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on si può scrivere la storia dell’acciaieria ex Ilva limitando la vicenda industriale alla descrizione di una sopraffazione urbanistica, economica e sociale. Piuttosto, si tratta del racconto di una reciproca influenza tra la città di Taranto e l’insediamento del più grande centro siderurgico italiano all’alba degli anni Sessanta, passato dall’occupare 600 ettari di superficie a 1500 nell’arco di un decennio (1964-1974), costruito con l’idea di rappresentare l’inizio di una vera e propria industrializzazione della Puglia e più in generale un perno del cambiamento della realtà economica meridionale.
Qual è lo stato attuale di un’interazione complessa su un territorio alle prese con l’esito della monocoltura siderurgica? Dal punto di vista industriale, secondo i dati di ArcelorMittal Italia, che un anno fa ha acquisito l’ex Ilva con un investimento di circa quattro miliardi di euro, nel trimestre aprile-giugno i conti economici dell’acciaieria hanno un saldo in rosso pari a 150 milioni di euro. Nella congiuntura generale negativa, la produzione annuale è destinata ad attestarsi ben al di sotto delle stime. La multinazionale ha annunciato la proroga per altre tredici settimane della cassa integrazione, che coinvolge 1.395 operai.
ArcelorMittal ha ottenuto la discussa immunità penale, pretesa per proseguire l’attività industriale, che è circoscritta al piano ambientale da attuare. L’immunità è legata al rispetto delle tempistiche del piano e non riguarda le norme a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Ora un passaggio cruciale sarà la facoltà d’uso dell’altoforno 2, che su disposizione giudiziaria potrebbe arrivare allo spegnimento il 10 ottobre con un impatto sostanziale nei livelli produttivi. Sul fronte giudiziario a Taranto è appena ripreso il processo denominato “Ambiente svenduto” che tocca 47 imputati tra gli ex vertici dello stabilimento, ex amministratori, politici e pubblici funzionari. Tra i reati contestati dall’accusa c’è quello di disastro ambientale doloso.
“A Taranto la situazione è di forte incertezza” spiega il dottore di ricerca Salvatore Romeo, che nel 2018 ha curato per Feltrinelli la raccolta di scritti di Alessandro Leogrande su Taranto: Dalle macerie. Cronache sul fronte meridionale. “Da un anno c’è un nuovo proprietario della fabbrica, ma non è chiara la prospettiva dal punto di vista industriale e ambientale. Il recente ricorso alla cassa integrazione, senza accordo sindacale, è emblematico in questo senso, poiché è stata aperta da un momento all’altro. Poche settimane prima l’azienda aveva annunciato che sul piano occupazionale non ci sarebbero stati effetti per il calo della produzione e invece si sono stati.”
Romeo è autore di L’acciaio in fumo – L’Ilva di Taranto dal 1945 a oggi: il risultato di una ricerca decennale, e uno strumento utile a studiare l’evoluzione di una fabbrica strategica e iconica nella storia economica italiana.
Qual è stato il peccato originale dell’acciaieria?
Quando la Finsider decise di realizzare lo stabilimento, dopo anni di discussioni con il governo e la politica locale, le priorità che pose erano di tipo esclusivamente tecnico ed economico nel rapporto con Taranto. Individuarono l’area dell’insediamento, basandosi su un calcolo geometrico e logistico: l’esigenza era avere più vicino possibile lo sbocco marittimo per movimentare i prodotti finiti. Tantomeno in quella fase la comunità locale fissò dei vincoli, perché questo era un investimento fortemente voluto e desiderato. Taranto veniva da un quindicennio drammatico dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. La situazione socioeconomica era molto difficile, dunque per le classi dirigenti dell’epoca era necessario ottenere questa fabbrica. L’allora sindaco democristiano Angelo Monfredi disse che l’avrebbero costruita anche in pieno centro.
Le contraddizioni insite nella nascita del centro siderurgico più grande del Paese, aperto ufficialmente dal Presidente della Repubblica Saragat il 10 aprile 1965, sembrano affiorare ben presto.
Il rapporto tra Taranto e il polo siderurgico è evoluto abbastanza rapidamente. Gli entusiasmi che avevano accompagnato l’inaugurazione della fabbrica si stemperarono già nella seconda metà degli anni Sessanta, quando la città si rese conto dei problemi e degli squilibri che essa comportava nel territorio. Per esempio solo una piccola parte dei lavoratori, che parteciparono alla costruzione dello stabilimento industriale, è stata poi assunta quando la produzione è entrata a pieno regime. Si verificò un fenomeno di disoccupazione di ritorno con delle conseguenze sul piano sociale. Gli alti salari dell’epoca erogati dall’Italsider superavano ampiamente la media del territorio e questo spiazzò le imprese e il sistema economico locale.
A livello ambientale come affiorarono i problemi?
La questione ambientale affiorò soprattutto nel momento in cui Finsider decise di raddoppiare la capacità produttiva dello stabilimento e di espanderne l’estensione verso il mare. A quel punto le classi dirigenti locali non accettarono un atteggiamento così arrogante e strumentale da parte di Finsider rispetto al territorio: intendevano discutere e incidere nelle scelte dal forte impatto urbanistico ed economico. Dagli anni Settanta la crescita del movimento operaio diede filo da torcere alla direzione aziendale.
Quanto è emblematica la storia del quartiere Tamburi?
Il rione ha una storia peculiare, perché esisteva prima dell’Ilva. Negli anni Cinquanta è stato uno dei quartieri a conoscere l’espansione urbanistica e demografica più importante della città. Poi è diventato la zona che, da qualsiasi punto la si guardi, subisce l’incombenza costante del polo siderurgico. Lì la questione è sentita in maniera molto più intensa che nel resto della città. Si osservano lì i problemi sanitari più preoccupanti, la paura delle persone per il rischio di ammalarsi gravemente è più radicata. Ci sono disagi forti nei giorni di vento per le polveri, quando si chiede loro di chiudere le finestre di casa. I livelli di emissioni dell’acciaieria non sono quelli di dieci anni fa, ma il problema che vivono gli abitanti non è stato affrontato in maniera decisiva, provocando una fortissima disillusione nel quartiere rispetto alle promesse di trasformazione e alle aspettative di cambiamento.
Quando si prese consapevolezza dell’impatto ambientale?
All’inizio era tutto empirico. Erano evidenti gli spolverii, i fumi che fuoriuscivano dagli impianti enormi; ma trascorsero anni prima della consapevolezza scientifica. A partire dagli anni Settanta si è provato ad analizzare questi fenomeni. In quel periodo a livello mondiale si diffuse la percezione delle criticità ambientali che lo sviluppo dei decenni precedenti aveva provocato. Questa preoccupazione arrivò anche a Taranto. In particolare, nell’aprile del 1971 si tenne un convegno, promosso dall’amministrazione provinciale, in cui emersero i risultati di alcune indagini ambientali in fase molto embrionale. In Italia solo negli anni Novanta sono state create delle istituzioni in grado di monitorare l’inquinamento e occuparsi della tutela del territorio. Però a Taranto le stesse autorità, dalle amministrazioni locali al prefetto, cominciarono a porsi la questione, cercando d’interagire con Italsider. S’innescò una dialettica, nonostante gli avanzamenti siano stati lenti e controversi.
Quando è stato raggiunto il punto d’equilibrio più alto nella curva dei costi e dei ricavi della fabbrica?
Nella seconda metà degli anni Settanta in un momento di forte conflittualità interna alla fabbrica, nella quale il movimento operaio è riuscito a coinvolgere l’industria in un progetto di diversificazione produttiva del territorio. Può sembrare un paradosso, ma non lo è: l’Italsider viene impegnata a promuovere l’autonomizzazione delle ditte dell’appalto che, per operare dentro di essa, avrebbero dovuto avviare anche degli investimenti esterni, ampliando l’articolazione produttiva locale. Si trattava di un progetto avanzato per l’epoca: era esplicito l’obiettivo di superare la cosiddetta monocoltura dell’acciaio e l’eccessiva dipendenza da un unico fattore produttivo sia dal punto di vista dell’occupazione sia del reddito.
E quando si è prodotta invece la rottura più grave?
La rottura più grave coincide con la privatizzazione, che ha portato a compimento un processo di ristrutturazione intrapreso all’alba degli anni Ottanta e che si è concretizzato con delle conseguenze pesanti per il territorio. La prima è stata la perdita netta di occupazione con l’espulsione dal polo siderurgico e dall’indotto di diecimila lavoratori mediante i pensionamenti anticipati. Ciò ha implicato delle ripercussioni economiche significative e ha mutato la percezione della fabbrica da parte della comunità locale. L’acciaieria è stata sempre più identificata come un corpo estraneo e non più come portatrice di benessere. Questa dinamica si è esasperata con la privatizzazione, quando la nuova proprietà, la famiglia Riva, si è posta come obiettivo esplicito la rottura di qualsiasi rapporto con la città considerata una fonte di costi impropri. L’altra mossa è consistita nel rendere subalterni i lavoratori e il movimento: un’operazione condotta fino alla piena realizzazione. Il carattere drammatico che ha assunto la vertenza ambientale va letto alla luce di ciò che è successo negli anni Duemila. Nel conflitto si sono contrapposti la fabbrica, quasi completamente assoggettata ai nuovi proprietari, e la città che l’ha ritenuta sempre più un problema e qualcosa di alieno da sé stessa.
Che cosa ha rappresentato, con il 1989, la fine del paradigma della città operaia?
È stato un trauma profondo. Intorno a questa realtà si erano accumulate molte aspettative prima in maniera ingenua, poi più critica, tentando di trasformare la fabbrica in un fattore di sviluppo per l’economia locale. Negli anni Ottanta si è compreso il fallimento di tale operazione, non più praticabile perché l’acciaieria era ripiegata su sé stessa, impegnata in un’azione di risanamento e ristrutturazione industriale. E ha cercato di scrollarsi di dosso i vincoli sociali che le erano stati imposti nella fase precedente dal movimento operaio.
Chi ha sopportato il trauma più violento?
Mi soffermo soprattutto su quello patito dagli operai prepensionati. Cito un racconto che considero più interessante di tante analisi sociologiche. Giuseppe Franco Bandiera, direttore dell’ex circolo Italsider, ha descritto la giornata tipo e lo stato d’animo di un gruppo di prepensionati che si sentono come merci scadute; diventano insopportabili per le loro stesse famiglie. Perdono qualsiasi senso d’identità sociale. Immaginare che questo destino sia toccato a migliaia di persone rende l’idea dello shock che un’intera comunità ha vissuto.
Qual è la conseguenza del cambiamento di ruolo e della strategia del sindacato, che ha virato su un’azione essenzialmente difensiva per salvare la fabbrica dalle crisi cicliche?
Il sindacato ha attraversato varie fasi a seconda del rapporto di forza con la controparte. Negli anni Ottanta la siderurgia pubblica, non solo in Italia, rischiava il tracollo e le forze sociali si sono trovate in una condizione di debolezza oggettiva. Ha tentato di gestire e attutire i processi di ristrutturazione dell’acciaieria, ai quali non ha potuto opporsi. Gli stessi prepensionamenti, che hanno disarticolato le forme di controllo operaio costruite dal sindacato nella fabbrica nel decennio precedente, non hanno provocato una forte conflittualità con un prezzo molto alto per il sindacato. Ma soprattutto è stato disarticolato il peso politico del sindacato fuori dall’acciaieria, quando insieme alla cospicua diminuzione dei lavoratori è stata ridimensionata la funzione dello stabilimento nei confronti della società e dell’economia locale. Il sindacato ha perso la propria funzione di mediazione tra la fabbrica e la città.
In questo senso è stato decisivo il ruolo dei Riva?
Sì, c’è stata un’accelerazione dopo la privatizzazione, quando i Riva, appena preso possesso della fabbrica, hanno messo in atto un’offensiva durissima contro il sindacato con la volontà di estromettere anche la funzione industriale di dialogo con gli operai. Potremmo dire che hanno creato un modello populista in cui il vertice aziendale dialoga direttamente con la manodopera. Il sindacato risulta tagliato fuori, riservandosi una nicchia che resterà poi sempre minoritaria. Per tutta la stagione Riva i lavoratori dello stabilimento iscritti al sindacato sono stati un terzo rispetto al passato. E la situazione è cambiata ancora: dopo una lunga stagione di sconfitte, doversi confrontare con una multinazionale come ArcelorMittal, che ha dinamiche ancora meno legate al territorio, è ancora più complesso.
Si può dare una prima valutazione dell’impatto di Mittal sulla città e sull’acciaieria?
La vicenda della cessione è ancora da ricostruire, per cui provo a tratteggiare delle linee di lettura. Mi sembra un caso esemplare dello stato di confusione in cui versano le nostre classi dirigenti. Dal 2012 alla conclusione del processo di cessione ci sono stati diversi cambi di strategia da parte dei governi che si sono succeduti e anche all’interno di uno stesso governo che ha modificato la propria impostazione sulla questione Ilva. Sono svaniti sei o sette anni preziosi, nei quali sarebbe stato necessario realizzare non solo il risanamento ambientale, ma rilanciare l’azienda dal punto di vista economico e produttivo dopo l’estromissione dei Riva. E nulla invece è stato fatto.
Che cosa ha comportato l’inerzia?
I ritardi hanno delle ricadute pesanti dal punto di vista materiale, poiché molti impianti non hanno ricevuto la manutenzione e dunque oggi richiedono investimenti ulteriori, che concernono soprattutto l’aspetto fondamentale della sicurezza dei lavoratori. Ci sono delle conseguenze psicologiche con un clima di sfiducia che pervade sia la fabbrica sia la città, che sette anni fa sperava nella coincidenza della fine dei Riva con quella di una stagione difficilissima e conflittuale con l’azienda. Attualmente prevale un atteggiamento di rassegnazione legata all’incertezza.
Senza gli investimenti di ArcelorMittal è davvero impossibile immaginare la cosiddetta ambientalizzazione?
I lavori sul versante ambientale come la copertura dei parchi minerari, che sono in opera, sono finanziati con risorse sequestrate ai Riva nell’ambito del processo per frode fiscale per il quale hanno patteggiato a Milano. ArcelorMittal dovrebbe poi restituire queste cifre, poiché è una sorta d’anticipo. Al momento non ha pagato un centesimo e ciò crea più di un dubbio: siamo certi che l’obiettivo di questa multinazionale sia di realizzare il risanamento ambientale e al contempo la valorizzazione produttiva dello stabilimento? Le due cose devono andare insieme inevitabilmente. Per ora è prematuro dare una risposta. Il governo dovrebbe chiedere e ottenere risposte chiare alla controparte.
Il 26 luglio del 2012 è stata una data simbolo nella storia dell’ex Ilva con il sequestro su disposizione del Gip Patrizia Todisco, degli impianti dell’area a caldo dell’acciaieria. Ci furono vari arresti, tra cui il patron dell’Ilva, Emilio Riva e il figlio, Nicola. Qual è stato ed è il ruolo della magistratura?
La magistratura ha cominciato a occuparsi dell’Ilva dalla fine degli anni Settanta con una serie di procedimenti che riguardano le emissioni, cercando di stiracchiare e adattare alcuni articoli del codice come il getto pericoloso di cose. Dal Duemila ha assunto un ruolo sempre più rilevante e di supplenza rispetto alle mancanze della politica soprattutto del governo nazionale. Ed è stato particolarmente evidente nel 2012, quando la magistratura si è mossa con in mano due importanti perizie: una epidemiologica, che rivelava la forte incidenza per tipi di tumori che deriverebbero dall’esposizione ad agenti inquinanti; una chimica, che contraddiceva il rilascio all’Ilva, avvenuto nell’agosto del 2011, dell’Autorizzazione ambientale integrata. Da quel momento la magistratura è entrata in campo come un attore di peso in questa vicenda, assumendo un atteggiamento rigido nei confronti della fabbrica anche nella fase di passaggio in mano pubblica. Non è un caso che il governo abbia inserito una norma cosiddetta di immunità penale per inibire l’incidenza di questo attore e ricondurlo all’interno di un argine.
Che cosa lasciano nel vissuto di una fabbrica come l’Ilva le morti sul luogo di lavoro?
Dipende molto dalle fasi storiche in cui accadono. Ne racconto alcune nel libro. Gli incidenti all’inizio degli anni Settanta furono la scintilla che accese la miccia della contestazione operaia. I funerali degli operai caduti sul lavoro si trasformavano in cortei politici, che rivendicavano maggiore sicurezza e controllo da parte degli operai stessi sulla fabbrica. Se pensiamo a vicende dolorose più recenti, dal Duemila, con lavoratori morti in condizioni terribili, hanno provocato reazioni molto meno intense, perché erano ancora gli anni del consenso ai Riva. Erano considerati episodi che rientravano nella dinamica di un’acciaieria. Avvicinandoci al presente, si riscopre una forte sensibilità. In occasione della morte imperdonabile del quarantenne Cosimo Massaro, avvenuta il dieci luglio scorso, quando la gru su cui lavorava è precipitata in mare, lo sciopero indetto dai lavoratori ha raggiunto un numero altissimo di adesioni. Si è arrivati quasi al fermo completo degli impianti ed è dovuto intervenire il governo a Roma per farlo revocare.
È possibile pensare Taranto senza l’ex Ilva?
In qualche modo la città si adatterebbe, anche dimezzando la sua popolazione. È già in atto una contrazione demografica significativa. Nell’immediato le conseguenze sarebbero drammatiche. Vedo uno scenario molto più simile a Bagnoli, Youngstown e Charleroi: una desertificazione non soltanto produttiva con un’ulteriore espansione della precarietà e della povertà già rilevanti in quest’area. Non intravedo dei poteri pubblici in grado di gestire i processi di riconversione che inevitabilmente dovrebbero essere di grande portata, come invece sta accadendo in Cina per gli impianti più inquinanti.