D urante i primissimi minuti e i primi mesi di cammino attraverso lo spazio oscuro, non abbiamo attribuito troppo peso alla questione della durata della nostra permanenza. Sapere come si dipanava il tempo era l’ultimo dei nostri pensieri. Per cominciare, dovevamo conoscerci e abituarci gli uni agli altri.
Myriam, ad esempio, è rimasta a lungo assai distaccata e fredda. Si rivolgeva a noi con la più grande prudenza e senza mai lasciar trapelare il proprio scoramento. Il fatto è che doveva acquisire la certezza che non avrebbe subito alcuna aggressione, sessuale o di altro tipo, da parte dei due uomini che l’accompagnavano, cioè da Goodmann e da me, e, nell’oscurità totale in cui ci trovavamo, era difficile per lei farsi un’idea di quel che potevamo valere come persone. Da vivi facevamo parte della stessa organizzazione, ma avevamo lavorato in uffici diversi e non avevamo mai avuto occasione di far conoscenza. Sapeva che in quanto membri del Partito avevamo condiviso gli stessi princìpi etici di fraternità e compassione. Ma adesso che tutti e tre eravamo sprofondati in un mondo cinereo, fluttuante, imprevedibile, spaventoso, come poteva essere certa che da un momento all’altro non ci saremmo trasformati in demoni erranti, in monaci maschilisti o peggio ancora, in non so quali ossessi della lascivia, in semi-umani gonfi di sperma, aggressivi e mugolanti? Io stesso avevo provato terrore nel constatare che non avrei compiuto da solo quella traversata priva di speranza. Non avevo timore di battermi contro compagni pervasi da un’improvvisa follia omicida, giacché prima di vagare per lo spazio oscuro avevo comunque raggiunto un buon livello tecnico, e mi sembrava sarei riuscito a cavarmela come un tempo, in caso di lotta corpo a corpo. Ciò che temevo era, però, di dovermi sorbire le chiacchiere ansiose di vecchi colleghi inadatti alla solitudine, che tentassero di condividere la loro paura, le loro sofferenze morali e la loro assenza di futuro. Trovarmi di fronte a logorroici in preda al panico era quel che più mi spaventava. Dal canto suo, suppongo che anche Goodmann diffidasse della nostra solidità mentale o morale. Aveva trascorso il primo mese in un silenzio ostinato, senza farci mai la minima domanda dopo che noi gli avevamo svelato la nostra identità e le circostanze del nostro decesso.
Inizi faticosi. Tuttavia, a poco a poco, abbiamo imparato a stare insieme. Una volta superata la reciproca diffidenza, superata e dimenticata, abbiamo formato un bel gruppetto, procedendo a tastoni verso il nulla, perlopiù in apnea e a palpebre aperte o chiuse nel cuore di tenebre bituminose. Tenevamo conto gli uni degli altri e fra di noi regnava una schietta solidarietà, un affetto ruvido tra compagni o tra morti.
Non voglio dilungarmi sulle difficoltà di adattamento al nuovo ambiente. Ci sono stati alti e bassi, anche se è assai comune definire gli universi in cui ci si ritrova dopo la fine della vita come luoghi in cui gli opposti si annullano, e dunque privi di un alto o di un basso. Ma è pura speculazione, degna di buddisti più o meno esaltati, questa storia degli opposti che si sovrappongono, si confondono o non hanno più ragion d’essere. La realtà è più sfumata. L’alto esiste al pari del basso, o perlomeno si ha ogni motivo di supporlo, quando se ne fa l’esperienza. Non c’è alcuna volta celeste, non si vede niente, tutto è buio, ma si è pursempre sul fondo di qualcosa mentre si cammina, su una strada che si sviluppa orizzontalmente, su una strada in basso, bassi su una strada. La si avverte sotto i piedi e non sopra la testa. È un dato difatto. Nello stesso tempo, però, a voler sapere su cosa si cammina, esattamente su cosa, si rimane nell’ambito di perenni congetture. Riguardo alla materia che si calpesta e si attraversa. Qualche volta vi sembra di avanzare in una densa fuliggine, qualche volta su sottili scorie ferrose, oppure su della sabbia, su un pavimento che risuona, su lastre di cemento, su della terra arata, su un suolo duro ricoperto di muschio, oppure sulle ceneri, o su un groviglio di tessuti polverosi, di sciarpe e stracci attorcigliati alle caviglie, che vi portate dietro per ore o giorni.
Per ore o giorni.
Ecco il punto. Più delle anomalie del suolo, le anomalie del tempo e della durata ci hanno prostrati. Prostrati forse no, ma turbati, sì. All’inizio, come ho detto, non gli abbiamo dato importanza. Non era prioritario stabilire un computo cronometrico del nostro vagabondare, per non parlare del calendario, concetto che si era volatilizzato una volta per tutte dentro l’opacità dell’ombra. Una volta abituati alla presenza degli altri come al nostro bizzarro procedere, avevamo preso a tentar di misurare il tempo, più per un istinto atavico che per la preoccupazione di rispettare chissà quale scadenza, o forse per una malsana curiosità, non so. La nostra respirazione era troppo aleatoria per fungere da parametro. Poteva benissimo succedere di far andare su e giù i nostri polmoni per un po’ e con una qualche regolarità, e dopo smettere di riempirli e svuotarli senza che ce ne rendessimo conto. D’improvviso ci accorgevamo di aver percorso dei chilometri in apnea mentre le nostre sacche polmonari se ne infischiavano.
In assenza di ogni altra base di calcolo, avremmo potuto contare i nostri passi, ma il procedimento era fastidioso e del resto avanzavamo lentamente, incespicando spesso e moltiplicando le soste. Tenere fisso il pensiero su una sequenza di numeri ci ammorbava e, anche quando tentavamo di farlo, la nostra mente subito divagava su argomenti che ci parevano meno aridi: ricordi, riflessioni sulla nostra natura organica, immersioni nel nostro immaginario più segreto, o ancora l’evocazione del trionfo del Partito all’esterno dello spazio oscuro e l’avvento, laggiù, di una società egualitaria e felice.
È Myriam che ha proposto di piantare dei paletti verbali nella materia sfuggente e cupa di cui era costituito il tempo intorno a noi. Avremmo potuto, così sosteneva, raccontare ad alta voce delle storie, e servircene in seguito come punti di riferimento. Goodmann ne fu entusiasta. In passato, aveva preso la parola pubblicamente durante riunioni o incontri e, al pari di Myriam e di me, aveva scritto sotto pseudonimo parecchie raccolte di poesie e racconti. Avremmo avuto risorse letterarie a sufficienza per alimentare i nostri interventi. L’idea era eccitante anche perché vi scorgevamo un modo di ravvivare la monotonia del nostro viaggio. Potevamo tenere il conto delle nostre storie, mi dicevo, ricordarne la successione, e stabilire su tale base uno schema di riferimento che avrebbe conferito un ordine allo scorrere del tempo. Inoltre, a più breve termine, nell’immediatezza delle cose, potevamo misurare una durata più compatta, ritornare al concetto di ora, di mezz’ora e di quarto d’ora, associando la lunghezza di un testo al tempo necessario per declamarlo dinanzi al pubblico. Seduti uno vicino all’altro, ginocchio contro ginocchio e quasi anca contro anca, abbiamo lasciato che Goodmann esordisse in tale impresa.
Estratto da Black Village di Lutz Bassmann (66thand2nd, 2019). Venerdì 18 ottobre, alle 18:00, Lutz Bassmann e Antoine Volodine presenteranno Black Village a Book Pride (Genova). In dialogo con gli esponenti immaginari del movimento, Giordano Meacci.