È
difficile predire che libro scriverà Colson Whitehead. In vent’anni e in sette romanzi, lo scrittore statunitense è riuscito a passare da Sag Harbour, una storia di formazione nell’elegante località degli Hamptons (“il paradosso dei neri con le case al mare”) a Zone One, un romanzo post-apocalittico in cui un gruppo sopravvissuti cerca di liberare New York dagli zombie. Nella Ferrovia sotterranea (edizioni Sur, traduzione di Martina Testa), il lavoro che gli valse il premio Pulitzer nel 2017, ha trasformato la storica rete di contatti e itinerari sicuri che aiutò migliaia di schiavi a fuggire dagli stati del Sud in una impossibile rete ferroviaria costruita sottoterra, che unisce magicamente le città americane attraverso balzi spaziali e temporali.
Nel suo ultimo libro, I ragazzi della Nickel (Mondadori, traduzione di Silvia Pareschi), Whitehead parte da un fatto di cronaca – il ritrovamento di resti umani in un riformatorio della Florida – per parlare degli Stati Uniti degli anni Sessanta, della segregazione e dei movimenti per i diritti civili, dell’evanescenza del progresso e delle schegge di violenza che ancora graffiano il presente.
Perché hai deciso di trasformare in un romanzo la vicenda della Dozier School for Boys di Tampa, un riformatorio dove sono state rinvenute le ossa di ragazzi torturati e uccisi?
Mi sono imbattuto nella storia della Dozier School nell’estate del 2014. In Florida del Nord se ne parlava molto, sui media nazionali meno: lì la storia è durata un giorno. Ma mi sembrava importante. Era l’estate delle proteste a Ferguson, in Missouri, per l’omicidio di Michael Brown; l’estate di Eric Garner, l’uomo di colore strangolato a morte da un poliziotto bianco a Staten Island, New York. Avevo l’impressione che molte persone orribili la facessero franca per cose orribili; non se ne assumevano la responsabilità. E poi, alcune di queste violenze da parte della polizia venivano registrate con i cellulari, ma quante altre non lo erano? Se esisteva un posto come Dozier, quanti altri ne esistevano? Se mi fossi imbattuto in questa storia sei mesi prima o sei mesi dopo, forse non mi sarebbe rimasta dentro. Ma quell’estate mi sentivo molto impotente e mi sembrava importante raccontare la storia della Dozier. E sono un romanziere, quindi ho scritto un romanzo.
All’inizio del libro Elwood, il giovane protagonista, sembra avere un futuro luminoso davanti a sé: partecipa alle manifestazioni per i diritti civili, eccelle negli studi, vuole andare al college. Poi di colpo si ritrova in questo violento riformatorio. È come se volessi sottolineare il distacco, la frizione, tra l’idea di progresso storico e quella che spesso è ancora la realtà.
Mi sembra che al progresso si accompagni sempre un regresso, che ci siano continue ricadute. Negli Stati Uniti avevamo un presidente nero, ora il presidente è un suprematista bianco. Sono cresciuto negli anni Settanta e Ottanta e mi è capitato di essere fermato e ammanettato da poliziotti bianchi, solo perché mi trovavo nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Non voglio contraddire l’idea di progresso storico, ma racconto la realtà per come la vedo. Da una parte ci sono gli ideali nobili e illuminati del movimento per i diritti civili, Elwood si sente parte di questa generazione che sta cambiando il mondo. Dall’altra ci sono posti come la Nickel, quello che le persone sono realmente e cosa possiamo cambiare oppure no. È quello che metto in scena.
Elwood e Turner incarnano questi due aspetti della mia personalità. Mi auguro che il mondo sia migliore per i miei figli, così come i miei genitori e i miei nonni speravano che fosse migliore per me e i miei fratelli in termini di discriminazione razziale. Ma una cosa è la realtà e un’altra sono le nostre speranze per il futuro. Sono combattuto tra fiducia e pessimismo e questo si rivede nel rapporto tra Elwood e Turner.
La formazione culturale di Elwood è scandita dai discorsi ascoltati su LP di Martin Luther King, dalla scoperta del movimento per i diritti civili sulla rivista LIFE, dagli scritti di Baldwin. Tu crescendo, cosa leggevi?
Ho sempre voluto fare lo scrittore. Non ero uno che faceva molto sport, non mi piaceva uscire di casa. Passavo un sacco di tempo a leggere fumetti, Spiderman, X-Men, leggevo i romanzi di Stephen King di mia madre e guardavo serie tv tipo The Twilight Zone. Quando ho cominciato il college volevo scrivere libri su vampiri e lupi mannari. Poi lì ho conosciuto scrittori come Samuel Beckett, Toni Morrison e James Joyce. Ho scoperto modi diversi di raccontare storie. Ma da ragazzo ero un nerd che leggeva fumetti, fantascienza e horror.
È da lì che nasce il tuo giocare con i diversi generi letterari?
Credo che la mia passione per il fantasy e l’horror mi abbia fatto capire che sono strumenti letterari di tutto rispetto: a volte il realismo è la strada giusta, a volte è il fantasy. Sono cresciuto ascoltando David Bowie e guardando i film di Stanley Kubrik. Kubrik faceva un film horror, poi uno di fantascienza, poi una commedia. David Bowie aveva un personaggio diverso per ogni disco, cambiava continuamente e mi sembrava un bel modo di essere artista. Se hai già fatto una cosa una volta, perché farla di nuovo? E allora scrivo un libro breve realistico, poi uno lungo con elementi fantastici, poi un altro ancora e sarà qualcosa di diverso. In questo modo il lavoro resta una novità e una sfida.
Come decidi qual è il genere più adatto per il libro che hai in mente?
Dipende. Nella Ferrovia sotterranea, per esempio, volevo scrivere di Americhe alternative e giocare con gli avvenimenti storici. Mi serviva una struttura fantastica, in cui ogni Stato attraversato dalla protagonista rappresentasse una diversa possibilità per l’America, come nei Viaggi di Gulliver. E quel modello risale all’Odissea, al Pilgrim’s Progress, in cui un eroe o un’eroina sono sottoposti a delle prove, devono attraversare una serie di avventure allegoriche e risolvere un problema prima di poter proseguire. Per quanto riguarda I ragazzi della Nickel, invece, volevo concentrarmi sui ragazzi, non c’è uno sguardo allargato alle fasi della storia americana, volevo un romanzo più breve, conciso, realistico che fosse incentrato su di loro e non sulla società americana nel suo insieme. Mi serviva uno sguardo più stretto.
Come riesci a mantenere una coesione tra un romanzo borghese, uno di zombie, uno fantastico?
Beh ci sono stati libri sugli zombie prima che li scrivessi io, libri sulla schiavitù prima che ne scrivessi, storie sulle prigioni prima che affrontassi l’argomento. Qualunque cosa decida di raccontare, c’è sempre qualcuno, probabilmente più intelligente e più talentuoso, che l’ha fatto prima di te. Toni Morrison è un genio, non posso certo superare Amatissima. Cerco di usare la mia prospettiva personale, la mia esperienza passata nel raccontare storie, e di non fare un casino.
È capitato che qualcuno credesse nell’esistenza della ferrovia?
Sì, qualche studente a cui era stato dato il libro da leggere in classe, ma quello è un fallimento del sistema scolastico, non mio. [ride] Ho creato una ferrovia magica che porta attraverso diversi momenti della storia. Era un modo per metterli in collegamento, in conversazione tra loro. I nazisti hanno preso le idee americane sull’eugenetica, sulla superiorità razziale, Jim Crow e le leggi del sud che limitavano la libertà e il movimento dei neri, e li hanno portati alle loro estreme conseguenze con l’olocausto. I nazisti quindi hanno preso in prestito delle idee razziste dell’Ottocento americano. In un libro realistico non potevo riportare il 1942 al 1860.
È impossibile, ovviamente, che esistessero migliaia di chilometri di ferrovia sotto terra. Speravo che i lettori si accorgessero di questo problema logistico. Ma la storia della schiavitù è insegnata male in America, prima di leggere il mio libro c’erano persone di sessanta o settant’anni convinte dell’esistenza della ferrovia. Gli insegnanti hanno il loro dovere, io ho il mio: raccontare una storia interessante, e sperare che possa esserlo anche per altre persone.
Rispetto alla Ferrovia Sotterranea e a I ragazzi della Nickel, in cui attingi dalla Storia e dalla cronaca, c’è un libro in cui segui il procedimento opposto. In Sag Harbour usi la tua storia personale per parlare di un determinato periodo, gli anni Ottanta.
Sì, è il mio libro più autobiografico. Volevo capire la mia percezione del mondo da giovane, la mia storia famigliare, la mia formazione. L’intento del libro quindi era molto diverso dagli altri. Un narratore in prima persona mi sembrava più adatto di uno in terza persona. Quando inizio un libro penso sempre: il realismo è la strada giusta? Un narratore in terza persona è la strada giusta? O un narratore onniscente? Le frasi devono essere lunghe? Oppure brevi e concise? Mi serve per trovare l’approccio giusto alla storia generale.
Anche la ricerca svolge la sua parte. Mi piace inventare le cose, per questo scrivo soprattutto romanzi. Ma la ricerca nutre il lavoro. Nella vera Dozier School, il posto dove picchiavano i ragazzi era chiamato la Casa Bianca. Non avrei mai potuto inventarlo. Il richiamo alla Casa Bianca a Washington è troppo forte. La ricerca ti porta a imboccare delle strade a cui non avresti mai pensato nel momento in cui nasce l’idea del libro. Per Sag Harbour ho riguardato Mad Max 2 – Il guerriero della strada e Star Wars, questa era la ricerca per cercare di capire il ruolo che la cultura pop riveste per l’adolescente protagonista. La ricerca per I ragazzi della Nickel è stata ovviamente molto diversa. Il libro che sto scrivendo ora è un poliziesco ambientato a New York negli anni Sessanta. Quindi provo a capire quali edifici, quali attività c’erano sulle 125esima ad Harlem, quali posso usare per la mia storia, quali devo inventare. Anche qui, cerco di capire dove inventare e dove attenermi alla realtà.
In che modo questa ricerca su diversi periodi storici ha condizionato il tuo sguardo sul presente?
Mentre scrivevo di suprematisti bianchi nel 1850 nella Ferrovia sotterranea non mi aspettavo che avremmo avuto un presidente suprematista come Donald Trump. Le cose cambiano e non cambiano mai. I cacciatori di schiavi che fermano le persone – libere e non – nella Ferrovia sotterranea, i giovani di colore che tuttora vengono fermati e interrogati dalla polizia: c’è un continuum tra i cacciatori di schiavi e gli ufficiali di polizia bianchi oggi. Sono diverse manifestazioni di uno stesso problema, di un comportamento, nel corso del tempo.
Ho letto che tuo padre voleva che tu imparassi il francese per avere un posto in cui scappare in caso fosse scoppiata una guerra razziale.
È vero, ma era più uno scherzo. Non facevamo scorte di provviste e cose così. Ma mio padre è cresciuto negli anni Quaranta e Cinquanta, aveva una visione molto diversa del progresso storico, c’era qualcosa di paranoico, apocalittico, nel suo modo di pensare che ovviamente ha attecchito in modi diversi e a diversi livelli su di me e i miei fratelli. Ma non siamo messi così male.