I l Grande Raccordo Anulare non dovrebbe esistere. E infatti non esiste. Il Grande Raccordo Anulare è una bugia, un trucco, un imbroglio e un inganno.” Si apre in questa maniera assurdamente lapidaria Remoria, l’ultimo libro di Valerio Mattioli: descrivendo l’immane “ouroboros d’asfalto lungo sessantanove chilometri complessivi a quattro corsie per senso di marcia”. Anche se si tratta di una delle autostrade più trafficate d’Europa, fu costruita a Roma, nella “città invertita”, quindi ideata sotto il segno dell’ambiguità. Non è infatti chiaro se Eugenio Gra, colui che la progettò nel 1946, fosse al corrente del fatto che in quegli anni il traffico automobilistico cittadino scarseggiava, per non dire che “era più facile incontrare una mandria di bovini guidata da un buttero a cavallo che una Fiat 500 modello Topolino”. Sembra assurdo, ma il GRA, anche solo iconograficamente, è uno dei simboli che più direttamente rimandano a Roma. Una sorta di Colosseo dell’urbanistica. Eppure questa è la sua storia. Anche perché, stessa cosa accade con la Linea A della Metro: “essendo di fatto l’unica vera linea metropolitana esistente in città, veniva meno al primo e principale prerequisito di qualsiasi rete metropolitana propriamente detta: e cioè di essere – appunto – una rete”.
L’origine di Roma, narra la leggenda, è fondata sull’omicidio fratricida che Romolo impartì su Remo. Ma, come dice Valerio Mattioli, “per secoli l’ombra del Remo redivivus, l’eventualità sempre possibile della “cerchiatura del quadrato”, si è allungata sotto forma di rito necrofilo, di potenzialità sinistra, di sortilegio”. La “borgatasfera” è il teatro di questa Roma invertita, ontologicamente oscura e trasversalmente marginale, in cui diviene necessario riattualizzare la voce di “un capellone senza un dente e agghindato con ciondoli e altri ammennicoli freak”, protagonista di un filmato RAI, ribattezzato su YouTube “Ragionamenti Alienati nella borgata Romanina 1976” per ergerlo a “capolavoro di arte oratoria degno di stare a fianco dei classici di Cicerone”.
Ma da questo punto di vista, ancora più indicativo è l’esempio del ragazzo di Torre Maura che rispose ai militanti di Casapound con l’ormai celebre “Io so’ de Torre Maura e nun me sta bene che no”: “un ragazzino di quindici anni, un borgataro qualunque, un pischello come già lo ero stato io in quegli stessi luoghi”. Un barlume di positività in una Roma completamente incattivita, che pesta il panino pur di non sfamare un rom. Ormai priva di valori, è quella stessa Roma che a furia di prendere tangenti ha finito per avere “i campi rom più grandi d’Europa” e ha costruito il suo spazio-mondo “sul rifiuto e sullo scarto” – dedicandogli addirittura “un monumento che non poteva che essere altrettanto mastodontico, esagerato, colossale: la discarica di Malagrotta, il più grande sito di stoccaggio di rifiuti solidi urbani di tutto il continente”.
Eppure questa stessa Roma è stata contemporaneamente e paradossalmente scenario di progettazioni utopiche e visionarie. In Remoria si parla infatti anche di “figure paracristologiche come Lory D”, musicista techno le cui “tracce venivano immancabilmente descritte come ‘na sveja, ‘na mina, ‘na bomba”. Ma il più ardito esperimento linguistico probabilmente si ebbe con la scena Virus, attorno la quale “si costruì uno slang surreale e velenoso che replicava nel parlato le danze scattanti al cospetto di Freddy K, insistendo sulla parossistica iterazione della sibilante z – così abrasiva, così inumana, la lettera che chiude l’alfabeto, la lettera della fine, la z di zombie, la sibilante degli uomini-serpente – che con la sua presenza aliena deformava nomi ed espressioni”: “VIRUZ: E LO SAIZ! E SVIDIVI SVIDIVI SVAIZ”. Una specie di romanesco borgatasferico a cui va stretto il romano convenzionale. Dopotutto la borgata è stata da sempre uno dei più improbabili e visionari laboratori linguistici. Bisogna infatti ricordare che nel 1979 si tenne sulla spiaggia di Capocotta, “il luogo tra le cui dune si dava appuntamento da anni la comunità omosessuale per incontri che ormai, di clandestino, non avevano più nulla”, il cosiddetto “Primo festival internazionale dei poeti di Castel Porziano”.
In quella sorta di Woodstock della poesia vi era anche un Emanuele Trevi quindicenne, accorso sulle dune di Ostia per accompagnare una sua amica, “che voleva vedere da vicino Allen Ginsberg, a quei tempi l’hippy più famoso del mondo”. Ma il festival non proseguiva in maniera canonica e “a farla breve, i poeti invitati ad esibirsi, soprattutto i poeti italiani previsti nel programma della prima notte, erano costretti ad affrontare, se se la sentivano, un pubblico ostile, incapace della minima attenzione, intenzionato solo a zittire e umiliare chiunque gli si presentasse di fronte”. In Sogni e favole Trevi racconta della sua esperienza mistica di fronte all’esibizione di “quello stato di eccezione ambulante che era Amelia Rosselli”.
A interromperla e toglierle il microfono dalle mani “c’era un tizio barbuto totalmente sbronzo, avvolto in un lenzuolo che periodicamente spalancava per mostrare il cazzo floscio, tra ovazioni entusiastiche” e una “mentecatta in maglietta e bikini” che “impadronitasi del microfono, cominciò a porle qualche insulsa domanda, come fai a scrivere così, come fai a sentire le cose in questo modo”. Un momento cruciale, in forte contrapposizione con l’esibizione di Amelia Rosselli, i cui “versi si erano consumati rapidi come un fuoco di sterpi, e nell’aria ne rimaneva uno spettrale chiarore, un’insondabile vibrazione”. Lo scontro di due Rome: quella borghese e quella “mentecatta”. Una situazione ben approfondita nell’articolo di Andrea Cortellessa “La bella estate di Castelporziano” che rinomina la “mentecatta” “Ragazza Cioè“:
Nella confusione apparente, ed effettiva, la Ragazza Cioè dice una cosa precisa. Che non a caso viene ripresa da un esponente di non so quale gruppo politico, il sedicente “Pino”, che legge un comunicato contro il modo in cui la stampa borghese ha dipinto il festival: “qui, noi con la nostra presenza, con la nostra energia, la nostra potenza, abbiamo senz’altro dimostrato contro la poesia e la cultura che non sono espressione e comunicazione. […] E ci teniamo a dire a tutti ad alta voce che i veri momenti creativi più veramente genuini e di ricerca […] sono stati rappresentati dagli interventi della ragazza […] che dice: tengo le vibrazioni e devo comunicare le mie vibrazioni!”.
Tra le dune di Castel Porziano, a quanto pare, si giocò la partita tra poesia e popolare dialetto romanesco. Non ci fu nessun vincitore, semplicemente due realtà.
Di queste due realtà è interamente costituito Sogni e favole: vi è Metastasio, “il più famoso scrittore di drammi per musica di tutti i tempi”, Amelia Rosselli, ma anche il Pascoli lesbico, un titolo che Trevi sbircia dal portatile di Cesare Garboli, o il suo amico Arturo Patten (fotografo, vicino di casa di Amelia Rosselli, omosessuale morto di aids), attorno al quale ruota l’intera opera, che parla un italiano con un forte accento americano, molto buffo quando esonda nel romanesco. E così nei suoi pellegrinaggi al centro di Roma – “la passeggiata romana è un’arte acrobatica, ti costringe a cercare un equilibrio, un piede nella realtà, l’altro in chissà cosa” – emergono monumenti, luoghi e personaggi che popolano una Roma borghese sospesa tra nostalgia e fantasia, scrutata attraverso un’ironica indifferenza, quasi aristocratica. Nel recente Roma 2030, Domenico De Masi rimprovera a Trevi questa sua concezione di Roma intesa nei termini di “una componente universale dell’immaginario, un potente dispositivo simbolico, un grandioso allestimento, un’immensa e sconcertante messa in scena”. Dopotutto, nello stesso libro critica cose più o meno simili a Nicola Lagioia e Christian Raimo; sicuramente rimprovererebbe le stesse cose a Picca, Mattioli e Pecoraro.
La Roma immaginata dal resto del mondo è decisamente più cinematografica. Divisa tra il disincanto del boom economico di Vacanze romane, l’accattone pasoliniano e lo sfarzo dei salotti de La grande bellezza, è preceduta da un immaginario romantico che ribolle di Storia, spiritualità, archeologia e gastronomia. È una cosa che si nota immediatamente, nel volto di qualsiasi turista incrociato a passeggiare per le vie del centro. Questa Roma è vera ed esiste. Ma è vera ed esiste, appunto, anche un’altra Roma; quella che ad esempio suscita espressioni facciali differenti ai turisti che cascano nel tranello di affittare una casa a twenty minutes from the centre, inizialmente sicuri di poter affrontare qualsiasi sventura logistica con una Lonely Planet aggiornata. Già i grandi scrittori dell’Ottocento descrivevano Roma in questo modo: la città labirintica e sfuggente che non si arriva mai a conoscere per intero. D’altronde, tenendo presente Stendhal e Goethe come i Colle Der Fomento de Il cielo su Roma, o ancora film come Sacro GRA e Dogman, fornire un’identità univoca a questa città è impossibile. Stiamo parlando di un luogo che ha fatto della convivenza tra l’alto e il basso la sua stessa essenza, una coesistenza che celebra le gesta epiche dei re romani almeno quanto quelle di Totti.
Nell’Introduzione ai suoi Sonetti Giuseppe Gioacchino Belli specificava che il suo compito era quello di ritrarre “le idee di una plebe ignorante” col soccorso “di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta”, ma soprattutto “di una lingua infine non italiana e neppure romana, ma romanesca”. Attraverso queste poche parole il Belli invitava il lettore a un esoterico viaggio nei meandri della Capitale, di una Capitale in controluce che non parlava (se non in termini poco lusinghieri) di clero e nobiltà, bensì di realtà prosaicamente popolari, spesso violente, come pure spesso magiche: il tutto contrassegnato dal sigillo della verità dell’ortodossia del dialetto romanesco. Diversi fattori rendevano i sonetti di Belli così realistici e schietti, ma sono due gli elementi fondamentali: l’uso del romanesco e il ricorso all’aneddotica popolare.
C’è di più: il dialetto romanesco non è nato da un perimetro circoscritto e limitato, come si potrebbe pensare essere quello del limes romano, bensì, come ricorda fieramente Aurelio Picca in questo video, trae la sua origine dalle varie borgate e dalle emigrazioni dei vari paesi circostanti, dai traffici che vi erano tra i romani e i viterbesi o i castellani. Il romanesco rivela infatti il seme meticcio che pulsa nelle radici romane. Lo stesso Picca non è romano, è di Velletri, l’ultimo paese dei Castelli Romani – sempre ammesso che Velletri possa considerarsi parte dei Castelli Romani. E proprio nella sua prefazione a Velletri – Guida alla città, nel 2002, esordiva dicendo: “Non ora. Ma quando sarà il momento scriverò: Arsenale di Velletri infranta”. Questo libro non è mai arrivato sugli scaffali, ma è stato sostituito da Arsenale di Roma infranta, nel quale descrive le gesta di personaggi mitici come Giorgio Chinaglia, colui che “è stato un grande amore per i laziali, e un grandissimo nemico per i romanisti”, o Carlos Monzón, “un pugile argentino semisconosciuto” che sarebbe diventato poi “il primo grande criminale della città”.
Il romanesco è usato da questi autori per raggiungere una via diretta alla verità, anche se non è mai esplicitato pornograficamente, come ad esempio ostenta certo cinema.
Picca sembra essere l’ultimo baluardo di un sapere esoterico, custode di una romanità incrociata tra vitalismo ed esaltazione, che tende costantemente all’Assoluto. Attraverso questi eroi popolari emerge in Picca l’esigenza di riappropriarsi di una teatralità dimenticata e tipica, per l’appunto, dell’aneddotica romana. Nel capitolo intitolato Gli squartati racconta del sequestro del titolare del Caffè Palombini dell’Eur, Giovanni Palombini. Siamo nel 1981, e “i morti di eroina si contavano a tonnellate mentre la cocaina incominciava a cadere in discoteca in una specie di seconda nevicata epocale”. Anni in cui “l’Eterna era spietata e criminale; piena di buffi, di leasing, di avvocati e commercialisti in Mercedes station-wagon e in Volvo 740 sempre station-wagon”. Se è vero, come dice Matteo Santandrea nel suo È stata Roma. La criminalità capitolina dal “poliziottesco” a Suburra, che “con la perdita del principio ribellistico precedentemente rintracciabile nella particolare e ambigua forma di resistenza dell’azione banditesca nata e sviluppatasi in borgata”, per premunirsi attraverso l’illegalità di ciò che la società non era capace di offrire, “l’epidemico decadimento etico-morale può allora definitivamente neutralizzare codici d’onore e strutture ideologiche di un antico modus entis in nome del guadagno rapido, della violenza e dell’assoluto disprezzo per la vita umana”, allora è anche vero che la Roma criminale ricordata da Picca “fu la parte, per assurdo, più vera e sana, prima che la malavita cambiasse giacca senza prendersi la responsabilità di sparare tre colpi in faccia a chicchessia”.
Decisamente meno frenetico lo stile di Lo stradone di Francesco Pecoraro, nel quale l’idiosincrasia, l’elevare la situazione a fulcro di una teoria, assume una dimensione quasi totalizzante, financo esistenziale. Il pensionato che si aggira per Roma, “la Città di Dio” – Roma Ovest per l’esattezza – è quello che incontriamo tutte le mattine nei bar (il bar “Porcacci è un’isola dove trovare riparo nella sequenza inabitabile di negozioni di ferro battuto, oppure di mobili rustici antichizzati, concessionarie Fiat/Renault, “istituti” di finanziamento promettenti fino a diescimila euri subito”), quello diffidente, quello che ha preferito vivere solo per non sopportare il peso di un’altra esistenza, quello che “vestivo con attenzione borghese, avevo i miei modelli, mi piacevano quei mocassini e non altri, ma non era che avessi gusto, semplicemente aderivo a uno stile”. La spontaneità linguistica per Pecoraro è un elemento fondamentale, l’autore raccatta fedelmente frasi romanesche in giro per la Città di Dio per poi farle agire da incipit che intramezzano i vari capitoli del libro.
E infatti, in questa sequela di frasi romanesche che rimbalzano nel flusso di coscienza del protagonista del libro, spiccano alcuni dei caratteristici cambiamenti fonetici che differenziano questo dialetto dall’italiano standard, come ad esempio l’aggiunta della s davanti alla c preceduta da una vocale (piascére anziché piacere), la famosa “sc romanesca”, o i vari rotacismi, mancati dittongamenti, palatizzazioni, ecc… (“Le Marboro rosse ce l’ho ner DNA. Dammene tre pacchetti, che forse pe’ oggi me bastano; Niente cornetti semplisci?; Me dispiasce”). Sebbene queste frasi vengano usate a mo’ di sottofondo urbano, di contesto popolareggiante, a volte accentuandone l’intrinseco umorismo di fondo, Pecoraro se ne serve anche per ridimensionare lo scarto che c’è tra l’originale vocabolo italiano e il concetto che il vocabolo stesso rappresenta: dire piascére anziché piacere, o rèscita anziché recita, fa sembrare più autentici e reali gli oggetti piacere e recita. C’è inoltre da dire che nell’intenso ragionare del pensionato su questioni quali il sesso, il Partito, il lavoro, l’università, la vecchiaia, l’urbanistica, la fornace Hoffman, si avventura egli stesso in sconfinamenti romaneschi, spesse volte ricorrendo alla bestemmia, naturalmente per accentuare il processo di immedesimazione.
Come si sarà capito, similmente al Belli, il romanesco è usato da questi autori per raggiungere una via diretta, senza mediazioni alla verità, anche se non è mai esplicitato pornograficamente, come ad esempio ostenta certo cinema. I quattro autori inoltre si avventurano in maniera solitaria verso la scoperta della loro Roma, dilungandosi in passeggiate a piedi o in macchina. Sono escamotage antiletterari, efficaci metodi di indagine per affrontare questa città incomprensibile.
La Città di Dio di Pecoraro è pienamente immersa in quello che lui chiama “Ristagno”, popolata da gente ormai pienamente borghesizzata che non conosce più il significato della parola “Partito”. Anche quella di Pecoraro è infatti una Roma che striscia inosservata nell’ombra della Roma convenzionale: “diventi parte della città solo se la città ha cercato di ucciderti e non ci è riuscita”. Aurelio Picca, in qualche modo in maniera analoga, considera la sua Roma distrutta un qualcosa che soprattutto negli anni Ottanta aveva brillato in maniera accecante, innervosita com’era da spasmi di eccitazione, perché “i criminali e gli artisti di quella Roma, e Roma con essi, erano pagani e cristiani insieme. Uccidevano perché contro il mondo. Scrivevano e dipingevano per lo stesso motivo”. Mentre “adesso Roma è piena di criminali in pantofole, inciviliti”.
Questi libri fanno emergere una Roma crepuscolare che sembra non esistere: oscurata dal Colosseo, dal Papa e dal Quirinale, risulta percepibile solo con la dovuta attenzione.
Valerio Mattioli ricerca in tutto il suo Remoria gli spunti utopici e rivoluzionari, dalla Roma che fu a quella di oggi, azzerando il tasso di nostalgia; anzi, rintracciando nelle “nuove forme di vita” una sorta di prosecuzione del proletariato giovanile del Settantasette, perché “il margine ha stabilito un continuum che proprio dalla disidentificazione del punto d’origine trae la sua ragion d’essere”. Da questo punto di vista, gli spunti politici offerti dal libro di Emanuele Trevi possono essere percepiti solo lavorando con l’immaginazione. Nelle sue lunghe passeggiate, spesso accompagnate dalla pioggia, in cui si elucubra metafisicamente su questioni come “Perché siamo al mondo? Che cazzo significa?”, una regola fondamentale è questa: “a differenza di quello che potrebbe sembrare – la capacità ricettiva è sollecitata dalla stanchezza, dalla voglia di tornarsene a casa, di imbucarsi in un rifugio confortevole, di togliersi le scarpe”. In questi pellegrinaggi dell’introspezione pura, in cui finita la pioggia i turisti riprendono a “vagabondare nelle vecchie strade, a studiare i menù degli innumerevoli ristoranti, a decifrare le cartine prese in albergo”, non sembra esserci spazio per considerazioni politiche e sociali sulla città. Per Trevi è “come se invece di una città si fossero visitate le fauci di un’enorme bestia addormentata, le zanne incrostate di cibo in decomposizione”: un’analisi che può sembrare neutralmente apolitica, come pure radicalmente anarchica.
Anche se i quattro autori in questione hanno visioni del mondo differenti, soprattutto politiche, sembra che ognuno di essi per costruire una narrazione che intenda dire qualcosa di inedito su Roma senta il bisogno di interpellare personaggi secondari, in qualche modo esclusi dalla massa – o quantomeno appellarsi a loro in maniera laterale. Mi aveva già straniato il trovare una cosa come “Voci di zombie che ti accolgono in una valle serena di bruttezza, come in Scum dei Napalm Death” in Resistere non serve a niente di Walter Siti, ma sono rimasto ancora più sorpreso quando al Salone Internazionale del Libro di Torino, dopo la presentazione del libro di Sogni e favole, ho seguito Emanuele Trevi per chiedergli se apprezzasse l’opera di Emmanuel Levinas. Non avevo ancora letto il libro, ma dalla presentazione avevo percepito dei riferimenti neanche troppo espliciti al suo pensiero. Mi rispose che di Levinas aveva letto solo il testo citato nel libro (che poi era un libro di Jean-Luc Nancy su Levinas), e appena prima di sentir dire cosa avessi da chiedergli – nulla di che, ma mi sono laureato su quell’autore – mi azzittì dicendomi che non gli interessavano le cose troppo sistematiche e di ampio respiro filosofico o teoretico.
Ora mi sembra assolutamente sensata quella risposta, ma lì per lì mi sorprese. Picca, ovviamente, a opere come Totalità e infinito o Altrimenti che essere o al di là dell’essenza preferisce citare Il portiere di notte o Amore tossico, atmosfere ben più congeniali alla sua Roma: “Testaccio era divinamente nera. Budella. Un nero doppio come il sangue che sforna il sanguinaccio”. Mattioli, da esperto di sottoculture, romane e non, è costretto a dedicare ad Amore tossico e L’imperatore di Roma interi capitoli, anche perché nei classici pasoliniani della romanità, come Ragazzi di vita, “non ci trovai niente della borgata infestata dai coatti in scooter che conobbi nella Torre Maura anni Ottanta, né tantomeno capii cosa dovesse dirmi un film del 1961 come Accattone”. Il protagonista de Lo stradone di Pecoraro invece compra libri anche se “non riesco a leggerli tutti e nemmeno ci provo. A volte nemmeno li apro”, quindi non c’è occasione di dilungarsi su ricercati riferimenti letterari. Il suo personaggio, come tutti quelli che lo circondano, passa molte ore davanti alla tv, e potrebbe essere uscito da un racconto di Latte, il primo libro di Christian Raimo, in cui i vari reality show televisivi sono concepiti per “essere trasmissione di culto-e-caso”. Il nostro pensionato preferisce piuttosto ricordare i suoi giorni di lavoro al Ministero, in cui “la mia esistenza in vita era praticamente certificata quasi solo da quelle abbondanti pisciate, quando l’acqua che avevo bevuto al mattino si riversava a più riprese nel sistema fognante cittadino”; appena prima di essere sbattuto in carcere, dove “stavo bene, non avevo niente da fare se non fumare sigarette, offrirne, chiederne quando ne restavo senza”.
Questo e gli altri tre libri fanno quindi emergere una Roma crepuscolare che sembra non esistere. Oscurata dal Colosseo, dal Papa e dal Quirinale, risulta percepibile solo con la dovuta attenzione. Particolari che di solito sfuggono sono invece portatori di una Storia altra, perché forse è soltanto “quando vivi nella quasi totale mediocrità visiva prodotta dalla Città di Dio, che cominci a fare caso a come un oggetto, qualsiasi oggetto, si manifesta nella luce del mondo: non più il solito mi piace/non mi piace, ma chi-quando-come-perché ha fatto questo?”.