Q uando Alan Pauls decide di mettersi sulle tracce di Borges per identificare quell’elemento realmente distintivo della sua scrittura, quel fattore che avrebbe dato nome all’omonimo saggio (traduzione di Maria Nicola, Sur, 2016), si scontra con la necessità di definire il ruolo della lettura per costruire l’opera. “Ogni volta che un libro viene letto o riletto, qualcosa accade a quel libro”, sosteneva Borges. Che si tratti di una trasformazione, di un’alterazione, l’atto di leggere concepito come evento unico e puntuale diventa l’oggetto primario d’analisi nel nuovo libro di Pauls, Trance (traduzione Gina Maneri, Sur, 2019), sulla scorta di quanto evidenziava Borges in merito all’avvenimento lettura nel “fabbricare il libro, costruirlo come un presente continuo, vero, destinato a durare per sempre”; al piacere generato; all’evasione dalla propria realtà; alla dipendenza; alla dimensione fisica dell’esperienza intesa come un trionfo sul corpo. Nel riconoscere il grande debito che la scrittura, definita una “compulsione strategica”, ha nei confronti della lettura, Pauls individua la forma dell’autobiografia resa col distanziamento in terza persona per parlare di sé attraverso il lettore-protagonista. Elegge il glossario come esperimento formale, già evidente ne Il fattore Borges, per muoversi tra parole chiave e strutturare l’opera tra frammenti, citazioni e continue digressioni caratterizzate dall’acuta vena ironica che identifica le sue narrazioni.
Una ricerca stilistica che struttura l’opera innestando riflessioni sul linguaggio con accostamenti al cinema, in particolare a Godard e ai suoi “testi filmati” con interferenze improvvise per costringere lo spettatore a “smettere di guardare per passare a leggere”, e alla musica, nell’identificare l’emancipazione della lettura dal mero atto di decifrazione per diventare “un’arte di intonazione, sincronismo, unisono”. I ricordi e gli aneddoti si ricollegano puntualmente all’età dell’infanzia per risalire all’incontro originario con la lettura ancor prima di diventare lettore: l’ascolto di Der Struwwelpeter e Max und Moritz per voce della nonna paterna berlinese. A partire dalle descrizioni di quel bambino seduto da solo su una panchina con gli occhi fissi su un libro al rovescio che non comprende ma da cui sente di non potersi staccare, Pauls identifica l’urgenza originaria di “isolarsi come ha visto fare ai lettori, concentrarsi e dimenticarsi del corpo cioè essere indifferente e distante e desiderabile come loro”. È ciò che sarebbe accaduto grazie al professore di Lettere Jorge Panesi, il primo ad avvicinarlo a Juan Rulfo e Felisberto Hernández, e a cui deve il regalo, in un pomeriggio del 1974, della prima edizione argentina di Ferdydurke di Witold Gombrowicz. Quei testi osservati anzitutto come opere grafiche, sottolineati come atto di contestazione, di messa in discussione, e che passando di mano in mano si fanno portatori di storie, diventano libri diffusi: narratori delle storie dei loro lettori.
Interessato a indagare la coestensività tra vita e lettura, Pauls rintraccia in quest’ultima un’urgenza organica al pari delle altre funzioni basilari. Riconduce l’alternativa tra leggere o vivere
al tentativo di addomesticare la polivalenza essenziale della lettura. Si legge per vivere quanto per evitare di vivere; si legge per sapere che cos’è vivere e come vivere; si legge per fuggire dalla vita e immaginare una vita possibile.
Proprio a partire da quest’analisi individua le nevrosi del lettore: un vizio impune; un’attesa vissuta come “esercizio tantrico dissennato”; una frettolosità che determina, nella cattiva lettura, una condizione associata a una sorta di lieve intossicazione provocata, sospetta, da un certo tipo di scrittori (per lui da Peter Sloterdijk) e che genera come effetto “qualcosa di volgare, infimo e resiliente – almeno nel suo caso, esemplare tardivo, ma entusiasta del genere – come lo scoramento”.
Di contro, la problematizzazione nel definire la buona lettura si lega anche alla relazione tra comprensione e incomprensione del testo, aspetti che ritiene importanti in egual misura, purché legati tra loro da un rapporto, seppur labile. “Solo questo residuo ermetico, indecifrabile, che scuote, sprofonda nello stupore o lascia perplessi, separa la lettura dall’unica esperienza con la quale non dovrebbe essere confusa: una soddisfazione [..] e le inocula il virus temporale che ne farà un vero oggetto del desiderio: la residualità”. Da Borges, a Bolaño e Cortázar, a Piglia, Arlt, Puig, il tracciato individuato da Pauls nel chiedersi cosa rappresenti la lettura si muove tra continui riferimenti a Kafka, Proust, Barthes e Blanchot, anche calandosi nella prospettiva di alcuni personaggi letterari. Tra quelli rintracciati in Borges, la lettura rimanda a un’esposizione a rischio: “non è tanto ciò che li separa da un mondo ostile quanto, semmai, ciò che li collega, che li getta in esso senza anestesia, in modi spesso avventurosi o insensati”.
Interessato a indagare i limiti dell’interpretazione di ciò che si legge, distingue le letture in due categorie: quelle che entrano a far parte della tradizione e quelle “abusive” che tendono a essere dimenticate. Letture pertinenti, capaci di “reintegrare il pezzo di storia o di politica che mancava”, e letture che imprimono un segno per l’esito contrario, spostando ciò che era “troppo al suo posto, chiuso in sé stesso, protetto da una delle varie identità accreditate – “classico, “radicale”, “impegnato”, tragico”, ecc. – che fanno sì che un testo sia più o meno dove ci si aspetta di trovarlo.” Tema che rimanda a quanto affrontato ne Il fattore Borges in merito alla definizione di un classico sulla base della questione del valore letterario e della sua storicità a partire dalla relazione tra il libro e i lettori e dal concetto di valore di un’opera, non intrinseco ma conferito, come sostenuto da Borges.
La relazione tra il testo e la percezione di senso nel lettore si connette al significato di verità nella traduzione riprendendo quanto sostenuto da Borges e riportato nel suo saggio:
tradurre un libro è garantirgli non solo la meschinità della sopravvivenza ma il rischio, perfino l’insensatezza di un destino avventuroso.
Quella presunzione di senso che Pauls intravede nei traduttori determina, in particolare nel caso in cui si tratti anche di scrittori, il rischio di “scrivere una lettura”: da Juan José Saer e la sua “matter of factness psicotica”, a Marcelo Cohen che attraverso la traduzione associa la lettura al “comporre con le cose del mondo”. Sulla scorta del doppio binario privato e letterario entro cui si muove la narrazione nella struttura di un glossario emotivo, Trance mostra l’esito aperto della ricerca sulla questione identitaria del lettore. Un’indagine sulla corrispondenza tra lettura e vita che si muove perennemente sulle tracce di quella che descrive come la “vertigine dell’effrazione” che la lettura potrà regalare.