C
he cos’è la traduzione? Su un vassoio / di un poeta il capo pallido e infuocato, / il garrito di un pappagallo, il farfugliare di una scimmia, / e profanazione del morto. / I parassiti che punivi severo / sono perdonati se ho il tuo perdono, / O Puškin, per il mio stratagemma”. In questi versi di Vladimir Nabokov sono racchiusi i due elementi fondamentali della sua attività di traduttore, attività di primaria importanza, al pari della scrittura e dell’entomologia: il primo, una sorta di definizione di cosa egli intenda con l’atto di tradurre, il secondo, il lavoro che lo ha maggiormente occupato, la traduzione in inglese dell’Eugenio Onegin di Aleksandr Puškin. Poco dopo Nabokov continua a tratteggiare con immagini evocative, ammantate da un rispetto che si trasforma pian piano in ammirazione sconfinata, il suo lavoro sul testo di Puškin, dando all’atto della traduzione una vera e propria connotazione di movimento, a sottolineare un lavoro quasi fisico del traduttore, il suo sporcarsi le mani manipolando la parola come un amorevole giardiniere: “ho disceso il tuo caule segreto, / e raggiunta la radice e me ne sono nutrito; / poi, in una lingua di recente appresa, / ho coltivato un altro stelo e trasformato / la tua strofa modellata su un sonetto, / nella mia onesta e marginale prosa – / tutta spine, ma cugina della tua rosa” (e non si mancherà di notare il riferimento alla lingua inglese “di recente appresa”, una scusa o un vanto viste le proporzioni del lavoro).
Si muove proprio attorno al lavoro di traduttore e alle sue riflessioni teoriche sul tradurre il volume pubblicato da Mucchi Editore, Traduzioni pericolose (Scritti 1941-1969), un libro che per la prima volta mette insieme gli scritti sul tradurre di Nabokov, con alcuni, interessanti, inediti. La curatrice del libro è Chiara Montini, ricercatrice presso l’Institut des Textes et des Manuscrits Modernes di Parigi, studiosa e traduttrice, tra l’altro, di Beckett (è opera sua la recente traduzione di Mercier et Camier per Einaudi mentre resta fondamentale, dal punto di vista teorico, il suo La bataille du soliloque. Genèse de la poétique bilingue de Samuel Beckett), che firma un’Introduzione che funziona come ottima guida per districarsi nei densi saggi dello scrittore russo. Com’è noto Nabokov iniziò a tradurre dal russo all’inglese all’indomani del suo trasferimento negli Stati Uniti, poiché per i suoi corsi non era affatto soddisfatto delle edizioni a disposizione, ma già a sette anni era trilingue, scriveva in russo, in inglese e parlava correttamente in francese (in Il dono, forse il maggiore tra i suoi libri russi, si racconta infatti di un lavoro di traduzione da bambino): nel 1922 traduce Alice in wonderland, e negli stessi anni anche molti poeti inglesi e francesi, tra cui Shakespeare, Rimbaud, Baudelaire, Byron e Keats.
Negli anni Quaranta dunque, si trova negli Stati Uniti, dove traduce testi come Il cappotto di Gogol, Il festino in tempo di peste sempre di Puškin, Un eroe del nostro tempo di Lermontov o The song of Igor Campaign, classico della letteratura russa medievale. Eppure Nabokov non è soddisfatto dei risultati delle sue traduzioni e forse anche la delusione lo porta a improntare il suo metodo verso una traduzione “letterale”, croce e delizia del suo lungo lavoro sull’Onegin, operazione ciclica che unisce morte e rinascita di un testo, come annota Montini, “il testo muore per mano della traduzione dalla quale dipende la sua vita futura”. Sul concetto di traduzione “letterale” si esprime lo stesso Nabokov in un testo intitolato emblematicamente “Problemi di traduzione”:
chi desidera tradurre in un’altra lingua un capolavoro letterario ha un unico dovere da rispettare: riprodurre con assoluta esattezza l’intero testo, e nient’altro che il testo. Il termine traduzione letterale è tautologico dal momento che qualsiasi altra cosa non è una vera traduzione ma un’imitazione, un adattamento o una parodia.
L’autore bilingue, traduttore e autotraduttore Nabokov profetizzava di essere ricordato per Lolita e per la sua traduzione dell’Onegin, e se per il suo romanzo certo ci è riuscito, lo stesso non si può dire per la traduzione di Puškin, ricordata oggi solo da specialisti e “traduttori coscienziosi” dal russo. Su questo destino ha certo pesato proprio il criterio assoluto della letteralità della traduzione, aspetto che caparbiamente Nabokov insegue ma che oggi rappresenta anche il concreto rischio di una traduzione fallimentare; basti pensare a questo Onegin che consta, nella versione finale, di quattro volumi, più di 250 pagine di traduzione e 1200 di note e commento, in barba alla oggi tanto richiesta scorrevolezza del testo. “Al mio ideale di letteralismo ho sacrificato tutto quello (eleganza, eufonia, chiarezza, buon gusto, uso moderno e perfino la grammatica) che il grazioso imitatore innalza al di sopra della verità” scrive Nabokov nella sua Introduzione al libro di Puškin e in queste parole pare risplendere il grande, e faticoso, omaggio che lo scrittore compie a uno dei suoi maestri.
Una traduzione che si tramuta in gesto servile, per parafrasare il sintagma usato da Cesare Garboli, nel senso di un messa al servizio verso un maestro nel desiderio di conservarne l’opera. Si tratta di un’inclinazione che emerge con forza nel lungo scritto Risposta ai miei critici, dove Nabokov, rispondendo in prima istanza a Edmund Wilson che aveva bocciato la traduzione (scrivendo Lo strano caso di Puškin e Nabokov, riportato in appendice al volume, dove tra l’altro dice che in questo lavoro Nabokov non riesce a “dare libero sfogo alle sue capacità” e segnando così la fine della loro amicizia), difende il suo lavoro in maniera forte e anche polemica:
In merito ai miei romanzi la mia posizione è diversa. Non riesco a immaginarmi intento a scrivere una lettera all’editore in risposta a una recensione sfavorevole. Le mie invenzioni, la mia sfera privata, le mie isole speciali non possono essere intaccate da lettori esasperati. Se invece le critiche ostili non si rivolgono a quegli atti di fantasia, ma a un’opera di riferimento concreta come la mia traduzione annotata di Eugenio Onegin, allora entrano in gioco altre considerazioni.
Le considerazioni di altra natura sono derivate dallo statuto ontologico del libro di Puškin che possiede un “risvolto etico, elementi morali e umani” ed è rappresentazione dell’onestà o della disonestà di chi l’ha compilato e, conclude Nabokov, “se mi viene dato del cattivo poeta, sorrido; ma se invece mi viene dato dello studioso mediocre, allungo il braccio verso il mio dizionario più grosso”. Dietro l’iperbolica risposta dello scrittore russo si nasconde l’amore per l’opera cresciuto certo con i molti anni passati fianco a fianco a essa, una fatica amorevole riversata in pagine di studi più o meno tecnici, che danno al lettore la misura, se mai ce ne fosse bisogno, dell’impegno e della grandezza del Nabokov scrittore.
Leggere queste pagine teoriche, le difese dalle critiche, gli attacchi ad altri traduttori, è allora non solo un modo per conoscere un aspetto fondamentale della pratica di Nabokov, ma anche l’occasione per addentrarsi nei meccanismi più nascosti della sua scrittura, quasi riuscendo a sentire gli itinerari e le vie del suo ragionamento, perché “il Nabokov traduttore e il Nabokov teorico della traduzione – scrive Montini – sono innanzitutto il Nabokov autore. Il suo punto di vista, anche quando traduce altri, è prima quello dello scrittore bilingue e poliglotta, poi quello del professore (e scienziato) e infine quello del traduttore”.