G race Hopper si fece coraggio e avanzò di qualche passo. Fu così che per la prima volta si trovò faccia a faccia con il mostro, “un enorme ammasso di ferraglia che faceva un baccano terribile. Tutto scoperto, tutto aperto e rumorosissimo”. Era stata chiamata al suo cospetto per insegnargli a parlare. Fuori di quella stanza, in radio, si inseguivano i bollettini di guerra.
Nata nel 1906 con il nome di Grace Brewster Murray, figlia di una famiglia della buona borghesia di Manhattan, si era laureata in matematica e fisica al Vassar College, per poi conseguire un dottorato a Yale. Di lì a poco divenne insegnante nel College in cui aveva studiato e sposò Vincent Foster Hopper, professore di Letteratura, di cui prese il cognome.
Una vita perfetta, dal cui torpore Hopper venne scossa, nel ’41, dai bombardamenti di Pearl Harbor. Decise di lasciare famiglia e insegnamento per entrare in Marina, dove sentiva di poter essere più utile. Una scelta galvanizzante e al tempo stesso liberatoria: “all’improvviso non dovevo decidere nulla, era già tutto sistemato. Non mi dovevo preoccupare neanche di come mi sarei vestita la mattina; era già tutto lì. Prendevo il mio abito e lo indossavo. […] Non dovevo nemmeno decidere che cosa avrei preparato per cena […]. È tutto scomparso, e sono rifiorita. Non ho mai avuto tanta libertà.”
Nel ‘44 venne assegnata, con il grado di tenente di vascello, a un gruppo di lavoro coordinato da Howard Aiken con sede a Harvard. E fu lì che incontrò la “gigantesca macchina misteriosa”: il Mark I, un enorme strumento di calcolo automatico di 4 tonnellate e mezzo di peso, che si sviluppava per 16 m di lunghezza e 2,4 m di altezza. Grace nutriva una passione, fors’anche una mania, per la correttezza linguistica: aveva più volte lei stessa raccontato che negli anni dell’insegnamento era stata solita valutare i compiti degli studenti sulla base della chiarezza espositiva, tanto che “mi contestavano il fatto” – raccontava – “che il mio fosse un corso di matematica, non di lingua. Allora spiegavo che era inutile imparare la matematica se non erano in grado di comunicarla”. Era quindi sicuramente la persona giusta per elaborare la documentazione tecnica del “mostro”.
Si dice che Howard prese una copia dell’autobiografia di Charles Babbage e la strinse in mano a Grace, a indicare che il Mark I rappresentava la realizzazione della macchina analitica che il filosofo e inventore inglese aveva progettato il secolo precedente. Hopper insegnò a quella macchina, una dopo l’altra, un’infinità di operazioni attraverso comandi impressi su nastro perforato: “ora prendi questo numero e aggiungilo a quel numero e metti la risposta lì. Ora prendi questo numero e moltiplicalo per quel numero e mettilo lì”. Anni dopo, ai mondani lettori della rivista Cosmopolitan, Grace avrebbe spiegato – con un piglio tutto domestico che forse apparteneva più al suo intervistatore che a lei – quanto tutto ciò le fosse venuto naturale: “è proprio come organizzare una cena. Devi pianificare in anticipo e decidere tutto in modo che sia pronto quando ne hai bisogno”.
Il lavoro era evidentemente ben più complesso. Grace riusciva a scrivere non più di cinque pagine al giorno, che a sera rileggeva a Howard. Alcune volte erano perfette così, altre bisognava rifare tutto. Alla fine, però, ne risultò un testo epocale, A Manual of Operation for the Automatic Sequence Controlled Calculator, dato alle stampe nel 1946. In realtà, com’era di prassi in queste circostanze, Grace non ne risultava unica autrice. Era infatti una pubblicazione a nome dell’intero staff. Nondimeno, nella prefazione, Howard Aiken teneva a riconoscere che “il tenente Hopper ha anche lavorato in qualità di redattore generale e più di ogni altra persona è responsabile del completamento del libro”.
Ai suoi studenti Hopper spiegava che era inutile imparare la matematica se non erano in grado di comunicarla.
“La Bibbia dei computer”, venne subito chiamata. Si trattava del primo, straordinario, manuale di programmazione. Un libro chiaramente ispirato a Babbage, la cui macchina differenziale campeggiava in foto in prima pagina, accompagnata da una sua frase che invitava a proseguirne il lavoro. Commenta a tal proposito Carla Petrocelli, autrice, per i tipi della Dedalo, di Il computer è donna. Eroine geniali e visionarie che hanno fatto la storia dell’informatica: “E proprio come Babbage si era avvalso delle percezioni premonitrici di Ada Byron, Grace Hopper fu la musa ispiratrice di Howard Aiken. La storia mostrava strane coincidenze e Grace e Howard divennero la controparte moderna di Ada e Charles. Quanto più approfondiva la conoscenza della Lovelace, tanto più Grace si identificava con lei: ‘Scrisse il primo programma. Non lo dimenticherò mai; nessuno lo farà mai’”.
Era l’epoca in cui il debugging dei computer si faceva ancora pinzette alla mano. Non riprogrammandoli, bensì cercando di scovare gli insetti, i bug appunto, intrufolatisi in quelle enormi bestie meccaniche. Nel ‘47, mentre venivano eseguiti i test sul nuovo Mark II a cui il gruppo di Aiken stava lavorando, lo staff fu ospitato in un edificio rimasto inutilizzato dai tempi della Prima guerra mondiale. Il caldo era insopportabile in quelle lunghissime notti d’estate trascorse a seguire le operazioni che il metallico gigante imparava a macinare. E il Mark II, d’un tratto, s’arrestò. Una falena, entrata dalle finestre aperte, si era andata a spiaccicare in uno dei relè.
“Avevamo un paio di pinzette”, avrebbe ricordato Grace. “Trovammo una falena di circa quattro pollici di apertura alare e, con molta attenzione, la tirammo fuori e la mettemmo nel nostro ‘registro di bordo’, bloccandola con dello scotch” un po’ come avrebbero fatto dei fanciulli desiderosi di ravvivare lo scrapbook delle loro vacanze estive. Il termine bug, è vero, era stato impiegato sin dai tempi di Thomas Edison per indicare problemi e malfunzionamenti meccanici, ma con questo episodio esso veniva finalmente introdotto nel linguaggio della nascente informatica, tanto che, avrebbe continuato Grace, “da quel momento in poi, quando qualcosa non andava, dicevamo che c’erano dei bug e che stavamo ‘facendo il debugging’”.
Hopper, però, iniziò a non sentirsi più valorizzata nel progetto. Pazientò un po’. “Poi, terminati i tre anni sentii che il mio tempo era scaduto”. Senza guardarsi indietro, scelse di trasferirsi a Philadelphia, presso la Eckert-Mauchly Computer Corporation, dove la sua vita, privata e professionale, sembrò scivolare senza freni lungo un pericoloso piano inclinato: fu arrestata per aver turbato la quiete pubblica in stato di ebbrezza. Addirittura tentò il suicidio. Si sottopose a un trattamento di recupero e, ancora una volta, decise di lanciarsi a capofitto nel lavoro, in un gruppo, appunto a Philadelphia, non ancora ben organizzato come quello di Harvard. Lì la sua esperienza di leadership si rivelò fondamentale. E apprezzatissime furono le sue doti di insegnante.
Grace volle che le modifiche apportate da ogni componente del gruppo di lavoro fossero condivise affinché ciascuno si sentisse libero di usarle e introdurre ulteriori miglioramenti. Risultato di questo sforzo fu il COBOL (acronimo di COmmon Business-Oriented Language ossia linguaggio comune orientato alle applicazioni commerciali), il primo linguaggio di programmazione standardizzato, non legato a un hardware specifico ma funzionante su piattaforme multiple, e dedicato alla soluzione di problemi di natura economica e finanziaria. Il nome venne creato nel settembre del 1959, quindi esattamente 60 anni fa.
Come ha precisato pochi giorni fa Steven J. Vaughan-Nichols su ZDNet, il merito di aver concepito l’idea fondamentale alla base di COBOL in realtà non fu di Grace Hopper, benché lei abbia contribuito alla elaborazione del linguaggio e lo abbia promosso, ma di un’altra informatica, Mary Hawes. Racconta Vaughan-Nichols che fu Hawes, nel 1959, a proporre “di creare un nuovo linguaggio informatico che avrebbe dovuto essere basato sulla lingua inglese per essere usato dai diversi computer e compiere semplici operazioni commerciali”. Hawes sottopose poi la propria idea agli altri e a Hopper, che pensò subito di sostenerla presso il Ministero della Difesa.
In effetti, anche grazie alle prese di posizione di Grace Hopper, lo sviluppo dei principali linguaggi, tra cui il FORTRAN, subì una netta accelerazione. La filosofia universalista che ispirava questa azione era semplicissima: invece di implementare differenti dialetti, da usare su hardware diversi, i linguaggi dovevano essere via via adattati e uniformati per “girare” su qualsiasi computer. Hopper, assunta per domare e insegnare a parlare a un solo spaventoso mostro, lavorò fino alla fine per trovare un linguaggio condiviso da tutta la progenie delle macchine.
I materiali del testo sono tratti in gran parte da Il computer è donna, di Carla Petrocelli (dedalo, 2019).