D ue bambini siedono sul sedile posteriore di una macchina che percorre gli Stati Uniti in direzione sud. Dormono, giocano, si annoiano. Davanti ci sono i genitori, il marito guida, la moglie guarda la cartina, dà indicazioni, accende la radio per ascoltare le notizie. Parlano poco tra di loro. Il bagagliaio contiene sette scatole pieni di libri, appunti e fogli spillati, quattro dell’uomo, una della donna, due dei bambini, valigie e asciugamani, “il caos portatile” di una famiglia in movimento.
Lei è una giornalista, lui un acustemologo, entrambi sono artisti del suono, documentaristi e archivisti delle voci e delle eco del mondo: dopo quattro anni passati a censire insieme le lingue di New York, l’uomo ha deciso che il suo prossimo progetto riguarderà i fantasmi e i riverberi delle Apacherie degli stati del sud. Starà via un anno o forse due in un isolamento che sa già di fine, così la moglie lo segue, per rallentare la separazione, per confondere un addio con una vacanza. E per confondere la vacanza con il futuro, inizia a lavorare a un progetto sui minori che attraversano la frontiera degli Stati Uniti, intorno al deserto, ai coyote e a tutti i termini che usiamo per disinfettare parole come campi di detenzione, rimpatri, espulsioni.
Pensavamo … che la registrazione sonora ci dava accesso a uno strato più profondo e sempre invisibile dell’animo umano, un po’ come un batimetrista deve sondare una massa d’acqua per mappare a dovere la profondità di un oceano o di un lago. […] Dopo tutto quel tempo a campionare e registrare, avevamo un archivio pieno di frammenti di vite di estranei ma non avevamo pressoché nulla della nostra nostra vita insieme.
Così inizia Archivio dei bambini perduti, il nuovo romanzo di Valeria Luiselli (La Nuova Frontiera, traduzione di Tommaso Pincio) e assomiglia a un’indagine metatestuale: come raccontare questi bambini? come usare le storie, quali scegliere perché risuonino nel mondo?
“La storia che devo incidere,” decide a metà del libro,
non è la storia dei bambini che arrivano, di quelli che ce l’hanno fatta e possono raccontare la propria storia. […] Non so come procederò, ma la storia che voglio raccontare è quella dei bambini che sono scomparsi, le cui voci non possono essere più udite perché sono andate perdute, forse per sempre. Forse, come mio marito, vado anch’io a caccia di echi e fantasmi.
Archivio dei bambini perduti è un interrogazione su come trasformare la frammentarietà della realtà in una narrazione aperta, è una riflessione sull’archivio come strumento di comprensione del mondo. Non è bizzarro, né tanto meno imprevedibile che un romanzo del genere diventi a sua volta archivio di citazioni e riflessioni sul tema; eppure qui Luiselli non si limita a riflettere sull’argomento attraverso la voce narrante, ma punteggia ogni capitolo con schede bibliografiche, fonti citate, consultate, suggerite, in una dichiarazione di intenti evidente e continuamente annunciata. Un libro che provi a trattare un argomento tanto complesso deve pur avere una struttura teorica portante, ma qui viene a malapena celata: sembra piuttosto servire a dare giustificazione, a confermare e, controintuitivamente, a rendere necessaria la scelta di scrivere fiction di qualcosa che non solo è reale, ma accade nel presente.
Mi viene da pensare che forse, rovistando nelle scatole di mio marito in questa maniera, di tanto in tanto, mentre lui non vede […] potrei trovare una via d’accesso alla vera storia che voglio documentare, alla forma esatta di cui ha bisogno il racconto. Immagino che un archivio ti metta a disposizione una sorta di vallata in cui i tuoi pensieri possono rimbalzare e tornare da te, trasformati.
Luiselli racconta di aver iniziato a scrivere questo romanzo nel 2014, quando, per via di un procedimento burocratico legato all’aggiornamento del suo stato di residenza americana, non poteva lasciare gli Stati Uniti. Allora si era diretta al sud con la famiglia: al tempo la crisi migratoria – il nome che diamo alle persone in movimento, per convincerci che serva una soluzione d’emergenza – aveva appena iniziato a mostrare il suo volto, a emergere nella cronaca. Nel 2015 Luiselli aveva iniziato a prestare servizio volontario come traduttrice per il tribunale di New York nei casi di immigrazione relativi ai minori non accompagnati: agli alieni, come vengono chiamati dalla giurisdizione americana, al posto dell’anno e mezzo canonico, erano concessi solo ventuno giorni per trovare un avvocato disposto a discutere il loro caso davanti a un giudice. Luiselli aiutava a tradurre i documenti, a far compilare un questionario ai bambini, nella speranza di costruire un caso che ne avrebbe evitato il rimpatrio. Chiunque abbia letto Dimmi come va a finire conosce questa storia. Quel saggio era nato su consiglio di John Freeman: a quel tempo il romanzo che stava provando a scrivere, racconta Luiselli, era arrabbiato, didascalico e strumentale, tutte cose che lo avrebbero reso un cattivo libro. Il saggio aveva modellato l’urgenza e la rabbia in una riflessione teorica, trasformato l’iridescenza in racconto. E, visto da qui, le aveva permesso di trovare una strada per la narrativa.
A guidare Dimmi come va a finire era quindi il desiderio di non sfruttare la realtà per farne una storia, il tentativo non tanto di fornire una teoria dell’orrore, ma di rendere comprensibile il reale, di creare una conversazione intorno alla migrazione che ci liberasse dal giogo dell’emergenza.
Quando però si tratta del romanzo, le precauzioni teoriche, la necessità di dare un contesto alla storia sembrano obbligare Luiselli a piegare la narrazione dentro uno schema a tratti troppo rigido, in cui tutto fa sistema; un modo, forse, per trasformare la rabbia in una lente di ingrandimento. Se Dimmi come va a finire è stato considerato, suo malgrado, il primo saggio dell’era Trump (pur nascendo nell’America di Obama), Archivio dei bambini perduti è programmaticamente il grande romanzo sulla migrazione centroamericana. Non è un romanzo a tesi, ma è un romanzo che, per un’eccessiva cautela o per desiderio, vuole dimostrare la sua ascendenza filosofica. Così persino i bambini pongono solo le domande giuste (“Ma, papà, chi sono i cattivi davvero?”; “Mamma che vuol dire ‘rifugiato’?”; “Allora, ma’, che vuol dire documentare?”) e le storie sui nativi americani che il padre racconta in auto o il lavoro sul suono diventano metafore, strumenti per uno scopo più alto. Il problema, in fondo, non è l’archivio – Luiselli in Carte false ha dimostrato una felice estasi dell’influenza – ma quando è l’urgenza teorica a guidare la narrazione.
Non è solo di Luiselli il problema della difficile integrazione tra istanza saggistica e romanzo, ma qualcosa che sembra accomunare certa narrativa anglosassone di questi anni, soprattutto quella che si confronta con il presente, con la politica, la violenza. Accade qui come in Mars Room di Rachel Kushner, in Time Is the Thing the Body Moves Through di T. Fleischmann, in Sight di Jessie Greengrass: sono libri che si muovono tra memoria, narrazione e teoria, in un terreno ibrido, particolarmente fertile, ma non sempre sembrano padroneggiare questa ambiguità con disinvoltura. È come se chiedessero alla storia, alla filosofia, al tema stesso di giustificare la scrittura e il ricorso alla fiction, invece che affidarsi alla scrittura. Non è chiaro se sia per insicurezza o per mancanza di fiducia nei propri mezzi, ma basta leggere I vagabondi di Olga Tokarczuk o Leica format di Daša Drndić – che Luiselli cita a sua volta – per vedere che esiste un’altra via per tenere il mondo nel testo.
Non c’è mai un climax, a meno che non ci sia il sesso o un chiaro arco narrativo: inizio, sviluppo, fine.
Come le pagine migliori di Mars Room sono quelle in cui Rachel Kushner racconta la San Francisco notturna e argentata – non le più interessanti, sicuramente le più belle – così i momenti in cui la prosa di Luiselli ci ricorda quanto limpida e intelligente possa essere sono quelli in cui si abbandona alla narrazione, dove esplora il rapporto con i figli, la fine del matrimonio, il panorama desertico, l’America come una terra violenta, che la natura rivendica per sé. Ci sono riflessioni, passaggi, episodi di enorme sensibilità, raccontati con una sottile spietatezza, migliori forse perché, viene da dire, liberati dalle griglie della teoria.
Leggiamo Il libro senza figure ad alta voce, una e più volte, gambe e gomiti intrecciati nel letto, lasciando la porta della stanza aperta, perché vogliamo sentire la pioggia e consentire che un po’ del suo umore entri dentro, ma anche perché a ogni pagina del libro i bambini ridono in maniera così sfrenata che ci sembra giusto lasciare che qualcosa di questo momento più grande di noi esca dalla stanza e viaggi.