I due poeti si sfidano a vicenda soprattutto nelle rappresentazioni dell’amore, il che ci riconduce là dove l’amore inizia e finisce in Dante, ossia alla figura di Beatrice.
La Beatrice della Commedia occupa, nella gerarchia celeste, una posizione difficile da decifrare. Non abbiamo indizi che ci aiutino a comprenderla e nella dottrina non vi è nulla che giustifichi la celebrazione di questa particolare donna fiorentina, di cui Dante fu eternamente innamorato. Il commento più ironico su questa situazione è contenuto nell’Incontro in un sogno (Altre inquisizioni, 1937-1952) di Jorge Luis Borges:
Innamorarsi significa creare una religione che ha un dio fallibile. Che Dante professi un’ammirazione idolatrica per Beatrice è una verità che non ammette contraddizioni; che in un’occasione Beatrice si sia fatta beffe di lui, e che in un’altra lo abbia respinto, sono fatti esposti nella Vita Nuova. Secondo alcuni, si tratta di fatti che ne simboleggiano altri. Se ciò fosse vero, rafforzerebbe ancora di più la nostra certezza di un amore infelice e superstizioso.
Borges, se non altro, riporta Beatrice alla sua origine di «incontro illusorio» e alla sua enigmatica alterità per tutti i lettori di Dante: «Beatrice esistette infinitamente per Dante; Dante esistette pochissimo, e forse non esistette affatto, per Beatrice. La nostra devozione, la nostra venerazione, ci inducono a dimenticare quella penosa disarmonia, che fu indimenticabile per Dante».
Poco importa che Borges proietti la propria passione assurda e ironica per Beatrice Viterbo (si veda il suo racconto cabalistico, L’Aleph). Ciò che lo scrittore sottolinea astutamente è la scandalosa sproporzione tra qualunque cosa Dante e Beatrice abbiano vissuto insieme (quasi nulla) e la visione dantesca della loro reciproca apoteosi nel Paradiso. La sproporzione è la strada privilegiata di Dante verso il sublime. Come Shakespeare, Alighieri riesce sempre a farla franca, perché entrambi trascendono i limiti di altri poeti. L’ironia (o allegoria) dilagante dell’opera dantesca è racchiusa nel fatto che l’autore dichiara di accettare i limiti proprio mentre li viola. Tutto ciò che, in Dante, è vitale e originale è anche arbitrario e personale, ma viene presentato come la verità, conforme alla fede, alla tradizione e alla razionalità. Viene quasi sempre frainteso finché si fonde con il normativo, e alla fine ci troviamo di fronte a un successo che Dante non poteva vedere di buon occhio. Il Dante teologico dei moderni studiosi americani è una fusione di Agostino, Tommaso d’Aquino e i loro compagni. È un Dante dottrinale, così pio ed erudito da poter essere compreso appieno solo dai suoi professori americani.
Tra gli scrittori, gli eredi di Dante sono i suoi veri canonizzatori, e non sempre si tratta di individui espressamente devoti: Petrarca, Boccaccio, Chaucer, Shelley, Rossetti, Yeats, Joyce, Pound, Eliot, Borges, Stevens, Beckett. Dante è quasi l’unico elemento che accomuna questi dodici autori, sebbene nel suo oltretomba poetico divenga dodici Dante diversi, il che è del tutto comprensibile per uno scrittore della sua forza; esistono tanti Dante quasi quanto esistono tanti Shakespeare. Il mio Dante si allontana sempre più da quello che è divenuto il Dante squisitamente ortodosso della moderna dottrina e critica americana, rappresentate da T.S. Eliot, Francis Fergusson, Erich Auerbach, Charles Singleton e John Freccero. Una tradizione alternativa è rappresentata dal filone italiano che iniziò con lo speculatore napoletano Vico e continuò con il poeta romantico Foscolo e con il critico romantico Francesco De Sanctis, per culminare, all’inizio del XX secolo, nello studioso di estetica Benedetto Croce. Se si combina questa tradizione italiana con alcune osservazioni del tedesco Ernst Robert Curtius, un illustre storico letterario moderno, emerge un’alternativa al Dante di Eliot, Singleton e Freccero: un poeta profetico anziché un allegorista teologico.
Un estratto da Il canone occidentale di Harold Bloom (Biblioteca Universale Rizzoli).