O gni due mesi Rachel Kushner guida per cinque ore da Los Angeles, dove vive, fino a Chowchilla, una cittadina rurale della Central Valley californiana nota per gli appezzamenti industriali coltivati a mandorle e per le sue carceri statali. Il Central California Women’s Facility (CCWF) di Chowchilla è l’istituto carcerario per donne più grande del mondo e sede dell’unico death row femminile dello stato della California. Dal 2014 Kushner è una volontaria dell’associazione Justice Now, descrive le sue visite a Chowchilla come “chiacchierate insieme ad amiche che stanno scontando ergastoli”. Fa da mentore alle detenute che hanno progetti di scrittura in corso; aiuta le altre a sbrigare carte legali, scrivere lettere ai famigliari, mettere insieme la documentazione necessaria alla commutazione della pena; offre supporto emotivo. Nel tempo si sono creati rapporti di amicizia, ma per Kushner passare il tempo insieme alle detenute è anche ricerca. Lo Stanville Women’s Correctional Facility di Mars Room – romanzo del 2018 portato in Italia da Einaudi nella traduzione di Giovanna Granato – è ispirato a Chowchilla, e alle donne che ci vivono.
Una in particolare, Theresa Martinez, una volta scarcerata con la condizionale ha fatto da consulente per il progetto di Kushner, disegnando per lei mappe delle celle e dei cortili, spiegandole come funziona l’impianto elettrico, il circuito idraulico, il filo spinato, come fare sesso e come procurarsi droga. Da lei, Kushner ha imparato la lingua, le soluzioni, le mode, le gerarchie della cultura carceraria: nei ringraziamenti, di Martinez sono citate “la saggezza e la conoscenza della rete visibile e invisibile nella zona penale del mondo”. Condanne, delitti e la gestione quotidiana della pena sono trasportate nella narrazione senza alterazioni a parte i nomi: esiste davvero, per esempio, dentro una cella del braccio della morte di Chowchilla l’altare votivo a ricordo della bambina accoltellata da chi era sotto l’effetto di metanfetamina e fenciclidina.
Le detenute protagoniste delle storie, le inventrici di metodi di comunicazione interna che sfruttano lo sciacquone dei gabinetti per spedirsi fotografie e scrivono veloci nell’aria al contrario per non essere comprese dalle agenti, sono state anche le prime lettrici ed editor di Kushner. Mars Room è proibito nelle carceri californiane da quando Kushner ha permesso alla reporter del New Yorker Dana Goodyear di seguirla a Chowchilla senza l’autorizzazione della direzione, ma le copie che ha spedito alle sue amiche detenute continuano a circolare e a essere lette in segreto.
Mars Room non ha una vera e propria trama: la narrazione si muove per cerchi concentrici, ingloba memorie di vite ancora libere e il quotidiano in prigione di Candy Peña, Betty LaFrance, Doc, Conan, Sally Fernandez, Button Sanchez, ma rallenta sempre in corrispondenza del suo centro, Romy Hall, la protagonista inventata da Kushner. Quando viene arrestata Romy ha ventinove anni, un bambino e un lavoro da spogliarellista nel club Mars Room di San Francisco. A Stanville dovrà scontare due ergastoli per aver ucciso il suo stalker, Kurt Kennedy, più sei anni per aver messo a rischio l’incolumità di suo figlio Jackson. “Le persone in prigione sono furbe da morire” dice Romy, la gente in prigione è astuta, ed è vero: la reclusione è un’educazione pratica, ingegnosa, che costringe ad arrabattarsi con risorse limitatissime per garantirsi una minima soglia di benessere, a coltivare legami fragilissimi, perché viziati dalla mostruosità del luogo, per assicurarsi incolumità e rispetto.
La privazione della libertà fisica non è che una parte del controllo imposto in un regime di detenzione.
L’educazione pratica di Romy è continua, ogni lezione imparata suo malgrado: gettare via la tazza di carta usa-e-getta ricevuta all’ingresso significa passare sei mesi a bere da un fondo di bottiglia raccolto dall’immondizia. Cucinare senza forno, facendo la spesa da una lista limitata di articoli a prezzi gonfiati, vuol dire inventarsi una torta alla Sprite. Si impara a non contraddire gli agenti, anche se la conseguenza è frequentare un corso di alfabetizzazione nonostante si possegga un diploma di scuola superiore. Si partecipa ai programmi di riabilitazione attraverso il lavoro: mansioni d’ufficio per le bianche, “estrarre tampax usati dal filtro della fossa settica per 8 centesimi l’ora” per le nere e le ispaniche, corso di falegnameria senza lame e attrezzi per le ergastolane – 22 centesimi l’ora per incollare quadrati di compensato.
A Stanville non è possibile ricevere cure odontoiatriche, farsi aggiustare le scarpe, procurarsi una pentola, ma si fa passare il tempo lavorando all’uncinetto coperte in acrilico che l’amministrazione provvederà a buttare via. Il rapporto col tempo in carcere è ribaltato, lo sforzo mira a sprecarne quanto più possibile: l’orologio della sala comune di Stanville ha uno spicchio rosso in corrispondenza del dodici, chi non è capace di leggere l’ora deve semplicemente seguire il passaggio della lancetta sul rosso per sapere che un’altra ora è passata. Se il tempo della pena non è sincronizzato ai tempi della società libera non c’è volontà reintegrativa, dal sequestro delle giornate restano solo i muri delle celle di isolamento. Il carcere è un sistema che spalma la precarietà lungo enormi blocchi di tempo, impone ogni giorno la stessa lotta per la sopravvivenza, con la certezza che si ripeterà uguale il giorno dopo. Nega la possibilità di accumulare sicurezza e protezione, perché una decisione dall’alto può spazzare via qualunque equilibrio, e può arrivare in ogni momento. La privazione della libertà fisica non è che una parte del controllo imposto in un regime di detenzione, è nella gestione differita del proprio tempo che l’identità si sgretola, per ricomporsi in figure anomale: “diventare brave a gestire la prigione è l’opposto dell’essere brave a gestire il mondo esterno, si arriva al punto in cui diventa impossibile vivere nel mondo libero” spiega Kushner.
Le stanze di Mars Room non sono solo i dormitori condivisi o le celle isolate in Ad Seg (il reparto di detenzione in isolamento dei penitenziari americani). Se a Stanville vivono migliaia di persone separate con la forza e la distanza dalle comunità urbane in cui vivevano, e in cui hanno commesso crimini, altre impiegano la propria libertà per recidersi volontariamente dalla società. Gordon Hauser è un insegnante di inglese in fuga dall’accademia che procura fotocopie di libri per bambini alle detenute iscritte al suo corso di inglese, e romanzi americani a Romy. Gordon ha colto l’occasione dell’impiego a Stanville per cambiare vita, trasferendosi in una cabin, una casetta ai piedi delle montagne della Sierra Nevada, vicina a una fonte d’acqua inquinata dall’uranio. “Sarà il mio anno alla Thoreau” scrive Gordon all’amico Alex, il quale risponde “il tuo anno alla Kaczynski, piuttosto”. Una stanza poco più grande del proprio corpo, che sia cella o capanna, è ciò che accomuna cattività sancita dallo stato e reclusione autoimposta. Thoreau e Kaczynski potrebbero essere i due poli dello stesso pensiero che ricerca l’autonomia a ogni costo, una fantasia puramente americana che vuole una natura pura ed esclusiva, senza però riuscire a staccarsi dalla convenienza della vita in comune.
La vita solitaria nei boschi predicata da H. D. Thoreau, ma vissuta entro i confini della proprietà dell’amico Ralph Waldo Emerson, è il preambolo alla sua idea di “disobbedienza civile”, i cui contraccolpi non poté mai saggiare per intero, e che infatti non gli costò che una sola notte in prigione, la cauzione prontamente saldata dalla zia. Kushner inserisce in Mars Room, a mo’ di cesura nelle storie intrecciate degli altri personaggi, alcune pagine dei diari di Ted Kaczynski, scritte nel privato della sua capanna, oltre a passi dal suo manifesto, Industrial Society and its Future, pubblicato dai giornali nel 1995. Forse a monito della deriva misantropa che trasformò un brillante professore di matematica nel terrorista Unabomber. Forse, per ricordarci che Kaczynski è vivo, in una cella di isolamento in un carcere di massima sicurezza, invisibile alla società civile quanto lo era negli anni del suo esilio volontario.
L’esclusione della persona indesiderata sono meccanismi che il carcere condivide con altri processi di controllo sociale e urbano.
Mars Room è una cronaca di sparizioni. “Chowchilla è il luogo dove vado per cercare di seguire e tracciare le persone che sono state condannate dal sistema penale della California”, dice Kushner. Lo scopo del sistema carcerario non è solo punitivo per le persone che controlla, ma anche rafforzativo dell’integrità sociale: chi sbaglia, chi commette crimini, chi agisce con violenza, sparisce dalla vista delle persone comuni, perbene. Rimuovere le persone condannate dalla società civile, nasconderle tra le colture automatizzate di mandorli, tuttavia, significa atrofizzare i legami causali tra condizioni di vita e delinquenza, rendendo la colpa un assioma. Pensare che l’atto criminoso sia avvenuto all’interno di un vuoto morale concentra tutta la responsabilità sulla singola persona: “Una volta mi dispiaceva per voi brutte stronze […] ma se vuoi fare il genitore, non finisci in prigione. Punto e basta. Punto e basta.” risponde un’agente carceraria alla disperazione di Romy quando le viene negato ogni contatto con suo figlio. Il carcere è impermeabile anche dall’esterno: le donne ricevono rare visite da familiari e amici, che accampano scuse per evitare il lungo viaggio fino al carcere. L’imbarazzo del sentirsi dimenticate, però, è soprattutto una conseguenza geografica, ed è, ovviamente, legato alla scarsità di mezzi economici. Per far sì che una visita succeda sono necessarie molte ore libere dal lavoro per potersi muovere, la capacità di guidare a lungo, la disponibilità di un’auto, poter pagare carburante, pasti, stanze d’albergo.
La rimozione alla vista della persona indecente, l’esclusione della persona indesiderata sono meccanismi che il carcere condivide con altri processi di controllo sociale e urbano. La capacità di riscrivere la mappatura di un luogo, di una storia, di una persona consentono di rimuovere (quasi) ogni prova dell’esistenza pregressa di qualcosa di diverso, più vulnerabile. Romy è un’attenta geografa dei luoghi del suo passato, a cui pensa spesso per raccontarsi una biografia intima e articolata, resistere alla spinta propria del carcere di sostituire la detenuta con il suo crimine. Romy ha passato infanzia e adolescenza nei quartieri “degradati” di San Francisco. Spazi metropolitani “selvatici” perché abitati, tra gli anni ‘80 e ‘90, da gente povera, tossicodipendente, disoccupata. Nel 2001, quando Romy li visualizza dal carcere, non esistono giù più. “Dove sono tutti quanti e che ne è stato di loro?” si chiede Romy ignara della gentrificazione in atto che devasterà i quartieri popolari di San Francisco, in tempo per la recessione del 2008, l’anno in cui si chiude il romanzo. “Gran parte della storia non la sa nessuno. Sono esistiti tanti mondi che non si possono cercare online o nei libri, anche se voi pensate di avere la libertà di trovare cose a me precluse, non avendo io accesso a internet”, riflette Romy.
In “La vita degli uomini infami”, saggio introduttivo per un libro che non scrisse mai, Michel Foucault progetta “un erbario”, una raccolta di “strane poesie” costituite da brevi passaggi recuperati da verbali di polizia e petizioni al re redatti tra diciassettesimo e diciottesimo secolo. Foucault immagina una collezione di microbiografie di vite oscure e sfortunate condotte da personaggi realmente esistiti: disertori, ubriaconi, malviventi, assassini, contrabbandieri. I mozziconi di vita ritrovati da Foucault brillano di riflesso, sono esistenze grigie conservate negli archivi solo perché per un istante “sono state illuminate da un raggio di luce proveniente dal di fuori”. Ovvero, si sono scontrate con l’autorità al potere. Le infamie di cui si sono macchiati, Foucault nota, non sono state registrate con parole loro, ma nei toni dell’eccesso di chi l’offesa l’ha subita, e ha voluto evocare la macchina del potere inasprendo i toni, al fine di catturarne meglio l’attenzione, illuminare il bersaglio. L’infamia delle donne, invece, è trasparente, ed impregna tutto ciò che incrocia. La rasura del ricordo annienta tutte, che abbiano una petizione online in loro favore, come la nativa americana Geronima – a cui la condizionale è stata negata otto volte perché davanti alla commissione si dichiara innocente dell’omicidio di suo marito – o le cui tracce su internet siano inesistenti, come per Romy Hall, autrice di un delitto troppo banale, contro una vittima insignificante.
Se il carcere è il luogo dove si svela il risultato dei calcoli etici, per Kushner è principalmente il luogo dove il buon senso impone di diluire quanto si può sapere e si vuole speculare sulle storie altrui. Secondo Gordon Hauser
La parola «violenza» era talmente abusata da uscirne svilita e generica eppure aveva ancora un suo potere, significava ancora qualcosa, varie cose. Esistevano gesti di violenza pura: picchiare a morte una persona. E forme piú astratte, come negare alle persone un lavoro, case sicure, scuole adeguate. Esistevano gesti di violenza su vasta scala, come la morte di decine di migliaia di civili iracheni in un solo anno per una guerra pretestuosa di bugie e strafalcioni, una guerra che avrebbe potuto non avere fine, eppure secondo gli avvocati dell’accusa i veri mostri erano adolescenti come Bocciolo Sanchez.
Mettersi dalla parte dell’inequivocabile colpevole è l’esercizio che Kushner impone a chi visita il carcere – sé stessa, Gordon Hauser, la lettrice – non per capire, contestualizzare, immedesimarsi, ma per testare la propria presenza insieme a chi ha infranto la legge. Una spogliarellista che simula una falsa intimità per qualche dollaro in più si merita lo stalking? Quanto è crudele una madre depressa, abbandonata senza supporto, che uccide il suo bambino? Una donna trans che ha sparato perché costretta è pericolosa per le altre detenute dopo essersi evirata in cella? Kushner incasella le storie una dopo l’altra, leggerle col sospetto che possano essere racconti autentici ascoltati dalle amiche in carcere è fondamentale. Non è l’empatia a dare la vertigine, quanto la proiezione della durata delle sentenze: dure, lunghe, in risposta a una colpa certa, violenta. L’autentica Rosie Alfaro che ha pugnalato una bambina nel 1990 è tuttora in attesa dell’esecuzione in camera a gas, la sua controparte fittizia Candy Peña – l’ergastolana con l’altare votivo in cella – umanizza in una riga i decenni di vita ristretta che la narrazione ufficiale della giustizia insabbia recidendo ogni contatto tra “dentro” e “fuori”.
Non a caso la testimonianza (auto)biografica è chiave nella narrazione carceraria. Albertine Sarrazin scrisse il suo capolavoro, L’astragale (1965) durante l’ennesima detenzione per furto ad Alès, un “piccolo romanzo d’amore” in cui racconta la sua evasione dal carcere di Doullens, nel 1957. Il salto di dieci metri dalle mura della prigione con cui si frattura l’osso astragalo apre il romanzo, racconto di una latitanza prolungata e soffocante, sovvenzionata dall’amante Julien, ma troppo impegnativa da sostenere per lasciare spazio mentale alla riflessione sul torto e sul giusto. Kushner dichiara di rifarsi a una precisa tradizione che riflette su delitto e castigo attraverso il romanzo, citando Falconer (1977) di John Cheever e I fratelli Karamazov (1880) di Fëdor Dostoevskij come riferimenti diretti. Non sembra un caso si tratti di un canone maschile, che non integra le testimonianze dirette – per esempio i noir scritti dentro e fuori dal carcere di Edward Bunker, o il carteggio tra Jack Henry Abbott e Norman Mailer, In the Belly of the Beast (1981) – ma forse capace di ammortizzare il vizio di forma della finzione carceraria: la prospettiva privilegiata dell’occhio borghese e bianco, libero di entrare e uscire dal perimetro della prigione. Mars Room vaga in uno spazio ambiguo, rischia l’allineamento con il memoir Orange is the New Black: A Year in a Women’s Prison (2010) di Piper Kerman, o Malice (1996) di Danielle Steel (il romanzo preferito delle detenute di Chowchilla), sebbene rifiuti il lieto fine che monetizza l’esperienza, e scarti a priori il trionfo del potere curativo dell’amore, il dolore come redenzione.
È nella stessa costellazione dell’Università di Rebibbia (1983), il romanzo-diario che Goliarda Sapienza ha voluto così tanto da rubare i gioielli a un’amica per finire in carcere, due mesi a lezione di vita dalle donne di strada e prigioniere politiche per ripulire il suo linguaggio troppo asfittico. Sapienza scrive un testo a circuito chiuso: la ricarica vitale della reclusione la fa iniziare a scrivere da dietro le sbarre, ma l’esperienza a stretto contatto con un’umanità bollente la terrà attiva anche una volta liberata. Le risorse del carcere, purtroppo, sembrano educare meglio chi lo legge e lo teme da fuori piuttosto che le persone i cui giorni sono spesi là dentro. Kushner conosce bene la traiettoria tra le comunità satellite, il mondo libero e quello in gabbia, e con Mars Room chiede che vita c’è nelle stanze di Marte, nelle celle, tunnel, locali bui e quartieri oscuri della violenza immediata, del corpo contro il corpo, del sex work analogico ed epidermico. Chiede, anche, se siano le parti di noi più salubri e felici, oppure le più velenose quelle meritevoli di essere ricordate.