Q uesta estate il Teatro di Sardegna mi ha chiesto di ragionare attorno al tema dell’etica nel “piccolo mondo” del teatro, che non può non riflettere le tensioni che agitano il presente del mondo più grande che è fuori da esso, e di farlo attorno a un interrogativo: l’opera d’arte può mantenere un grado di libertà, di autonomia, rispetto al suo creatore qualora questi sia accusato di muoversi in uno spazio non etico? È una questione che fa riferimento, in modo non troppo velato, al caso Jan Fabre, accusato lo scorso anno da una ventina di ex performer della sua compagnia di abusi e molestie sessuali, organizzatisi successivamente nel movimento Engagement. Engagement ha diffuso una lettera aperta per raccontare un ambiente di maltrattamenti e intimidazione all’interno della compagnia Troubleyn, che ha portato all’apertura di un’indagine dal parte del ministero della cultura. A questa lettera di ex collaboratori ed ex stagisti, che non aveva obiettivi giudiziari ma di sensibilizzazione, hanno fatto seguito delle accuse vere e proprie che hanno portato all’apertura di un’indagine presso la procura di Anversa. Jan Fabre ha smentito quanto riportato sulla lettera e negato gli addebiti, ma il caso è diventato uno dei più discussi in Belgio attorno al tema delle molestie in ambiente artistico. Fin qui i fatti. Poiché la vicenda giudiziaria è ancora aperta, è giusto che resti sullo sfondo di questa riflessione, ma la polemica ci fornisce uno spunto per approfondire quanto pesa, nella formazione del nostro giudizio, la qualità umana dell’artista e come questo si riflette sull’immaginario.
Nonostante i suoi lavori siano sempre di alto livello, realizzati assieme a performer di primissimo piano, molto spesso ho attraversato quell’immaginario con un senso di disagio, dovuto alla scelta di spingere sulla triade scandalo/sesso/provocazione, presente a vario titolo e secondo varie modulazioni negli spettacoli. Il disagio non nasceva dall’effetto che lo “scandalo” o l’esposizione dei corpi provocava su di me, quanto dalla constatazione che, nella sostanza, non si produceva scandalo alcuno. Non nel senso in cui l’arte del Novecento ci ha abituati: ribaltamento violento della morale imperante, denuncia del pregiudizio per mezzo dell’ostentazione del suo contrario. È un meccanismo che semplicemente non funziona più: “scandaloso” e “trasgressivo” sono termini entrati ampiamente nel novero delle categorie merceologiche, con cui si mettono in campo strategie commerciali e di comunicazione (anche perché, nel Ventunesimo secolo, chi potrebbe autenticamente dirsi scandalizzato dall’ostentazione sessualizzata e martirizzata dei corpi, come accadeva per esempio nel Prometeo del regista belga?). Il disagio estetico con cui accoglievo quell’immaginario, dunque, era provocato dall’ambiguità etica dell’assunto di fondo, rispetto ai modelli dominanti: non denuncia ma adesione. Con questo non voglio dire che Fabre – e centinaia di registi con lui – abbia cavalcato con malizia l’inevitabile magnetismo che sprigiona dai corpi, al pari di quanto fanno i più triviali dei pubblicitari da cartellonistica quando devono attirare l’attenzione su macchine, elettrodomestici e condizionatori. Voglio dire, piuttosto, che quel magnetismo inevitabile che sprigiona dai corpi è un fatto politico e che, maneggiandolo artisticamente, si finisce inevitabilmente per assumere una posizione politica.
La figura di Fabre appartiene alla folta schiera dei registi demiurghi, dei creatori che tutto possono nel quadrilatero del palcoscenico, spesso in grado di partorire immagini “sovrumane” anche se a discapito degli artisti che “usano”. È l’ennesima incarnazione del regista segnato da un’aura di maledettismo, dal carattere iracondo, dall’intransigenza verso ciò che si frappone come ostacolo alla creazione, e via via tutto il resto del campionario che caratterizza l’artista “stronzo ma geniale”. In sostanza, uno stereotipo. Anzi, “lo” stereotipo del Novecento. Non so se Fabre sia davvero così, se lo sia in parte, o se si tratti solo un racconto mitizzato – non ho strumenti per dirlo. Certo è che, dai suoi spettacoli, fuoriesce l’idea che il corpo dell’attore sia un oggetto asservito interamente alla creazione. Non è certo l’unico artista a spogliare di soggettività i suoi attori: basti pensare alle creazioni corali di Romeo Castellucci, un regista che spesso utilizza donne e uomini “come dei segni” (secondo l’acuta definizione che ne ha dato Rossella Menna). Ma nella riduzione a segno dell’attore non si innesca necessariamente una reificazione, come avviene in certi lavori di Fabre, perché il contesto dell’immaginario è differente. È la triade scandalo/sesso/provocazione, unita all’utilizzo degli artisti come oggetti-corpi, a spingere irrimediabilmente verso le reificazione, e non per volontà di Fabre, ma perché quello spazio di immaginario è oggi inestricabilmente connesso ai grandi conflitti che sul corpo si giocano: libertà o controllo, espressione fluida o codificazione imposta, riappropriazione di soggettività da parte dei soggetti oggettificati o marginalizzati (nello spazio pubblico dominato dall’immaginario eterosessuale maschile, principalmente le donne nel primo caso e le persone non etero nel secondo).
Dagli spettacoli di Jan Fabre fuoriesce l’idea che il corpo dell’attore sia un oggetto asservito interamente alla creazione.
Oggi, tuttavia, al giudizio sull’estetica di Fabre si aggiunge quello sull’etica. Ci si chiede: possiamo continuare tranquillamente ad apprezzare la sua arte dopo le accuse che lo hanno raggiunto? Il groviglio che si può creare tra un corpus di opere che si incentra proprio su quell’immaginario e un regista accusato proprio di abusi sessuali è immaginabile. Le questioni che si aprono sono complesse e stratificate. Proviamo a procedere per punti.
L’opera d’arte non è mai svincolata dal suo creatore. È ingenuo pensare a un oggetto d’arte come a un’idea platonica che si realizza di fronte a noi. C’è sempre un di più, un’impronta umana, che è l’ombra dell’artista e del suo vissuto (lo racconta molto bene Emanuele Trevi in Sogni e favole parlando di Amalia Rosselli – personaggio, in quel caso, tutt’altro che “immorale”). Tuttavia, per quanto odiosa possa essere la figura che si intravede, l’opera d’arte, se è tale, possiede un valore in sé. Altrimenti che cosa dovremmo fare delle opere di un artista antisemita come Céline, o delle poesie di un sincero ammiratore del fascismo come Ezra Pound? Espellerle dalla letteratura mondiale non porterebbe un briciolo di vantaggio alla causa dell’antifascismo e dell’antirazzismo, mentre dal punto di vista poetico resteremmo più poveri. Non è un caso che, nel dopo guerra, a rendere omaggio all’ormai anziano poeta statunitense fu Pier Paolo Pasolini, in una nota intervista del 1967 oggi disponibile online.
Nel novero delle opere censurabili, tuttavia, non ci sono solo quelle di stampo politico. Anzi, il filone moderno dei “degenerati” comincia certamente in campo sessuale con il Marchese de Sade e arriva, ai nostri giorni, a casi come quello di Roman Polanski o di Woody Allen. Il primo, che ha ammesso lo stupro di Samantha Gailey allora tredicenne, il secondo che ha sempre negato le molestie sulla figlia adottiva Dylan, per le quali è stato scagionato. C’è ovviamente una profonda differenza tra il divin marchese, che innerva la sua opera dell’immaginario disturbato che gli appartiene e che è uno specchio rovesciato della decadenza della sua epoca, e due cineasti importanti, ricchi e apprezzati che tutto sommato nelle loro opere riflettono la sensibilità del loro tempo. Tuttavia, anche in questo caso, espellere Rosamary’s Baby o Hanna e le sue sorelle dalla storia del cinema mondiale nulla aggiungerebbe alla causa contro la violenza sulle donne. Perché l’atto censorio, che in sé appartiene alle società totalitarie, non sarà mai in grado di innescare dei profondi cambiamenti culturali, che sono ciò che serve per contrastare problemi epocali come la cultura machista e l’antisemitismo. Di artisti censurabili per le proprie azioni ce ne sono molti – Caravaggio che fu omicida, lo stesso Pasolini nel suo rapporto coi “ragazzi di vita” – ma questo deve spingerci a leggere le loro opere e la loro vita con la lente della complessità. Altrimenti rischiamo la stessa ingenuità di Jonathan Franzen che, dopo aver scoperto che Michelangelo Merisi uccise una persona nel corso della sua esistenza, non riesce più a guardare i suoi quadri con gli stessi occhi.
Si tratta di un discorso assolutorio? No, perché affermare questo non significa che non si possano condannare azioni come quella di Polanski. Per cui, per quanto l’opera porti in controluce la figura dell’artista, non è l’opera che deve necessariamente rispondere delle azioni dell’artista. Per lo meno, non un’opera che significhi qualcosa in sé. Se cambierà, come è possibile che sia, il nostro giudizio sull’autore, ciò nondimeno l’opera può continuare a parlarci, magari proprio per il fatto che da quel momento in poi poggerà, nel nostro immaginario, su un contesto urticante. (Per Caravaggio il discorso è ancora diverso, perché ciò che è lontano nel tempo non può essere giudicato col canone morale odierno. D’altronde anche in giurisprudenza, il passare del tempo sancisce lo scemare dell’interesse dell’autorità a sanzionare una certa condotta.)
L’atto censorio non sarà mai in grado di innescare dei profondi cambiamenti culturali, che sono ciò che serve per contrastare problemi epocali come la cultura machista e l’antisemitismo.
Se la questione è così spinosa, il motivo sta nell’aura che possiede l’artista. Nelle società secolarizzate gli artisti hanno preso il ruolo che, in altre epoche, era dei santi e dei mistici. A loro si concedono libertà che ad altri non si concedono, si perdona ciò che ad altri non è perdonato, gli si attribuiscono virtù che forse non hanno, ma che la loro arte lascia miracolosamente intravedere. Questo atteggiamento è in parte giustificato dal fatto che, con la loro capacità di dare forma a un immaginario che ci parla, ci aiutano a leggere il mondo e la vita. Ne deriva un “senso di riconoscenza” che ha aiutato, nel tempo, a plasmare sia l’idea dell’artista santo che quella dell’artista stronzo. Mentre non c’è nulla di male nel conservare la prima, perché estende un’aura protettiva su quelle persone che decidono di dedicare tutto alla propria arte, anche a volta conducendo esistenze fallimentari, sarebbe invece ora di problematizzare la seconda.
L’artista stronzo è una figura che poggia su una catena di pregiudizi. Ne elenco alcuni: il genio si accompagna alla sregolatezza; la trasgressione è una rottura della morale borghese; la vera arte ferisce; etc… Tutte questi assunti, che in contesti precisi, temporali o culturali, possono significare qualcosa di concreto, decontestualizzati e usati come categorie assolute si sono trasformati in stereotipi, che hanno fornito le coordinate per la figura dell’artista stronzo, colui che dà sfogo alle proprie pulsioni creative fregandosene della sensibilità di chi ha attorno. Diversi grandi artisti, nella storia del teatro, del cinema e della letteratura, sono stati artisti stronzi, qualifica che nulla toglie alla qualità del loro lavoro: un artista stronzo mediocre resta un artista mediocre, un artista stronzo geniale rimane un artista geniale. Il mondo, generalmente, è sedotto dall’artista stronzo, ed è per questo che egli può proseguire imperterrito nella sua stronzaggine. Questa può incarnarsi nel non rispetto dei colleghi (l’artista stronzo è di norma un regista, o un primo attore o una prima attrice) o può sfociare in comportamenti che arrivano all’abuso. Al netto del fatto che ognuno risponde della propria condotta, se collettivamente decostruissimo la figura dell’artista stronzo, privandola del mito che la circonda, forse meno persone sarebbero spinte a interpretare questa figura. Ma, per fare questo, dobbiamo decolonizzare il nostro immaginario dalla figura dell’artista stronzo-ma-geniale.
Nelle società secolarizzate gli artisti hanno preso il ruolo che, in altre epoche, era dei santi e dei mistici: a loro si concedono libertà che ad altri non si concedono, si perdona ciò che ad altri non è perdonato.
Torniamo a Fabre. Non so se il suo peso artistico nel mondo della coreografia sia paragonabile, nei rispettivi ambiti, a quello dei nomi che ho scomodato nei paragrafi precedenti. Ma penso che non sia una questione dirimente – altrimenti resteremmo schiacciati dal mito dell’artista, per il quale tanto maggiore è la fama e la gloria e tante più cose gli si possono perdonare. È però innegabile l’importanza della sua opera, che ha influenzato molti artisti delle generazioni successive. Se faccio nuovamente ricorso alla mia esperienza e sensibilità di spettatore, pur sentendomi distante dal suo immaginario, ho anche assistito ad alcuni suoi spettacoli con autentica partecipazione. Cito su tutti l’esperienza orgiastica di Mount Olympus, lo spettacolo di ventiquattro ore sui miti antichi. Un’esperienza estetica e percettiva debordante, che pur puntando tutto su un titanismo teatrale che ritengo per certi versi superato, resta uno spettacolo di innegabile grandezza.
Quello che va problematizzato, dell’immaginario fabriano, è proprio la sua incarnazione dell’artista demiurgo, una categoria che è stata centrale per tutto il Novecento e che ha perpetrato alcuni degli stereotipi che danno linfa all’artista stronzo, perché la figura del demiurgo crea, quasi in automatico, un contesto dove l’etica del lavoro nella relazione con i colleghi diventa qualcosa di molto labile e rarefatto. Tutto deve sottomettersi alla creazione, che è il fine ultimo di ogni cosa. Mi è capitato già di affrontare questo pregiudizio in un articolo uscito su Minima & Moralia, dove rispondevo alle polemiche suscitate dal racconto di Maria Schneider della celebre “scena del burro” di Ultimo tango a Parigi, per la quale si era sentita abusata. C’era chi affermava che l’espediente della mancata comunicazione di quanto sarebbe avvenuto da parte di Bertolucci e Brando equivarrebbe a uno stupro e chi – come la scrittrice Elena Stancanelli – esortava a distinguere la finzione dalla verità e asseriva che l’arte fa male e come tale va accettata. Senza entrare nuovamente nella querelle, è evidente che un episodio del genere è stato il frutto di un contesto in cui l’etica del lavoro aveva cessato di avere spazio. Ovviamente il fatto che quel film sia stato girato in una delle epoche d’oro del cinema – siamo nel 1972 –, che coincideva con gli anni della cosiddetta rivoluzione dei costumi sessuali, ha certamente contribuito a rendere plausibile l’idea che l’arte venisse prima di tutto.
Se vogliamo decolonizzare quell’immaginario, occorre invertire questa idea di fondo. Non per sminuire l’idea dell’arte, ma per problematizzare i meccanismi che sacrificano l’etica del lavoro in nome della visione di un singolo. Il teatro del Ventunesimo secolo, che nasce dall’esperienza del teatro dei gruppi, che attraversa le potenzialità dell’arte relazionale, che ha pian piano prosciugato l’immaginario del regista demiurgo in favore di una creazione dove ogni attore, performer, tecnico contribuisce alla creazione, è il terreno di coltura perfetto per operare questa decolonizzazione. È un tema di riflessione che attraversa le ultime generazioni senza delimitazione di geografia. Per esempio, in un’intervista che ho fatto nel 2010 a Rafael Spregelburd, il drammaturgo e regista argentino mi raccontò come la sua “teatronovela” intitolata Bizarra fosse stata il risultato del tentativo di tradurre nella realtà un’idea di democratizzazione della scrittura e della messa in scena. Fare uno spettacolo con un centinaio di personaggi, che problematizzava la gerarchia monarchica con cui sono concepiti i classici – con un personaggio centrale e una serie di comprimari più o meno importanti –, significava per lui e per l’ensemble provare a riportare la creazione a un livello democratico e partecipativo. E poiché quell’esperienza si verificava a ridosso della grande crisi economica del 2001 e, anzi, si strutturava come una risposta “smisurata” a un clima depressivo in cui i teatri chiudevano e gli artisti non lavoravano più, l’esperimento per il gruppo argentino era di provare a sentirsi “operai di un’opera che fosse come una fabbrica occupata dagli operai”. Allo stesso modo, in una conversazione con Tiago Rodrigues avvenuta nel 2018 al festival Short Theatre, il regista portoghese sottolineava come concepisce sempre più lo spettacolo come un meccanismo di condivisione di etiche ed estetiche tra pubblico e artisti, dove il pubblico è parte attiva di questa condivisione e gli artisti hanno la responsabilità di creare la fiducia e la complicità giusta. “L’importante non è l’opera in sé, ma l’esperienza di condivisione che si può attivare in un teatro”, ha chiosato l’artista.
Sono concezioni dell’arte e della creazione che si basano sulla condivisione del potere e delle responsabilità. Una visione agli antipodi di quella di Jan Fabre, ma anche della generazione di registi che va da Strehler a Fellini, da Ronconi a Bertolucci. Si tratta di esperimenti non privi di rischi, per quanto riguarda la riuscita artistica, che possono anche scivolare in attestazioni di marca ideologica più che estetica, ma che segnalano una diversa sensibilità sul tema dell’etica del lavoro nelle generazioni attuali. Ovviamente queste modalità non possono essere “prescrittive”: esistono ancora artiste e artisti che realizzano meravigliose opere d’arte in perfetta solitudine o ricalcando i meccanismi “monarchici” senza per questo abusare di nessuno. Casomai l’approccio più interessante da tenere a mente è quello suggerito dal grande maestro russo Vassili Claudienko – alter ego di Claudio Morganti nel divertente e semiserio manifesto Il metodo Morg’hantieff –: mettere in crisi il concetto di leadership. “Mi dicono che a quelle latitudini ci sono dei registi molto crudeli – spiegava Morganti in un’intervista del 2011 – e dal momento che è facilissimo far piangere un attore, perché gli attori sono gli esseri più fragili e più buoni del mondo, Claudienko se la prende con chi utilizza queste pratiche di tortura”.
Il teatro del Ventunesimo secolo, che nasce dall’esperienza del teatro dei gruppi, è il terreno di coltura perfetto per operare una decolonizzazione.
Giungendo infine al caso in sé, se lo prendiamo dal punto di vista giudiziario, al momento penso che si sia poco da dire. Come tutte le persone sotto indagine, Fabre ha diritto alla presunzione d’innocenza finché l’indagine non produrrà eventualmente un processo e in quel processo verrà eventualmente dichiarato colpevole. D’altronde la stessa Ilse Ghekiere – danzatrice e attivista belga che ha fatto partire il movimento Engagement raccogliendo una serie di segnalazioni riguardo delle “#metoo experience” – nell’intervista rilasciata a Gaia Clotilde Chernetich ha ricordato che le persone coinvolte nella vicenda Fabre non fossero convinte di procedere con un’azione legale contro di lui, poiché “nessuno era interessato a [un risarcimento in] denaro o a una forma di punizione”. Ciò nonostante persisteva “un forte bisogno di giustizia”. Per questo hanno optato per una lettera aperta, firmata da soli danzatori, che potesse rende pubblico quanto accadeva all’interno della compagnia Troubleyn e, soprattutto, riuscisse “a dare un nome” al problema. Una scelta che ha colto nel segno.
Separare il ragionamento sull’opera da quello sul caso giudiziario significa, tra le altre cose, seguire un principio garantista che è, in epoca di populismi, un patrimonio politico da difendere. Questo non vuol dire sminuire la battaglia contro gli abusi, come ha ricordato ad esempio Margaret Atwood quando prese posizione a favore di un suo collega docente accusato infondatamente; significa piuttosto che ogni singolo caso va trattato col rispetto che merita. A cento casi come quello di Weinstein, giustamente esecrabili, può sempre fare seguito un caso come quello di Benny Fredriksson, direttore del City Theatre di Stoccolma, caduto in depressione e morto suicida dopo essere stato colpito da accuse di molestie risultate infondate. Al di là di questo, i casi giudiziari esemplari – pure utili da un punto di vista comunicativo – possono avere l’effetto di distogliere l’attenzione da un obiettivo più complesso e tortuoso, che però incide forse maggiormente sul nostro tema: la decolonizzazione dell’immaginario di un settore, come quello artistico, che sull’immaginario ci lavora.
Tornando a Fabre, anche qualora il caso non dovesse avere strascichi legali, va da sé che una così vasta e scoperta dichiarazione di disagio dovrebbe far riflettere a prescindere il mondo della danza e del teatro su alcuni temi, come i rapporti di potere e le possibili derive manipolatorie cui possono portare. E occorre farlo senza naïveté. Nel rapporto tra regista e performer, tra grande maestro e giovane artista, i rischi di una deriva manipolatoria sono altissimi e si verificano costantemente ogni giorno in moltissime compagnie. Ovviamente ciò avviene senza che questo abbia necessariamente una rilevanza penale, ma nonostante questo può comunque avere una rilevanza psicologica. Chi conosce il mondo dell’arte teatrale e della danza sa che a volte i rapporti si avvitano su questioni così complicate, che hanno a che vedere con la necessità di conferma da parte degli attori, sulla mitizzazione dei registi per i quali si farebbe di tutto, sul desiderio di accettazione e su quello di seduzione, da rendere davvero impossibile ricondurre tali rapporti a dinamiche chiare e limpide, dai confini netti, come ci si aspetta che avvenga in altri settori di lavoro. Nel teatro e nella danza si travalicano spesso i confini, e le storie di sodalizi artistici, che a volte si ribaltano in odi feroci, assomigliano assai di più a quelle di innamoramenti tossici e tormentati che non a una classica dinamica lavorativa. Il teatro prende corpo anche all’interno di questa zona di rischio, dove si travalicano limiti che in altri settori sarebbe impensabile travalicare. Inoltre in teatro ci si tocca – a volte fino a scambiarsi fluidi organici –, si vive assieme, si viaggia assieme, si progetta e si parla di estetiche comuni che, per alcuni artisti, hanno lo stesso valore totalizzante di un ideale rivoluzionario. È in questo contesto che “l’artista stronzo” trova un facile terreno dove dare sfogo alle proprie nevrosi.
Quando scrivo che occorre considerare la questione senza naïveté, intendo dire che non si può invocare quella dimensione di rischio del teatro come alibi per giustificare comportamenti offensivi o manipolatori e, allo stesso tempo, che non si può neppure pretendere di addomesticare quella zona di rischio, di innamoramento ossessivo, di seduzione e adesione ideale, al rigore normativo che può invece sussistere per esempio tra i colleghi di uno studio notarile o tra impiegati delle poste. Ciò vuol dire che resteranno sempre delle zone di ambiguità e che dobbiamo rassegnarci a questo? Non esattamente. Vuol dire piuttosto che, affinché gli artisti si sentano a proprio agio nel prendersi i rischi di apertura a un processo creativo che scelgono di assumersi, deve vigere nella compagnia un’etica del lavoro salda e – soprattutto – condivisa. Se molti artisti lo fanno, senza per questo perdere la loro carica poetica, e senza evitare di addentrarsi in quelle zone di rischio che alcune estetiche teatrali scelgono di sondare, vuol dire che è possibile farlo. È solo una questione di scelta.
Decolonizzare l’immaginario teatrale dalla figura dell’artista stronzo non significa necessariamente perdersi per strada il sacro fuoco dell’arte, le tinte esistenzialiste che secondo alcuni abitano questo mestiere, il mito del genio artistico nelle cui mani abbandonarsi. Così come la critica al ricorso della triade scandalo/sesso/provocazione in teatro non va compiuto in chiave sessuofoba, ma piuttosto in chiave di liberazione di quegli stessi temi dalla sierotipizzazione che li ha resi allo stesso tempo inoffensivi e utili allo sfruttamento del desiderio da parte del mercato. Allo stesso modo, la critica al demiurgo teatrale non va compiuta per forza in chiave di addomesticazione e normativizzazione di uno spazio irrequieto come quello del teatro e dell’arte in genere. Ci saranno sempre delle zone di rischio, ma possono essere attraversate con consapevolezza, anziché a causa di una manipolazione.
Volendo affrontare quest’ultimo punto fino in fondo, dovremmo cominciare a problematizzare tutta una serie di immaginari che hanno colonizzato il lavoro teatrale e la filosofia che li ha sorretti nel corso del novecento. Cito, tra tutti, l’idea di “verità” che va trascinata, quasi con forza, dentro lo spazio dello spettacolo, opponendola alla finzione “svilente” che caratterizza il teatro classico e borghese. Un’ossessione che ha permesso a qualcuno di scambiare, ingenuamente, l’idea artaudiana di “teatro della crudeltà” in una forma prescrittiva e letterale. Non si può affrontare, al termine di un articolo già lungo, una questione così capitale, alla quale andrebbero dedicati saggi e maggiori sforzi di analisi. Mi limito, per questo, a lanciare una suggestione: se per qualcuno l’arte ha assunto nella nostra società il ruolo che una volta era riservato alla religione, va ricordato, a chi non voglia necessariamente incappare nelle aridità del laicismo, che tra mistici e fondamentalisti lo scarto è grande.
Una versione più breve di questo articolo è apparsa su anāgata n.1, periodico del Teatro di Sardegna.