Q uando bigottismo e disprezzo di sé permeano una comunità, è solo questione di tempo prima che questa assegni una profonda rilevanza metafisica alla forma del teschio umano”. Si pensi a Lombroso o alla frenologia, oppure alla caratteristica tendenza degli incel a denigrare la propria struttura cranica, percepita ed espressa come fatalmente deforme: nel determinismo somatico, nell’ossessione per la chirurgia plastica come possibile salvezza, troviamo una conferma di questa citazione di Lady Foppington. E però, è inutile andare a cercare in quale periodo storico sia vissuta questa donna saggia e lungimirante, e in quale contesto abbia formulato tale legge. Perché Lady Foppington in realtà non esiste, se non come uno dei tanti alter ego di Natalie Wynn, l’attivista transgender e YouTuber meglio nota come ContraPoints.
Il canale ContraPoints nasce ufficialmente nel 2016, con un video in cui Wynn spiega perché ha deciso di lasciare il mondo accademico, dove era docente a contratto alla Northwestern University, ateneo dove ha conseguito il dottorato in Filosofia. Un mondo di saperi troppo chiusi e specifici (sintomatico ed esilarante l’elenco dei titoli delle pubblicazioni snocciolato nel video), dove la sete di conoscenza resta imbrigliata nei grigi rituali accademici e nelle piccole camarille entro cui sgomitare, sperando di guadagnare una posizione. Questo mentre nel web, in particolare in piattaforme come YouTube, l’Alt-right imperversava come un fenomeno in ascesa e fortemente sottovalutato dai media mainstream, che faticavano a coglierne il volto suprematista dietro gli strati d’ironia.
All’epoca Wynn non aveva ancora iniziato il percorso di transizione, tanto che nel video, dopo un trigger warning che avverte sui contenuti sensibili (“alcolismo, disturbi alimentari, vomito, tediosa introspezione”), esordisce così: “prima di diventare il coraggioso, tosto e dipsomane cross-dresser che oggi conoscete…”. Nascosto dietro all’ironia c’è l’attrito tra percezione di sé e riconoscimento dal mondo esterno, il timore e la vergogna ad affermare appieno la propria identità. Ma da quel primo video, nell’arco di tre anni Natalie Wynn arriva a macinare numeri impressionanti: oltre 730mila iscritti al canale, cui si aggiungono i 220mila follower su Twitter e soprattutto i circa 9700 sostenitori su Patreon, la piattaforma con cui Wynn sostiene economicamente il progetto e dove è tra i primi 20 creatori di contenuti. Molto attivo anche il subreddit dedicato al canale: oltre 60mila iscritti che si confrontano sui video e costituiscono lo zoccolo duro della fanbase. Numeri ottenuti grazie alla capacità di decrittare proprio i codici espressivi dell’Alt-right, di guru e influencer della destra radicale americana e di community intrise di mascolinità tossica. A ciò si accompagnano tematiche più tipicamente progressiste, legate all’identità di genere e alle contraddizioni del capitalismo.
Wynn mette in scena le visioni contraddittorie e conflittuali rispetto a un argomento specifico, e ci ricorda come le idee su cui dibattiamo sono più spesso costruzioni sociali che verità oggettive.
Alla base di ogni video c’è un lavoro di ricerca per le argomentazioni oggetto di trattazione o confutazione, con una ferrea logica che fa dei video dei veri e propri saggi di filosofia applicata. La peculiarità di Wynn è nell’inquadrare l’approccio filosofico in una direttrice performativa, tra musiche molto curate (tra cui molte originali composte da Zoë Blade), trasformismo recitativo e drammaturgia dei diversi punti di vista. Se Socrate ci parla dei valori della società ateniese attraverso il dialogo platonico, nei video di Wynn, il suo impersonare diversi ruoli mette in scena le visioni contraddittorie e conflittuali rispetto a un argomento specifico, e ci ricorda come le idee su cui dibattiamo sono più spesso costruzioni sociali che verità oggettive. Così in Punching natsees il dilemma “è giusta la violenza contro i neonazisti?” vede contrapporsi un antifa trozkista e una liberal che finiranno per litigare fino a spararsi contro. Un modo per ricordarci come, a sinistra, l’ortodossia ideologica sappia essere un nemico tangibile e deleterio.
Uno dei tratti più evidenti dello stile di Wynn è appunto la capacità di uscire da uno schema di contrapposizione ideologica frontale, nella quale solitamente tanto più le posizioni sono divergenti tanto più si resta asserragliati nel proprio punto di vista, e quindi il destinatario ideale è qualcuno che la pensa già come noi, che può identificarsi col messaggio. Oltre che all’uso di personaggi che moltiplicano i punti di vista, Wynn ci riesce soprattutto grazie all’empatia. In un video come Incels, per esempio, paragona la loro tendenza all’autodenigrazione all’esperienza personale in quei forum o chat dove le persone transgender si lasciano demolire nel proprio aspetto fisico, assecondando le pulsioni più autodistruttive. Oppure ad app come Tinder, dove l’aspetto fisico e l’apparenza hanno un ruolo preponderante: “la nostra cultura è talmente visiva, e queste app sono talmente incentrate sulle immagini, che non solo la struttura ossea conta, ma conta parecchio. Ed è qui che solidarizzo con gli incel, perché in quanto donna trans so come ci si sente ad avere un’ossessione sui millimetri d’osso.”
Empatizzando col nemico (stiamo pur sempre parlando di una marxista che si rivolge direttamente alla galassia Alt-right), da dietro lo schermo Wynn getta un ponte emotivo verso i soggetti del suo discorso. E, nel caso degli incel, veicola una chiave di lettura che i membri di quella community non sono propensi ad ascoltare perché l’emittente è sgradito: quella community, ci spiega la Wynn, è un culto di morte, e la dicotomia “red pill/blue pill” attende la “black pill”, che incarna le derive più violente – dal suicidio alle stragi che la cronaca ha documentato. Senza quel ponte la chiave di lettura sarebbe sembrata solo una trattazione teorica avente come oggetto gli incel, mentre così prende la forma di un sincero avvertimento diretto a loro.
Empatizzando col nemico, da dietro lo schermo Wynn getta un ponte emotivo verso i soggetti del suo discorso.
Ma l’empatia da sola non basta: se il tuo interlocutore fa dell’aggressività o della denigrazione mascherata dall’ironia un vanto, può trovare nel soggetto empatico una preda ideale, o considerarlo un ingenuo snowflake. Entrano perciò in ballo altri due tratti, umorismo e stile glamour. Se per l’Alt-right umorismo e ironia sono dispositivi dissimulanti (“in un’epoca di nichilismo, l’idealismo assoluto deve nascondersi nell’ironia per essere preso sul serio” recita la A normie’s guide to the alt-right), per Wynn hanno una funzione straniante. Tolgono i punti di riferimento che l’interlocutore potrebbe avere, mettono fuori fuoco le stereotipizzazioni di comodo, le pseudologiche difensive, le argomentazioni che procedono con il pilota automatico. E la componente glamour, che accorpa un lavoro sempre più sofisticato di produzione, l’esibita dissolutezza e gli ammiccamenti seduttivi, affianca al logos la dimensione dell’eros. Wynn non “distrugge con fatti e logica” ma ammalia o spiazza ammiccante come mezzo di contatto, per poter poi entrare nel cuore della questione. Capire e conoscere sono prima di tutto un desiderio, e hanno bisogno di uscire dalla sfera del pensiero per completarsi.
In Decrypting the alt-right: How to recognize a f@scist, Wynn ci introduce all’argomento vestita da nazista. Primo piano sull’anello che raffigura uno Schwarze Sonne al dito di una mano dallo smalto nero, la ripresa si allarga a un monitor dove scorrono le immagini e gli slogan della marcia suprematista a Charlottesville. Quando si passa al commento di una giornalista tivù che vuole farci ascoltare la testimonianza di un veterano della Seconda guerra mondiale, la nostra nazista, che indossa stivali bondage e calze a rete, spegne la televisione (“Scheiße!”, mormora con disappunto). Poi, in un altro schermo, una presentatrice con in mano un cocktail, sempre interpretata dalla Wynn, ci introduce con una grafica glitterata anni ‘80 al programma How to recognize a fascist. Non è immediato decrittare questo gioco di travestimenti e personificazione, dove l’immaginario nazista è avvicinato ma al contempo respinto e deviato attraverso la seduzione.
Nel video dedicato a Jordan Peterson, invece, umorismo e seduzione sono nell’appellativo “daddy” che ricorre per il professore canadese. Un gioco di attrazione fisica e repulsione intellettuale che esplode quando, da una vasca da bagno piena di latte, Wynn zittisce un manichino con il volto di Peterson, che ne ripete i tormentoni. Poi lo avvicina, lo prende nella vasca, lo abbraccia e gli versa del latte sul petto; il cambio di scena ce li mostra poi a letto insieme, lasciandoci immaginare ciò che è avvenuto prima. Un approccio efficace, a giudicare dall’ormai famosa replica che Peterson ha riservato al video: “no comment”. Insolito, per un uomo pronto a dar battaglia con le proprie idee, dibattendo con fermezza e calma.
Wynn non “distrugge con fatti e logica” ma ammalia o spiazza ammiccante come mezzo di contatto, per poter poi entrare nel cuore della questione.
Ma l’approccio di Wynn ha anche delle criticità, o degli inattesi effetti collaterali: cercare di essere il più possibile empatici, attingendo anche al proprio vissuto personale, mostra dei limiti di ricezione all’aumentare del successo, e questo proprio nei confronti della propria area politica di riferimento. Può sembrare paradossale, ma è riscontrabile quando Wynn tratta le questioni di genere (come l’ostilità del femminismo radicale verso le persone transessuali), entrando quindi nel merito delle conflittualità dei movimenti. Proprio dove è più forte la componente ideologica e il senso di appartenenza, dove l’intersezionalità è un processo tortuoso sottoposto a continua negoziazione e ridefinizione, è difficile essere perfettamente inclusivi. Di recente Wynn è stata accusata di discriminare le persone non binarie, per un tweet dove esprimeva disagio per l’abitudine, in molti contesti trans-inclusivi, a dover premettere nelle conversazioni il pronome con cui si vuole essere appellati quando ci si presenta. Si trattava di un disagio personale, legato all’accettazione di sé e al riconoscimento sociale che vive come transessuale. Ma le polemiche feroci che ne sono seguite l’hanno portata a disattivare l’account Twitter: dopo pochi giorni è tornata, lasciando però in mano l’account a una sua collaboratrice. Questo ci ricorda come il linguaggio sia una sfida continua, e che avere dei fan significa che prima o poi deluderai parte di loro.
Al netto delle controversie, un canale come ContraPoints, caso particolarmente riuscito ma non isolato, attesta la volontà a sinistra di recuperare terreno sulle piattaforme che, in questi ultimi anni, hanno visto un uso strategico e massiccio da parte della destra. Non si tratta più ormai di sottrarre le piattaforme all’estrema destra, la sfida è quella di concepire l’abitabilità di quegli spazi da parte di idee che altrimenti, chiuse in recinti dove ci si parla tra simili, rischiano di trasformarsi in riserve indiane o traballanti torri d’avorio.