A lice Rowlands, la figlia del veterinario (così il titolo originale, The Vet’s Daughter), sta tornando a casa – un ambulatorio veterinario “marrone” che puzza di cavolo e animali, a Battersea, zona sud di Londra – e uno sconosciuto inizia a parlarle. Alice, La ragazza che levita (Safarà editore, 2019, traduzione di Cristina Pascotto), ha diciassette anni, un padre spesso scorbutico e a volte crudele, una madre indebolita da una malattia e da anni di abusi. Fa scorrere la giornata in silenzio, pulendo le gabbie degli animali e aiutando in cucina. Gli animali cambiano a rotazione, un vivisezionista passa a ritirare i cuccioli abbandonati, ma quelli adottati dai Rowlands non se la passano meglio: il gatto è stato quasi arrostito nel forno, il pappagallo col vizio di urlare vive confinato nella lavanderia. L’unica amica di Alice, la vicina di casa Lucy, è una coetanea sordomuta che la madre sta formando come sartina. Quando passeggiano a Battersea Park i soldati che cercano di attaccare bottone rinunciano quando vedono che le due parlano con le mani. Una volta a settimana il veterinario visita animali a domicilio, e la madre approfitta dell’assenza per cantare “le tristi canzoni gallesi di quando era ragazza”. L’anno è indefinito, le carrozze fanno presumere l’inizio del ventesimo secolo. Alice racconta la sua storia elencando con candore un sopruso domestico dopo l’altro: un’eroina a cui la propria storia succede, decisa da altri.
Barbara Comyns inizia a immaginare l’ambiente desolato e lugubre di The Vet’s Daughter nel 1945 durante il viaggio di nozze nel parco naturale di Snowdonia, in Galles. La stesura definitiva, centrata su Alice e non più su sua madre, sarebbe stata pubblicata solo nel 1959. Quando Comyns scrive, l’Inghilterra in cui abita è un paese uscito malandato da due conflitti mondiali, al limite della bancarotta, reduce da un decennio di austerità e razionamento, con una capitale bombardata da sistemare. Lei stessa ha passato i decenni tra le guerre senza un’occupazione fissa, inventandosi lavori di ogni genere: cuoca, pubblicitaria, arredatrice, modella d’artista, rivenditrice d’auto d’epoca, allevatrice di barboncini. Non sorprende l’ombra con cui immagina la vita del periodo edoardiano, il primo decennio del ‘900 solitamente interpretato come l’ultimo momento di benessere per il paese a ridosso del primo conflitto mondiale, quando estensione e fiducia nell’Impero erano all’apice.
La comunità creata da Comyns è isolata dai progressi dell’epoca, impassibile alle prime misure di welfare introdotte sotto forma di programmi di assicurazione pubblica, sulla scia delle riforme vittoriane per la protezione dei bambini e degli adolescenti dal lavoro minorile. “Adolescenza” era ancora un’idea di recente invenzione, intesa come un periodo di ambizione e scoperta di sé per i maschi, e di sacrificio per le femmine, il cui compito era capire che abnegazione e sacrificio segnano il carattere della donna adulta. “La conoscenza di sé di una ragazza è il riflesso di quello che gli altri sanno di lei”, scrive nel 1911 l’influente psicologo e pedagogo G. Stanley Hall in Educational Problems. Alice non va a scuola. Lucy non lavora alla macchina da cucire, nonostante all’epoca si stesse affermando come strumento per alleggerire il lavoro domestico: lei continua a confezionare con ago e filo abiti da lutto su misura per le clienti. Nessuna delle donne di Comyns ha idea della militanza terroristica che le suffragette del WSPU si stavano preparando ad adottare – scioperi della fame, vetrine di banche e uffici postali spaccate, lettere bomba, tele tagliate, accette lanciate contro il primo ministro. Il passaggio dall’infanzia alla femminilità matura, per le protagoniste di Comyns, non concepisce l’apertura alla società, ma è una costante rinuncia a se stesse. Crescere è nulla più che sopravvivere, rintanarsi in un nascondiglio per il letargo.
In apertura di “Pure Heroines”, uno dei personal essays raccolti in Trick Mirror: Essays on Self-Delusion (2019), la scrittrice americana Jia Tolentino scrive:
Se fossi una ragazzina, e dovessi immaginare la tua vita attraverso i libri, passeresti dall’innocenza dell’infanzia, alla tristezza dell’adolescenza, all’amarezza dell’età adulta – quando, nel caso non ti fossi già suicidata, semplicemente spariresti.
Tolentino indicizza i titoli del canone della letteratura occidentale che prendono in considerazione la vita delle donne per marcare l’uniformità delle traiettorie che prescrivono: nei romanzi per l’infanzia il personaggio bambina è centrale in quanto tale, col crescere dell’età di lettrici e protagoniste, se una ragazza è al centro della trama, lo è in virtù del suo trauma. “Ragazze violentate, a ciclo continuo, per muovere la trama della fiction per adulti”, conclude la teoria di Tolentino. Alla morte della madre, il risentimento del signor Rowlands nei confronti della figlia diventa crudeltà. Intanto, la matrigna Rose, cameriera del pub di quartiere di scarsa reputazione, abbandona Alice allo squallido collega Cuthbert, una mera pedina narrativa. Lo stupro passa inosservato, Alice si vergogna troppo per raccontare quello che le è successo, “nessun bagno l’avrebbe mai più fatta sentire pulita”. La sindrome post-traumatica si materializza di notte. Non sotto forma di incubi o insonnia, però: Alice levita: “ero sveglia e galleggiavo”. Senza paura e con calma. Le coperte le scivolano via mentre sfiora il soffitto, la dissociazione non è tanto tra mente e corpo, quanto tra corpo e mondo. Levitare è la nuova normalità di Alice, la sua metamorfosi, che però può – e decide di – tenere segreta, ristretta dai muri della sua stanza. “È mal di letto, non mal di mare questo” pensa mentre galleggia nell’aria della sua nuova stanza, nella casa di Henry Peebles, detto Occhiolino, l’assistente di suo padre. Occhiolino scrive “Alice Peebles” su pezzetti di carta, ma l’idea migliore che ha per mettere al sicuro Alice è portarla a lavorare come badante della madre depressa, confinata sull’isola di Hayling, vicina alla costa dello Hampshire.
Comyns non visse mai del suo lavoro di scrittrice. Si considerava una pittrice prima che una scrittrice. Aveva terminato presto gli studi. La necessità di lavorare per sostenere sé stessa e la sua famiglia la accompagnò per tutta la vita. Compiuti quarant’anni, iniziò a pubblicare i suoi romanzi (alcuni con l’editrice femminista Virago): undici in totale. Furono apprezzati al punto da essere adattati in radiodrammi e musical (nel 1978 Sandy Wilson scrisse musica e libretto di The Clapham Wonder, tratto proprio da The Vet’s Daughter), ma non abbastanza da generare un solido o continuativo interesse per l’autrice. Interviste e profili sono scarsi. I suoi diari – conservati dalla nipote nella casa dello Shropshire dove Comyns è mancata nel 1992 – riportano perlopiù aneddoti e note sul tempo piuttosto che convolute riflessioni. Un’abitudine che non sorprende, da parte di una donna le cui ore erano impegnate dal lavoro, la mente presa dagli impegni da risolvere, mai vuota per la contemplazione.
Il soprannaturale di The Vet’s Daughter non spaventa: è routinario, non ha bisogno di soluzioni.
L’esperienza di vita sembra essere conservata tutta nella scrittura pubblica. Una nota al colophon di Our Spoons Came from Woolworths, romanzo semi-autobiografico del 1950, recita: “Le sole cose vere di questa storia sono il matrimonio, i capitoli 10, 11 e 12 e la povertà”. I capitoli indicati parlano di un parto in ospedale terribile e solitario, tre interi capitoli su doglie e travaglio raccontati con il tono distintivo di Comyns, lezioso e svampito, lo stesso di The Vet’s Daughter. L’inconsapevolezza delle protagoniste di Comyns ispira tenerezza, spesso provoca smorfie di imbarazzo. Ma se l’ingenuità di Alice Rowlands, di Sophia Fairclouth – che in Spoons fa piangere la sua interlocutrice quando le racconta la sua storia – è a stento credibile nel contesto della narrazione, è disonesto cercare di applicarla a Comyns stessa. Il manoscritto di Sisters by a River, il suo primo romanzo, fu pubblicato nel 1947 senza revisioni di ortografia e punteggiatura, anzi, gli editori Eyre & Spottiswoode aggiunsero errori per sottolinearne l’innocenza, una decisione che offese Comyns, e finì per valerle la fama, erronea, di “outsider artist”.
Alice è intrappolata in una versione della realtà che non arriva ad afferrare appieno: sa che il suo levitare, per quanto parte del tessuto della sua quotidianità, è oltre la comprensione degli altri. Il pensiero che possa diventare un cespite, tuttavia, non la sfiora: né una risorsa da sfruttare per generare introiti – come intende fare suo padre, facendola esibire vestita da sposa al parco di Clapham Common – e nemmeno come una via di fuga. Che Alice possa volare via grazie alla sua metamorfosi resta un’ipotesi. Il soprannaturale di The Vet’s Daughter non spaventa, è routinario, non ha bisogno di soluzioni. Espone il disagio interno, senza turbare l’economia del racconto o mettere sotto pressione la sospensione dell’incredulità da parte della lettrice. Ricorda, senza alcuna parentela, il realismo magico ispano-americano, e anticipa di vari anni l’antologia The Bloody Chamber (1979) di Angela Carter.
Comyns forse è meno esplicita nella sua rilettura degli schemi archetipici delle fiabe per bambini; certo schiva la rabbia femminista di Carter, ma l’orrore nel senso di dipendenza dagli adulti in cui vivono le bambine è intatto. La giovane donna in pericolo è uno dei tropi della letteratura gotica di epoca romantica, il genere in cui è più probabile si radichi la prosa di Comyns. Nel gotico inglese il soprannaturale è solo in parte il motore dell’inquietudine: non scatena la paura, è una leva che polarizza le disparità di potere tra i personaggi, un potere che ha sempre a che fare con l’osceno, il tabù, l’erotico soffocato. Ann Radcliffe – nome di punta dell’editoria di fine diciottesimo secolo – distingueva nettamente l’orrore dal terrore. L’orrore è esplicito, mostra e racconta le cose più spaventose, ma ghiaccia la mente della lettrice. Il terrore, invece, lavora per suggestioni, costruisce per la lettrice un’esperienza psicologica di paura che la rende conscia dei limiti fisici, e la allena a immaginare possibili eventi oltre la comprensione umana.
Il terrore che impiega Comyns, però, non è mai legato al mistero del soprannaturale, ma piuttosto dipende da minacce tangibili e sempre localizzate in agenti materiali (uomini violenti, il più delle volte). In A Battered Wife Survives, breve saggio del 1978, Andrea Dworkin ripercorre la sofferenza ereditata da anni di abusi domestici:
La memoria del dolore fisico è vaga. […] È una benedizione che la mente possa ricordare gli eventi senza che il corpo li riviva. Se si sopravvive senza lesioni permanenti, il dolore fisico recede, finisce. Si perde. La paura non molla. La paura è un lascito eterno. All’inizio, la paura infonde ogni minuto di ogni giorno. Non si dorme. Non si tollera lo stare da sole. La paura è nella cavità del proprio petto. Si arrampica sulla pelle come un pidocchio. Fa piegare le gambe, saltare il cuore. Blocca la mascella. Le mani tremano. La gola si chiude. […] La vittima della violenza incapsulata porta la violenza reale e la memoria della paura con sé sempre. Insieme, la inondano come un oceano, e se non impara a nuotare nel mare terribile, affoga.
Il radicalismo di Dworkin è tanto inflessibile nella spartizione delle responsabilità quanto cristallino nell’elencare le ripercussioni fisiche e mentali, prima che sociali, della violenza.
Comyns blocca Alice in uno stadio precedente alla controreazione. “La rabbia della reduce è sanguinaria. È più pericolosa per sé stessa che per chi l’ha ferita” scrive Dworkin in conclusione di A Battered Wife Survives, congela il processo (psicologico e narrativo) allo stadio mentale. Il perturbante di Comyns è affine a quello di The Bird’s Nest (1954, Lizzie in traduzione italiana), romanzo quasi contemporaneo di Shirley Jackson: neurocognitivo, non soprannaturale. Le personalità multiple di Elizabeth Richmond frammentano il senso di realtà quanto il corpo traumatizzato di Alice che galleggia nell’aria, ma non sono pericolose quanto i tranelli e cappi materiali, legali, ben visibili a tutti, alla luce del sole. È la rigidità di un contesto neurotipico che assegna un carattere inquietante alla competizione per il dominio del corpo tra Elizabeth, Betsy, Beth e Bess. Le forme vulnerabili predilette da Comyns, l’ingenuità che è propria sia della voce che del personaggio, generano apprensione e malessere perché rifiutano di adattarsi alla scaltrezza necessaria per prosperare, accontentandosi di sopravvivere nell’ombra. Comyns, infatti, crea un realismo gotico che suona troppo gentile per passare come una solida denuncia sociale: la preoccupazione di Comyns è modesta, nasce dall’esperienza personale, limitata, e non ambisce a una valenza universale. I suoi esempi di femminilità adolescente ci bastino per confermare il sospetto di G. Stanley Hall, il pedagogo che teorizzava su come educare le ragazzine: “dell’anima delle ragazze si conosce così poco, ma potrebbe contenere il segreto dell’universo”.