I filosofi sono sul sentiero di guerra”, c’è scritto sulla maglietta che indossa Bruno Latour. Come sia fatto questo sentiero di guerra è la domanda che non gli abbiamo fatto, ma ci viene da pensare a quei percorsi che un tempo, tra il ’15 e il ’18, si inerpicavano sopra i monti dell’Adamello e dell’Ortles e sui quali si confondevano i soldati, le nevi, le ferrate, la roccia e le pallottole: l’antropologo francese il suo sentiero filosofico l’ha percorso proprio dove i segni della natura e della cultura si sono sempre mescolati. Si è occupato soprattutto delle pratiche con le quali gli occidentali costruiscono la conoscenza su ciò che chiamano oggetti della natura, indagando come un etnografo i modi e i miti del fare scienza.
È l’autore della Actor-network theory, la teoria secondo cui ogni fatto sociale e ogni oggetto scientifico è il prodotto di un’intricata rete di relazioni e alleanze, tra umani e non-umani. Ha cominciato nel 1979, con Laboratory Life, studiando una particolare tribù del mondo occidentale: i neuroendocrinologi del Salk Laboratory di La Jolla, in California. La ricerca etnologica fu condotta a quattro mani con il sociologo Steve Woolgar e mirava a ricostruire i protocolli di ricerca, le tecniche di misura, gli strumenti, i miti dei ricercatori, che si mescolavano agli oggetti studiati.
Dieci anni dopo scriverà il suo primo saggio teorico, un’introduzione alla sociologia della scienza: La scienza in azione (1987), dove propose di “aprire la ‘scatola nera’ di Pandora” e di entrare nelle pratiche della tecnoscienza, un calderone fatto di laboratori, istituzioni e peer-review di riviste internazionali. Si è occupato del caso di Louis Pasteur in Microbi – Un trattato scientifico-politico (1984). Il grande scienziato Pasteur, racconta Latour, è un uomo abile, capace di spostarsi dai problemi dell’igiene pubblica alla fermentazione delle birre industriali, dalle malattie negli allevamenti alla pastorizzazione; Latour ne descrive il gioco di alleanze dentro e fuori le scienze, il modo in cui Pasteur trova ogni volta nuovi alleati, microbi, politici, allevatori, urbanisti preoccupati per l’igiene della città, produttori di birra.
È a partire da queste riflessioni sulla costruzione della conoscenza naturale che Latour è arrivato a uno dei suoi testi più conosciuti, Non siamo mai stati moderni (1991). La distinzione tra Natura e Cultura, secondo Latour, è frutto di un costante lavoro di depurazione che distingue oggetti della natura e soggetti della società: di qua le cose, di là le persone e una grande barriera in mezzo. Su questo si fonda la costituzione dei Moderni. Ma, scrive Latour, moderni non lo siamo mai stati per davvero, perché abbiamo sempre creato ibridi tra natura e cultura: campi coltivati, pacemaker, fiumi canalizzati. Latour propone un’antropologia simmetrica che studi specularmente da un lato la cultura e dall’altro la produzione di tecniche, conoscenze e oggetti della natura, come qualsiasi antropologo occidentale farebbe con una tribù degli Achuar d’Amazzonia, descrivendone assieme società, politica e cosmogonia.
Oggi Bruno Latour ha 71 anni e si occupa, sempre come un etnografo, di quelle comunità di studiosi che lavorano sulle scienze climatiche e del sistema Terra, scienze esposte a conflitti e a pressioni sociali e politiche, mentre i segni dell’uomo si imprimono e si moltiplicano con maggiore estensione sull’epidermide della Terra, nel tempo che alcuni chiamano Antropocene.
Incontro l’antropologo in una chiesa sconsacrata di Mantova, durante Festivaletteratura dello scorso anno. Latour è venuto a curiosare in uno spazio particolare del festival, chiamato Scienceground, dove alcuni giovani scienziati hanno organizzato una serie di dibattiti e laboratori per capire meglio il loro mestiere e in che modo le scienze siano ficcate dentro ciò che chiamiamo società. Quando arriva, si forma spontaneamente un gruppo di persone interessate, soprattutto giovani ricercatori, che cominciano a fare domande. Latour si siede sul divano e risponde, e quella che era una chiacchierata informale diventa un’intervista collettiva.
Un libro che continua ad avere successo tra gli scienziati è Imposture intellettuali (1996) di Bricmont e Sokal, due fisici che se la prendono con diversi filosofi e pensatori per come, da non scienziati, parlano di scienza. Li scherniscono dando loro dei “postmoderni” o addirittura degli intellectual impostors, impostori che fingono di parlare di scienza e invece parlano di fuffa. In quella lista nera c’era pure lei. Ha mai avuto un confronto con loro?
È quello che è successo a me quando ho incontrato a un cocktail party alcune persone del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) francese: Bruno – mi hanno detto – abbiamo bisogno del tuo aiuto. Siamo attaccati da altri scienziati, soprattutto fisici, persino premi Nobel, che criticano le nostre ricerche! Ho risposto: Beh, è divertente perché noi abbiamo cercato di darvi una mano per trent’anni ma la sola vostra risposta era che eravamo relativisti. Oggi potrebbe essere tardi, ma dobbiamo aiutarli.
Quando ho cominciato a studiare queste cose, quarant’anni fa, venivo accusato di criticare gli scienziati solo perché descrivevo i loro metodi di lavoro. I modi coi quali la scienza viene prodotta: persone, istituzioni, soldi, colleghi, strumenti, esperimenti, pubblicazioni… e poi, le pratiche quotidiane degli scienziati e pure le loro aspettative personali, che sono essenziali.
Nel Ventesimo secolo, quando tentavamo di descrivere questo, si pensava che la scienza fosse il paradiso e quello che facevamo era visto come una critica. All’epoca, perciò, dovevamo rompere, per così dire, l’egemonia dell’autorità scientifica. Oggi ci troviamo di fronte a una questione del tutto diversa: riorganizzare la civilizzazione. Ovvero: in che modo la scienza può ancora avere credito ed essere seguita dalle persone? Pensiamo agli Stati Uniti, dove le persone sono completamente svuotate di qualsiasi pensiero scientifico. L’unica maniera di difendere la scienza è fare esattamente quello che facevamo allora e ora che sono vecchio continuo a fare lo stesso tipo di studi e lo stesso tipo di cose ma con altri scienziati: i geochimici e gli scienziati del sistema Terra.
Se guardiamo ai conflitti in cui la scienza entra nel dibattito politico, spesso molti, per difendere la ricerca scientifica, provano ancora a giocare la carta della scienza come razionalità.
La seconda ragione è che è meglio per il pubblico, perché dopo aver spiegato come si produce la scienza si può ripartire dalle basi del concetto di autorità, e la fiducia nella ricerca può tornare a crescere. Questa è la scommessa, ma nella situazione odierna è difficile capire cosa accadrà. Perché in alcuni ambienti accademici, molte persone hanno ancora un’idea di scienza come di qualcosa di etereo e perfetto, ed è molto difficile dire cerchiamo di avere un’idea laica, o per così dire “mondana”, della scienza. Eppure la scienza non è fatta di idee filosofiche cristalline, è fatta di molte piccole cose, dati sperimentali e puzzle nelle teste di migliaia di persone, cose che permettono di far sì che quello che studi convinca gli altri. È un sistema davvero affascinante e che non ha nulla a che vedere con l’idea pura di “razionalità”.
D’altra parte anche la filosofia della scienza pare aver lasciato perdere una spiegazione della scienza nella sua interezza: piuttosto oggi si parla per esempio di filosofia della biologia, di filosofia della matematica.
E qual è secondo lei la comunità di scienziati più interessante da studiare?
Le prime due comunità sono molto spaventate dal discredito e dai fraintendimenti del pubblico, in modo diverso rispetto ai fisici: ci sono scienziati per così dire “protetti”, e fondamentalmente i fisici lo sono perché nessuno riuscirà mai seriamente a scocciarli cercando di proporre una qualche versione alternativa della meccanica quantistica, per esempio. Invece oggi chi si occupa di critical zone – un geochimico che parla del suolo, di un fiume, di un vulcano, di un albero, mettiamo –, sarà immediatamente criticato, costretto a discutere con altri ricercatori e con il pubblico che ha altri interessi e altre priorità, o con attori che hanno tutt’altro interesse, come lobby di vario genere. Studiando fisica si può restare nel Ventesimo secolo, ma non è così per chi studia queste altre scienze.
Sono scienze che toccano questioni politiche.
Lei sembra interessato a cogliere e studiare le scienze e l’intera società quasi simultaneamente.
Molto più interessante rispetto a qualche anno fa, quando eravamo ossessionati dalla visione scientifica del mondo. Nel Ventesimo secolo i fisici, in cima alla piramide, ripetevano tutte quelle cose a proposito della ricerca dell’ultima particella che avrebbe spiegato tutto. Ma per gli scienziati che si occupano di suolo, coi quali lavoro, ci sono altrettanti misteri in quattro metri quadri di terreno. E ora abbiamo bisogno di loro, ne abbiamo bisogno per comprendere cosa sia il suolo e per capire che cosa stanno facendo i virus, cosa i licheni. E queste sono scienze che spesso sono state disprezzate dai fisici. Ci stiamo muovendo nella stessa situazione in cui ogni singolo elemento del cosmo, per così dire, ha le sue connessioni associate, il suo pubblico, i suoi riferimenti. Se dovessimo ricostruire Palazzo Te oggi cosa ne uscirebbe? Sarebbe davvero molto interessante. All’epoca uno dei Gonzaga disse: Questa stanza la voglio con un Ercole! Quali potrebbero essere gli affreschi delle sale oggi, quali specie di discipline rappresenteremmo, che razza di immagini porteremmo con noi? Oggi io potrei dire: Voglio una stanza con i batteri!
Il Tascabile sarà al Festivaletteratura 2019, a Mantova: venerdì 6 settembre, alle 21, la redazione dialogherà con Caspar Henderson e Telmo Pievani per un incontro dal titolo Storie di natura.
Seguendo il suggerimento dello stesso Latour, invece, il tema della nuova edizione di Scienceground è: i microbi.