S u Google cerco Massimo Mattioli. Tra i primi risultati ovviamente salta fuori Pinky, poi, in ordine sparso, una tavola di Squeak the Mouse in cui lo scheletro del Gatto va in giro per la città stritolando piccoli rospi colpevoli di ridergli in faccia. Marvin la mosca, che non conoscevo, pranza con una leziosa montagnola di cacca e se ne porta a casa un pezzo, per la cena. Poi ancora Charly il minatore, una cornacchia che lavora in miniera vibra un colpo di piccone nel punto sbagliato e per una forza surrealista finisce in briciole al posto della parete. Passa un collega e lo carica nel carrello scambiandolo per un cumulo di carbone. E ancora, una tavola de “Il Caso Joy Division”: Ian Curtis non è morto, anzi ha scritto un pezzo che si chiama “The Death”, la polizia riapre il fascicolo del suo suicidio che, forse, è tutto una montatura. Squash: un verme è schiacciato da un rospo lettore di fumetti che a sua volta è schiacciato da un grasso orso un po’ ebete, leccatore di cremini. Poi una tavola del Vermetto Sigh, esordio di Mattioli nel 1967, già ricca, sfrenata, policromatica. E di nuovo ancora: una tavola di quelle romantiche di Pinky, il cielo stellato che è come carta stagnola attaccata alle pareti del nulla da due insettoidi alieni, vignette-sballi tratte da Joe Galaxy, magnifico aquilotto in tutina blu, che avrebbe fatto gongolare Stanislaw Lem, e poi “Porno Massacre” di SuperWest, l’eroe progressista super-occidentale, che cambia identità buttando giù una pillolina.
“Fa’ ciò che vuoi, sarà tutta la Legge” è uno dei precetti più importanti di Aleister Crowley, e, a quanto pare, Mattioli dà proprio l’idea di aver cercato di seguire quel precetto alla lettera, traendo soddisfazione solo sperimentando fino in fondo. La sua opera, che corre forsennata a briglia sciolta, non rende conto a nessuno, tanto meno ai suoi lettori, che gentilmente cazzottava con un umorismo impagabile, scatenato, morboso. Certo, far quello che si vuole su testate come Frigidaire non era un caso speciale, ma seguire lo stesso principio in redazioni un po’ più circospette come quella de Il Giornalino, Vogue, Vanity Fair è veramente da maestri.
Alla fine degli anni ottanta i miei avevano fatto l’abbonamento a Topolino, ma io preferivo Il Giornalino. Lì sopra, strano a dirsi, sfogliando le pagine di quel lieve opuscolo cattolico, si poteva stare faccia a faccia con la creatura più iconica di Massimo Mattioli: Pinky, un pazzesco siluro che l’autore era riuscito a dirigere contro le giovini menti partendo dalla postazione più inverosimile, la chiesa. La messa delle 11, per capirsi. Pinky ha minato parecchio il mio immaginario. Minato nel senso buono. Erano anni fecondi quelli per chi attraversava gli anni della pubertà. Anni adatti alla pazzia. C’erano i diari di Jacovitti, nelle sale d’attesa dei parrucchieri trovavi Skorpio, le raccolte dell’Eternauta le pigliavi in edicola, i cugini ti facevano sfogliare il primo numero di Dylan Dog. Pinky aveva un posto tutto suo. Non era solo un fumetto strano, era pure un fumetto pazzo. Era veloce e scattante, elastico, calzava nel mio cervello da pargolo come un calzino ma allo stesso tempo me lo risistemava e arricchiva di bestie parlanti, creature cosmiche, mostri zannuti e bavosi, foggiati come un arcobaleno in tilt. Le avventure del coniglio rosa che camminava baldanzoso per la città, nottetempo, in cerca dello scoop quasi sempre misterioso, mi stimolava una microtensione a non si sa bene cosa. Le vicende dei semafori innamorati, dei Mostri Cattivi, delle carote mannare, degli Ufo, dei mondi paralleli drenavano completamente la mia attenzione e facevano sparire tutto il resto della rivista.
C’era sempre una punta di assurdo tra quelle vignette, una surreale risacca che faceva già inciampare nella metafisica. All’epoca non mi interessava leggere il nome ed il cognome dell’autore. Pensavo che l’autore di Pinky fosse Pinky stesso, come se si disegnasse senza interventi esterni, da sé. Massimo Mattioli teneva invece le sciabole di quella scintillante giostra tartara. E l’avrei scoperto molto più tardi, quando la tortura cinese della ricerca mi avrebbe portato a rivolgere il naso a una sponda che non c’entrava niente con la messa delle 11.
Mattioli sulle pagine del Giornalino sfogò le sue idee come un guerrigliero. Si assicurò una continuità lavorativa (per 40 anni ha lavorato in quella redazione – dal 1973 fino al 2014) e allo stesso tempo gettò sul tavolo soluzioni favolose, allenando generazioni di giovanissimi tramutandoli in allegri mattacchioni.
Ma quella soluzione non era abbastanza. Nel 1977 assieme a Stefano Tamburini, a cui poco dopo si unisce Filippo Scozzari, fa Cannibale. Lì, come ci racconta la storia, vanno a confluire tutte i benamati benandanti del fumetto “sperimentale” degli anni settanta. Nasce poi un fronte formidabile nel 1980 quando la redazione di Cannibale si reincarna in quella di Frigidaire (rispetto a prima, in più c’è Vincenzo Sparagna). E si produce il Mito, che tanto ha dato lustro e assieme da pensare al fumetto italiano che sarebbe venuto dopo. Mattioli è parte integrante di questa carovana di acerrimi padri fondatori, ma a modo suo. È il più vecchio – è del 1943, c’era ancora la guerra – e questa differenza di età forse porta una visione più concreta del mondo del fumetto. Nonostante gli anarchismi e gli afflati rivoluzionari continua la sua collaborazione con Il Giornalino, lavorando in parallelo alla testata delle edizioni paoline. Due campi da gioco assai differenti.
Comunque sia, le mani che disegnavano Pinky avevano fatto un sacco di altre cose interessanti ed io l’avrei scoperto con calma, avevo solo vent’anni quando i fumetti divennero qualcosa di più di materiale da tenere al gabinetto.
Mi ricordava Altan che faceva la Pimpa e poi è arrivato a fare anche Cipputi. Mi sorprese capirlo, anche se c’era solo da unire i puntini, e quella presa di coscienza mi diede qualcosa. Unendoli quei puntini capivi qualcosa, ti trapelava una luce nuova nel cervello. In realtà non c’erano limiti, con i fumetti potevi fare tutto, non c’erano regole, o meglio se c’erano potevano essere piegate al tuo servizio. Tenevi tu la barra dritta. Nessun’altro. Se ce la facevi, eri il re.
Se su Cannibale aveva mosso i primi passi il personaggio di Joe Galaxy per il piacere dei pochi sparuti lettori di quella bizzarra rivista aperiodica, su Frigidaire Mattioli dà il via a Squeak the Mouse. Motoseghe, decapitazioni, zombi, scene di sesso, tutto in chiave ludica, con i colori di un flipper, tutto reso lecito dal “big game”, il Grande Gioco al massacro tra Tom e Jerry, tra Willy il Coyote e Beep Beep. Bagatelle super splatter e allo stesso tempo masticabili con lo stesso piacere di un chewing gum, che riecheggiano nelle avventure di Grattachecca e Fichetto ideate da Matt Groening.
A questo proposito nella stramba, malinconica, strepitosa intervista rilasciata a Robinson del 25 aprile di quest’anno, Mattioli strepita rigoroso che non gliene frega niente di Matt Groening e dell’ipotetico plagio, “Preferisco essere libero. Non voglio schiavitù. Né di soldi, né psicologiche.” Tanto di cappello.
E continuando a scorrere quell’intervista, arriviamo anche ad una domandona, che Mattioli, sfogandosi, rivolge a se stesso: “Che cosa sono i fumetti?”. Nella sua semplicità, una questione fatale. Io non l’ho ancora capito del tutto che cosa sono i fumetti, e leggere la roba di Mattioli non fa che aumentare, amplificare la portata di questa domanda.
Massimo Mattioli ha smascherato i generi e li ha rimascherati. La fantascienza, il noir, lo splatter, il poliziesco, la biografia si confondono e si rimpolpano di invenzioni stranianti, dando la stura ad una possibilità di combinazioni praticamente infinite.
Basta spaginare Bazooly Gazooly, la raccoltona di storie cannibalesche e frigideriane targata Comicon Edizioni, per seguire la traiettoria del meraviglioso delirio caustico prodotto da Mattioli. Una traiettoria che va alla velocità della luce come una cannonata interstellare, fino a sfiorare fondali sordidi e pestilenziali, definiti sempre con maestria pop. Capolavori minimi sono anche le singole vignette, che diventano delle gemme. I colori, le forme, i contrasti, tutto sembra chirurgicamente perfetto. Il fascio violaceo di un’astronavetta che attraversa lo spazio nero profondo tra una tendina di cinque o sei pianeti colorati nasconde un’architettura sconosciuta che ti fa venire l’acquolina agli occhi.
Sarò un po’ controcorrente, ma secondo me le cose migliori di Mattioli sono proprio quelle brevi, che scattano e ti trafiggono. Sorvolando sul fatto che anche i suoi fumetti di più ampio respiro in realtà si frammentano in episodi concisi, una storia come “Bastardi” (una macchina senziente uccide con enfasi esseri umani in un gelido safari senza fine) è la tipica cannonata che non lascia scampo al lettore, che gli scombina qualcosa dentro, che gli cambia l’ordine delle cose.
Due, quattro, sei, otto pagine. Un’illustrazione, una pagina, una copertina che valeva un intero volume. Ogni dettaglio è ben piazzato per creare una rete infida che cattura un sentimento sardonico e morboso, schifoso a volte, un sentimento che dentro di te non pensavi di avere. Come per la copertina numero sei di Cannibale, in cui un’enorme prostituta incatenata, con una lacrima sognante sul volto, viene venduta per 100 scudi ad un membrutissimo cliente che gocciola bava. Visione quasi felliniana, che promana sensazioni sudate e acerbe, scivolose e grottesche. Un sordido cinismo, che va a braccetto con un’innegabile ricerca della purezza. Un’accoppiata antitetica che fa unica e irripetibile la vis serpentina di Mattioli.
Un umorismo che per me è stato decisivo, anzi di più, formativo, almeno quanto la scoperta della musica punk, delle bizzarrie dei testi di Giorgio Manganelli, delle puntate del Monty Python Flyning Circus. E riferisco questi pensieri personali perché sono sicuro di non essere il solo ad aver “sentito l’impatto” dei lavori di Mattioli e di sentirne ancora le “conseguenze”.
Le fumetterie e le librerie italiane fino all’anno scorso scontavamo amaramente il peccato di non poter recuperare niente (o quasi) dell’opera di Mattioli. Oggi l’innesco è stato dato e grazie all’impegno della Panini Comics, della Coconino Press, di Comicon Edizioni, già sono reperibili, in edizioni fiammanti, frammenti sontuosi e capolavori completi dell’opus di Mattioli. Volumi degni di nota sia per il contenuto sia per la completezza. Si spera che questo innesco arrivi presto alla dinamite, con la ripubblicazione (pare sul punto di essere annunciata proprio da Coconino) delle avventure fantascientifiche di Joe Galaxy e soprattutto dell’infinta epopea di Pinky, che conta di innumerevoli episodi, cicli, serie apparsi nei quarant’anni di brillante carriera del coniglio rosa, le cui avventure per il suo autore sono speciali, una cosa seria, “tra le più belle storie che abbia mai fatto”.
Perché ha senso riprendere in mano oggetti che come minimo hanno già quasi 30 anni sul groppone? Perché dobbiamo perdere tempo a leggere le follie di Pinky, il porno-splatter di Squeak the Mouse e via discorrendo? Penso perché i fumetti di Mattioli non si possono più fare, e se si vogliono fare, c’è bisogno di essere liberi. Quell’approccio semplice e assieme rivoluzionario (forse proprio per questo rivoluzionario) ha bisogno di una gran dose di coraggio. Attualmente il mondo è immerso fino al collo di urgenze, desideri, bisogni di dire, fare, raccontare, manca o si è dimenticata la via sottile del surreale, che va a tastare, a mettere il dito al centro del problema: l’uomo non sa quello che fa, non sa nemmeno chi è o perché si comporta come si comporta. Insomma come si fa a non prendere in giro un tordo del genere? Eppure non c’è più quasi nessuno che attacca il cartello “tirami un calcio” sulla schiena dell’umanità. Mattioli in cinquant’anni di attività ha contribuito a dare la base, l’altezza e la profondità di un universo ironico, comico, ambiguo, feroce, irrazionale. Una scatola meravigliosa in cui ficcare la testa per farsela maciullare.
La morte di Massimo Mattioli mi ha colto di sorpresa. Un po’ perché era in corso la ripubblicazione di praticamente tutto il suo patrimonio a fumetti edito ed inedito, un po’ perché, come tipico di questo autore, è andato via con estrema discrezione. Addirittura la comunicazione ufficiale della sua morte arriva tre giorni dopo la data dell’effettivo decesso. Come se abitasse su qualche distante galassia e il messaggio arrivasse a cavallo di un cosmico ritardo.
Di sicuro lontano dalle scene c’era rimasto per molto tempo, o meglio, lontano dai riflettori, perché ha continuato a lavorare anche negli anni in cui sembrava “scomparso”. Timidezza? Autoreclusione? Esilio? Non penso, solo desiderio di concentrarsi su di sé. Sul lavoro. Senza distrazioni. D’altra parte anche nel formidabile memoriale Prima pagare poi ricordare, Filippo Scozzari lo tratteggia abbastanza sulle sue già ai “tempi d’oro” di Cannibale.
Non l’ho mai conosciuto di persona, e, devo essere sincero, la possibilità di vederlo anche solo di striscio, tra qualche mese a Lucca, dove avrebbe presidiato lo stand della Coconino Press, mi elettrizzava. Mi dava la sensazione di chiudere un cerchio. Mi rimane l’idea di una persona che ti avrebbe fatto passare i guai, ed anche la sensazione che alla fine di questo percorso non avesse detto tutto, che ne avesse ancora tante in testa. Il veleno di questo agosto davvero duro, fatto di perdite onerose per il mondo del fumetto, lascerà il segno per molto tempo.
Mi auguro che la sua opera tracimi oltre i confini dell’archeologia editoriale e che sia ripresa in mano da tutta una nuova generazione di lettori e di autori con la voglia di diventare pazzi. Un augurio semplice, forse, ma efficace, perché, sì, va bene tutto, tutto bellissimo, tutti bravissimi, ma Mattioli era una cosa diversa.