I van Carozzi è stato caporedattore di Linus e autore di trasmissioni televisive come Le invasioni barbariche e Lessico famigliare. Scrive poi per diverse testate tra cui il Post, cheFare e minima&moralia. Carozzi, che è anche un nostro autore, ha scritto tre libri. I figli delle stelle racconta una convention di Raeliani, “il movimento neoconfessionale che mescola ufologia, erotismo e culto della scienza”; Teneri violenti racconta invece di un trentenne che per lavoro si perde nella ricerca di vecchie notizie dagli anni Settanta italiani – il passato inizia a interferire con il presente, la Milano operaia a quella lavorista post-Expo, entusiasta e inclusiva a parole, casa dei rider del cibo ad asporto, dei gin tonic sotto l’ufficio. Il suo ultimo libro, di cui parleremo a lungo tra poche righe, è uscito a inizio settembre per il Saggiatore. Si chiama L’età della tigre.
L’Età della tigre è iniziata da qualche anno, da quando in Italia la musica popolare si chiama trap. Forse però è iniziata qualche anno prima, con l’avvento di internet, o dei cellulari, a pensarci meglio. Il libro in realtà ci fa scivolare negli anni Settanta, e più indietro, fino al dopoguerra delle nonne. Forse è iniziata in quel momento, anzi no, molto prima: l’età della tigre inizia quando non riusciamo più ad anticipare il presente.
Nicolò Porcelluzzi: Mi hanno chiesto di cosa parla il tuo libro e ho dovuto rispondere con un elenco. Il tuo libro parla di trap, depressione, godimento, Milano, di poveri disperati, di ventenni che sbocciano Dom Perignon, di Lacan, di hikikomori ante litteram, precariato. Per scriverlo però, invece di Sfera o Ghali, spesso hai incontrato gli invisibili: c’è chi fa l’elemosina, c’è chi si trova chiuso in una comunità minorile, c’è anche Rafik, un orologiaio marocchino che ti ha chiesto a che cosa serve scrivere. Inizio da Rafik: a che cosa serve scrivere L’età della tigre?
Ivan Carozzi: Ci sono cose che penso, ripenso, su cui rimugino, che non riesco a comunicare e delle quali posso soltanto scrivere per aiutare me stesso a capire che cosa ho in testa. Immagino che la scrittura serva a questo. Credo, penso. Vale anche per il libro di cui stiamo parlando. All’origine di questo libro c’è un articolo che ho scritto a proposito di un fatto finito sulle pagine dei giornali e sulle bacheche social. Mi è capitato spesso di scrivere su episodi di cui si è molto discusso. In questo caso si trattava della trap e in particolare di un’esibizione live di Sfera Ebbasta. Non mi riconoscevo in nessuno degli articoli e commenti che erano usciti intorno all’episodio.
Mi sembrava che anche su questo tema fosse visibile una tendenza implacabile e deprimente alla polarizzazione: c’era chi esprimeva nei confronti della trap una facile condanna di tipo morale ed estetico e chi invece assumeva una posizione più accogliente, assolutoria, temo per il semplice gusto di smarcarsi e non venire scambiati per un vecchio rincoglionito o per un bacchettone (tutti vogliono restare giovani, anche perché il processo d’invecchiamento, che si riflette non solo nel corpo ma nei consumi culturali, ispira in noi un senso di colpa, di vergogna; dichiarare che si apprezza la trap è per un adulto il corrispettivo di una crema antinvecchiamento). Il conformismo, a mio avviso, non sta in particolare nel gruppo dei favorevoli o in quello dei contrari, ma nell’obbedire a questa polarizzazione continua e mortificante, che ci passa sopra la testa e inscatola la produzione quotidiana di opinioni sui fatti del mondo.
Sono partito da tutto questo, da un flame, diciamo, che avrei voluto scatenare contro i miei simili, dal desiderio un po’ psicopatico di litigare con tutti. Poi scrivendo ho capito che il materiale che avevo sotto le mani, cioè la trap e il suo linguaggio, mi guidavano, anche con dolcezza, verso altre zone della mente, della memoria, dell’esperienza, del mio privato, della mia sofferenza e insofferenza. Alla fine è venuto fuori un libro.
NP: In fondo non hai mai nascosto il tuo privato in quello che hai scritto, anche quando lo hai trasfigurato in Teneri violenti o in qualche articolo; la tua vita è lì, nuda, nel libro che è appena uscito o in altri scritti, come quello dedicato a tuo cugino in Che cosa ho in testa. Negli ultimi anni, a prescindere dall’argomento, mi sembra che torni spesso su quello che chiami “processo di invecchiamento”.
IC: In effetti è un tema che un po’ mi perseguita. “Sto invecchiando, sto invecchiando, sto invecchiando”… è uno di quei pensieri ricorrenti che alla fine ti scavano dei solchi nel cervello, come scrive Michael Pollan. Magari avere la leggerezza di Pollan… La coscienza del tempo che passa diventa più acuta, credo, per il fatto di non essermi riprodotto, cosa che pone me stesso sempre di fronte a me stesso, sempre davanti a uno specchio, a quel riflesso di me che a volte intravvedo sul monitor mentre scrivo. In realtà non sto invecchiando, sto ancora crescendo, maturando. E inoltre: che importanza ho io tra tutte le creature del mondo? Perché dovrebbe interessarmi il fatto che sto invecchiando? Non avere più vent’anni, mi pare, viene spesso vissuto come una colpa da emendare, e perciò ci si ritrova a sussumere i gusti culturali dei ventenni, a dichiararsi paternalisticamente estimatori di Achille Lauro o Ghali perché sembra tanto un bravo ragazzo. In questo modo riveliamo la nostra famigliarità con lo spettacolo e la televisione, ma pure una mancanza di famigliarità con quelle che dovrebbero essere le vere consolazioni offerte dall’arte e dalla musica.
NP: Nel libro non eviti di sottolineare la tua soggezione nei confronti degli adolescenti, un disagio che non sembra nascere dal bisogno di sentirsi accettato, ma da qualcosa d’altro: “qualcosa che in me non esiste più, una parte divina del corpo, della mente, un surplus che a un certo punto dell’esistenza ho dovuto espellere, o mi ha abbandonato. […] Per questa ragione può capitare, di tanto in tanto, che io percepisca in presenza di un adolescente un timore reverenziale, come se ci si trovasse al cospetto di una rockstar [che è poi il titolo del disco di Sfera, NdR], di un individuo superiore”. Insomma, il tuo interesse per la trap è nato dalla paura dei solchi nel cervello o dall’amore per questi ventenni che fanno luce?
IC: Il mio interesse per la trap è nato da una spinta effimera e contingente, poi la scrittura mi ha portato a una serie di riflessioni di carattere più personale. Scrivendo mi sono accostato a uno stato mentale: la coscienza di non poter comprendere quella sorta di mistero che è l’adolescente, quel mistero che io stesso sono stato. È un limite epistemologico: io non posso davvero conoscere e comprendere l’adolescente, perché non posso conoscere con questo corpo che ho oggi quel corpo speciale e dotato di poteri magici che è il corpo dell’adolescente. Di conseguenza non posso comprendere fino in fondo, per esempio, come un basso può risuonare dentro la caverna di un corpo adolescente. Certo, posso scriverne, parlarne, posso fare ipotesi, ma devo tenere presente che ci sarà sempre qualcosa che mi sfuggirà, qualcosa che ora io non posso più capire. Adesso, con questo corpo che ho oggi, non posso più riprodurre e comprendere la fiammata che a tredici anni sopraggiunge guardando gli occhi o il seno di una coetanea, cioè la prima rivelazione della forma del corpo desiderato nel suo carattere più irripetibile e sconvolgente, e non posso più arrossire come si arrossisce a quattrodici anni, così come oggi non posso capire come sia possibile giocare otto ore di seguito a calcio all’interno di una tensostruttura in plastica surriscaldata dal sole di luglio, come a me è capitato nelle mie estati di moltissimi anni fa.
NP: C’è una pagina dell’Età della tigre che ho riletto diverse volte, quella in cui scrivi la tua versione del Canto di me stesso di Whitman, la pagina dove ti presenti come il punto d’incontro di due individui, il primo è altruista e compassionevole, votato alla contemplazione, il secondo invece “vuole fottersene degli altri, correre, prendere a grandi calci nel culo un unicorno di passaggio”. E poi aggiungi: “più cresco, più integro me stesso nella prima forma e più divento infelice, perché consapevole che solo calzando la seconda forma, indossando quel vestito, io sono stato appagato, di un appagamento pieno, fisico, testato e indubitabile. E tuttavia comprendo che quella seconda forma non c’è più, è andata”.
Cosa si diventa, crescendo? Sé stessi, mutilati, felici? Forse ripetere come macchine “quello che ci fa stare bene” non è la strada più breve, in questo percorso.
IC: Crescendo, magari, si sdiventa sé stessi. Permettimi questo gioco di parole. Invecchiare però può essere glorioso, può essere un’arte, specie se si è abbastanza fortunati da avere una casa e un reddito che ci consentono di praticare questa arte.
NP: Se si ha una casa, un reddito, e se si indagano l’origine e la natura dei propri desideri. A un certo punto nel libro spunta Lacan. Milano, 1972. Lo psicanalista francese è alla Statale per una conferenza che sarà in futuro ripresa e discussa, in particolare da Zizek, soprattutto per la parte in cui si fa cenno al cosiddetto “discorso del capitalista”. “Il discorso del capitalista sfrutta ciò che nell’uomo è più naturale, il desiderio. Il capitalista ci persuade a godere senza limiti dei suoi prodotti, perciò lo scatenamento collettivo di infiniti ‘io voglio senza limiti’ e ‘io voglio godere senza limiti’ si diffonde come una forza che separa, come un fattore di disgregazione e distruzione”. Ciò che dovrebbe essere la nostra via di fuga, il desiderio, viene soffocato dalla merce, diventa la forza che separa, un motore che gira a vuoto. Potremmo definire la trap – che, tengo a precisare: ascolto con piacere, soprattutto americana – il rumore del motore che fonde.
IC: Il rumore di un motore che fonde: trovo che sia una immagine stupenda, perfetta. Credo si possa applicare in parte alla trap, laddove la trap, nelle liriche tanto spezzate quanto monotone nella ripetizione involuta di una serie di topos (l’insistenza sui brand, la donna apostrofata “bitch”, l’ossessione per la polizia etc.), sembra farsi immagine di una situazione di afasia, di ristagno delle facoltà cognitive… la condizione quotidiana di un cervello disturbato da una rete fittissima di interferenze. Il rumore del motore che fonde è il rumore del pianeta in burn out. In questo senso la trap è la musica del presente passaggio storico, un po’ come il suono così nuovo e diverso della chitarra al tempo stesso erotica, arroventata ed eterea di Loveless dei My Bloody Valentine, nel 1991, riproduceva, a mio avviso, l’effetto emozionale che l’arrivo dell’ecstasy ebbe in quel periodo sulle sinapsi e sull’immaginario di un’altra generazione.
NP: A proposito di sinapsi: nell’Età della tigre racconti anche il burnout di uno dei protagonisti della scena trap italiana, Arturo Bruni a.k.a. Side Baby (fu Dark Side, della Dark Polo Gang). E nel racconto del suo tracollo torna uno dei fili del libro, cioè la cantilena depressiva della trap, che per gli ascoltatori di una certa età è così ovvia, palese, ma non per le ragazze e i ragazzi che la ascoltano. Siamo noi a essere più autodistruttivi e paranoici di loro, o è qualcosa che sta lavorando nel loro inconscio, e che tornerà con gli interessi?
IC: È la domanda che mi pongo nel libro e che lascio un po’ in sospeso, senza una risposta. La trap è oggettivamente un linguaggio che mima la depressione, la solitudine e l’isolamento o sono in realtà io il depresso, io con il mio cervello segnato dai solchi ricorsivi del pensiero depresso, che resto imprigionato nel mio sguardo e non posso fare a meno di registrare ovunque i sintomi di un malessere che, in realtà, è soltanto mio?
Qui mi torna utile citarti un pezzo del libro:
Arturo Bruni è un parresiasta che assume un rischio e decide di andare fuori pista, di derapare, di sbroccare, di cambiare scaletta, di uscire in estate con il pezzo sbagliato. Si prende una pausa dalla storia che ha sempre raccontato, costruita sulle mazzette di banconote sventolate per aria, sugli abiti flamboyant, sulle dichiarazioni tronfie circa la quantità, il tipo e la qualità di stupefacenti consumati, e prova invece a parlare, fuori dai denti, di pulsioni suicidarie.
NP: Al contrario di Milano Dove/Pronto Milano, una guida commerciale degli anni Ottanta su cui ti soffermi, tu vai nelle periferie, a Calvairate invece di Montenapoleone; al posto delle “variopinte babbucce in morbida pelle” ci sono quelle scarpe spaiate e rotte sui marciapiedi, e i vecchi orologi, il televisore della nonna… Come se la tua ricerca non possa prescindere dai piccoli oggetti.
IC: Dietro ogni oggetto ci sono storie e fili lunghissimi, trame e collegamenti che possono portarci dappertutto. Inevitabilmente sono affascinato dalle cose, come la ragazzina nel video di Nove maggio di Liberato resta incantata di fronte a una parete di sneakers. Ho letto un articolo su “Il Sarcofago di Spitzmaus e altri tesori“, la mostra di un noto regista cinematografico che verrà inaugurata qui a Milano. Se ho ben capito si tratta di una collezione di oggetti di varie epoche, una specie di wunderkammer. Il mercato di piazzale Cuoco di cui parlo nel libro è un’altra wunderkammer. Gli oggetti si possono consumare e buttare o possono restare con noi. Di sicuro restano nella memoria. Non so che fine abbia fatto l’apparecchio dove io e mia nonna guardavamo la tv insieme quarant’anni fa… dal momento che nulla si distrugge, pezzi infinitesimali dello chassis o dello schermo che formava quel televisore saranno ancora da qualche parte nel cosmo…
Manuel Vilas in Ordesa ha scritto che guardare insieme la televisione è una delle cose più belle che si possono fare. Dice che guardare la tv è “come guardare l’universo”. Ora che sempre meno gente ha un televisore, credo che questa affermazione rappresenti un modo di collegare all’infinito e all’eterno, e di condensare poeticamente in una frase, l’esperienza storica ed esistenziale di un tardo baby boomer come Manuel Vilas, che è nato nel 1962.
NP: Ogni generazione costruisce le sue mitologie private, il sistema dei ricordi porta a identificare universo e televisione, le torri gemelle e l’innocenza perduta, pensa ai film di Dolan, dove l’ipocrisia del pop fa il giro e Celine Dion riesce in quello che sta fingendo, farti commuovere… Fluttuo nella domanda come nel libro, per associazioni, e mi viene in mente la prima canzone pop a servirsi dell’autotune, Believe di Cher, che definisci “una prodigiosa metafora sonora del transito al terzo millennio”. Quando è uscita Believe ero un bambino, tu un uomo, ma entrambi ricordiamo la promessa che incarnava, mi ricordo Megan Gale che ascende alle magnifiche sorti progressive scalando a mani nude lo Space Needle di Seattle… Nel 2000 avevi la mia età, oggi: cosa ti aspettavi dal futuro?
IC: Avevo sensazioni contrastanti. Da una parte internet, per esempio, mi sembrava una realtà meravigliosa, molto eccitante, soprattutto dal punto di vista delle possibilità di conoscenza che ti venivano offerte. Nel gergo californiano della rete, il verbo surfare indicava una forma di flânerie che ora si pratica molto meno, dato che si tende a ristagnare in un solo spazio, Facebook o Instagram, mentre l’interazione e l’espressione narcisistica sono diventati il modo prevalente di abitare internet. In quegli anni sentivo che erano in arrivo anche delle fregature. Ricordo per esempio che si cominciò a parlare della necessità di riformare il mercato del lavoro. La flessibilità del lavoro venne letteralmente “narrata” e spacciata per opportunità esistenziale, un modo di essere felici, viaggiare e conoscere altre culture nel contesto di un pianeta pacificato e governato dal mercato.
Ricordo anche che tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, quando è esplosa la telefonia mobile, nessuno aveva bisogno di avere un telefono in tasca, non c’era nessuna ragione pratica e concreta per dotarsi di un telefono, eppure ci fu questa enorme pressione commerciale e pubblicitaria che spinse la gente a comprarsi un telefono, ad accettare come certa e inevitabile la profezia secondo la quale nel giro di qualche anno sarebbe stato obbligatorio avere un telefono. Non c’erano alternative. Ricordo pure che mi guardavo intorno, osservavo questa febbre demenziale, questa assurdità, lo spuntare ovunque per strada di negozi di telefonia con gli espositori arancioni, la gente che si telefonava senza un motivo e nessuno che si poneva più domande o dubitava di fronte a questa enorme trasformazione calata dall’alto e pompata da spot martellanti e magniloquenti come quello con Megan Gale che tu hai citato, dove la cassa dritta della house e della techno veniva integrata nella grammatica della comunicazione pubblicitaria. Ora tutti abbiamo un telefono ed effettivamente non è più possibile vivere senza. La profezia si è avverata. L’esplosione della telefonia mi sembra un po’ il momento in cui abbiamo cominciato ad accettare in massa che non c’era alternativa e la tecnologia era il nostro destino.
NP: Sì, è una trasformazione che possono raccontare anche i nati nel ’90, forse fino al ’91-2, poi inizio ad avere dei dubbi: possono sembrare ridicoli questi muri anagrafici, ma danno l’idea della velocità del fenomeno, dell’esplosione. E aggiungo che la cassa dritta è diventata poi la muzak di questo secolo, all’inizio si sentiva nei negozi di fast fashion, poi è arrivata nei bar a colazione, ovunque, nelle stazioni… A proposito: nel libro racconti di un’anziana che elemosina in piazzale Cadorna, a Milano, perché si è rotto lo scaldabagno e la pensione non è sufficiente a coprire le spese. Ci chiacchieri. Senza strappi, passi poi a ricordare tua nonna, “un’esperta e formidabile spettatrice televisiva” che si godeva il suo risotto a mezzogiorno, la messa in piega, la compagnia di un’amica. Bisogni poco chiassosi che venivano soddisfatti giorno dopo giorno, nella dignità. Poi racconti di portinaie del sud-est asiatico e di crisi economica, di bottegaie cinesi che cercano di tirare su una famiglia in dieci metri quadri…
Però è un’altra donna la chiave per capire cosa mostra la trap del nostro presente, e non è la bitch, la donna-schermo che il trapper è tenuto a cantare, ma la sua candida rosa, la madre. Nel libro paragoni le madri dei vari Ghali, Tedua, Sfera alle protagoniste dei film di Kean Loach, donne che nel mezzo della vita si trovano “precarie, bidelle, commesse” e si affannano per garantire un tetto e del cibo ai figli. I padri non sono pervenuti: “dalla disgregazione sociale delle periferie, povere di opportunità e sempre meno tutelate da quella funzione genitoriale-statuale che è il welfare, si rafforza un legame tra madre e figlio”. Abbandonati dal padre, e dallo Stato. Eppure, anche se ormai milioni di ragazzi gli pendono dalla bocca, nelle loro canzoni il personale non diventa mai politico.
IC: Però se nella trap c’è qualcosa di politico, sta proprio nel modo in cui i trapper parlano e scrivono delle proprie mamme. È dalle madri che hanno imparato come si sta al mondo e come cavarsela. Questo fatto i trapper lo dicono, lo cantano. Quando Ghali in copertina si ritrae con sua madre a occhi chiusi, come nella serie Family affair del gruppo Zimmerfrei, in qualche modo disegna un nuovo ordine del mondo, nel quale il sapere è trasmesso per linea materna e non più per via paterna. Mi sembra un fatto di grande importanza culturale e quindi un fatto politico. A questo punto sono i padri che diventano figure reiette, sconfitte e marginali, e perciò, paradossalmente, sono loro che tornano soggetti interessanti e meritevoli di venire indagati e interrogati.
NP: A tuo padre dedichi diverse pagine, forse le più riuscite nella prima metà del saggio, dove il lettore sta ancora cercando di capire cosa stai facendo, dove lo stai portando: un po’ come ti chiedevi su quelle scale da ragazzino, mentre tuo padre ti accompagnava da un suo amico, per uno strano incontro tra generazioni che ricordi ancora molto bene. Un pomeriggio lungo, una passeggiata senza obiettivi. Ecco, questi incontri tra generazioni mi sembrano una cosa che cerchi spesso nel tuo libro, forse inconsciamente, e sono un suo punto di forza. Le chiacchiere con la pensionata come quelle con i sedicenni dell’istituto minorile sono gesti politici, e a loro modo, d’amore. Mi viene in mente la custode del palazzo così prezioso ed elegante dove devi entrare ogni giorno, per salire agli uffici della redazione di una rivista che ami, sapendo che stanno per licenziarti. Mi racconti qualcosa di quell’esperienza, cosa cercavi scrivendo “L’ingresso è vietato”, l’ultimo capitolo?
IC: Volevo raccontare un periodo della mia vita lavorativa e professionale, cioè gli ultimi mesi del mio lavoro a Linus. Avevo l’urgenza di farlo e ho approfittato del libro. Ho cercato di creare spazio nel testo per raccontare la chiusura di un capitolo professionale della mia vita. Un momento per niente felice a conclusione di un lavoro che per lunghi tratti era stato bello ed entusiasmante. È stato un po’ un modo di togliermi qualche sassolino dalle scarpe (credo che un libro possa servire anche a un’operazione del genere), ma sentivo pure l’esigenza di portare una testimonianza su un ambiente di lavoro – intendo proprio scrivanie, stanze e uffici – e su un modo di fare lavoro culturale nel quale fatico a riconoscermi. Mi sono intestardito ad aggiungere questa digressione nel libro. È un capitolo sul quale ho lavorato parecchio e forse non del tutto riuscito. Leggendo non ci si renderà conto di tutto il materiale che è stato smontato e spostato per arrivare a lasciare la pagina così come poi è andata in stampa e soprattutto non ci si renderà conto neppure della frustrazione e sofferenza che mi ha spinto a raccontare questa vicenda.
NP: È un capitolo che andrebbe distribuito all’uscita delle scuole di scrittura: il lavoro culturale è precario, pagato male, spesso frustrante.
IC: È precario, pagato male e se ne parla troppo poco, praticamente zero. La frustrazione viene vissuta come un destino, un fatto naturale. Tuttavia ci sono luoghi e situazioni dove il lavoro magari è pagato male, ma non è frustrante, anzi. Lì allora la vita e le relazioni cambiano e il vecchio lavoro culturale riscopre il suo senso e, perché no, la sua gioia.