C he cosa possiamo imparare su noi stessi dalle aragoste? In particolare, cosa possiamo imparare da dei crostacei su quegli elementi dell’esistenza umana – conflitti, gerarchie, fallimento e successo – che di solito vediamo attraverso la lente delle costruzioni sociali o delle disuguaglianze? Molto, secondo Jordan Peterson, professore di Psicologia all’Università di Toronto e psicoterapeuta, autore del bestseller 12 Rules for Life. Peterson ha acquisito una considerevole notorietà a partire dal 2016, anno in cui, dal suo canale YouTube (che oggi conta più di 2 milioni di iscritti), lanciò una serie di interventi contro il “politicamente corretto”. Uno dei primi obiettivi fu un provvedimento, la candese Legge c-16, che estende l’identità e le espressioni di genere alla lista dei temi passibili di discriminazione.
In Italia Peterson è arrivato attraverso il web, da riverberi video dove è impegnato a “distruggere” dialetticamente qualcuno: di solito femministe, o “social justice warriors”, espressione con cui dispregiativamente si indicano gli attivisti per i diritti umani, e usata spesso dallo stesso Peterson. Dei due libri best-seller scritti da Peterson, Maps of Meaning e 12 Rules for Life, solo il secondo è stato tradotto in Italia, da una casa editrice che di solito si occupa di new age e manualistica varia di auto-aiuto. E in effetti, a scorrere i capitoli dell’originale, tra le istruzioni dello psicologo figurano massime tutto sommato condivisibili e di buon senso: “Tratta te stesso come qualcuno che hai la responsabilità di aiutare”, “Metti in ordine la tua casa prima di criticare il mondo” o “Presupponi che la persona che stai ascoltando potrebbe conoscere qualcosa che ignori”.
Se si ascoltano le lezioni e i podcast di Peterson, scopriamo più che altro un motivatore. Senza l’aggressività tossica di un opinionista come Ben Shapiro, a cui viene spesso affiancato, Peterson ci dice che nella vita dobbiamo mettere in conto di soffrire, che ci muoviamo tra Ordine e Caos, e che più della felicità dovremmo cercare di dare un senso alla nostra vita – il tutto accompagnato da copiosi riferimenti biblici, mentre si spazia dalla letteratura scientifica alla riflessioni su miti e archetipi. Nulla a che vedere, insomma, con quella nemesi per femministe che ci si potrebbe aspettare analizzando invece le varie fanbase sorte attorno a lui e ai suoi libri. Eppure, al di là della polemica specifica sulla Legge c-16, questo manuale di auto-aiuto ha suscitato tanta avversione, in particolare sul versante delle questioni di genere.
Buona parte delle discussioni sorte attorno a Peterson è dovuta all’ormai famoso “argomento dell’aragosta”, che a cascata giustificherebbe l’esistenza delle gerarchie come fatto naturale, biologico, e non come una costruzione sociale. Nel primo capitolo di 12 Rules for Life, Peterson ci spiega che i conflitti delle aragoste sono regolati da due sostanze, serotonina e octopamina. L’aragosta con alti livelli di serotonina e bassi livelli di octopamina vince i conflitti, e il cervello dell’aragosta perdente vedrà gli equilibri di sostanze configurarla come ancora più propensa a perdere:
Quando un’aragosta sconfitta ritrova coraggio e osa combattere di nuovo, è più propensa a perdere di quanto non sia pronosticabile, statisticamente, dal conteggio delle sue precedenti lotte. Il suo avversario vincente, d’altra parte, è più propenso a vincere. È un “chi vince prende tutto” nel mondo delle aragoste, così come nelle società umane, dove l’1% al vertice ha un bottino pari al 50% in fondo – e dove le ottantacinque persone più ricche hanno quanto i tre miliardi e mezzo in fondo.
Questo determinismo tocca nervi scoperti per chi si considera di sinistra, dato che egualitarismo, emancipazione e superamento delle barriere sociali sono temi centrali di quell’area politica – per non parlare della lotta al patriarcato dei movimenti femministi. Peterson, da una parte, ha gioco facile nel provocare; dall’altra, nelle numerose interviste che ha rilasciato, temporeggia spesso giocando la carta del fraintendimento, e rettifica: la sua idea di gerarchia, anzi la gerarchia che costituisce i sistemi sociali umani, spiega, si basa sulle competenze, non sul “potere”. Poco importa che l’accesso alle competenze non sia una questione neutra, o che non sempre vinca il migliore. Peterson nel giustificare le sue posizioni particolari si appella alla scienza, che è un campo difficile da confutare senza una preparazione specifica. Ciò che è fondato scientificamente, inoltre, ci trasmette un grado di verità superiore a una teoria sociologica.
Eppure l’analogia con l’aragosta di Peterson presenta numerosi problemi, anche da un punto di vista prettamente scientifico. Innanzitutto non distingue tra genotipo e fenotipo. Se sul piano genotipico abbiamo in comune con le aragoste serotonina e octopamina, sul piano fenotipico, dove rientrano le interazioni sociali e con l’ambiente, la società delle aragoste è diversa dalla nostra. Le aragoste non risolvono dispute attraverso gli avvocati, o utilizzando dispositivi tecnologici – ad esempio i droni, che hanno trascurabili livelli di serotonina e octopamina. Non hanno mai attuato politiche coloniali, o massicce importazioni di crostacei schiavi. Non si tirano su coi manuali di auto-aiuto, o con gli psicoterapeuti, o gli antidepressivi.
Inoltre, dato un campo specifico, chi sta ai vertici non manifesta sempre tratti caratteriali associabili ad alti livelli di serotonina e bassi livelli di octopamina. Negli scacchi, dove le capacità individuali sono poste in primo piano (“vince chi commette il penultimo errore” è un mantra noto a qualunque scacchista), stanno nell’empireo caratteri freddi e volitivi come Emanuel Lasker e José Raul Capablanca, ma anche teste calde o profili da psicopatologia come Bobby Fischer e Paul Morphy.
La storia recente, infine, ci dice quanto possa diventare controproducente pensare di sovrapporre una verità scientifica a un sistema sociale, pensando in termini di equivalenza e determinismo. Lo spiega ad esempio il primatologo Frans de Waal, quando, a proposito della multinazionale statunitense Enron, racconta come il CEO Jeffrey Skilling avesse modellato la valutazione del personale prendendo alla lettera Il gene egoista di Richard Dawkins. La competitività interna regolata da Skilleng portò i dipendenti a frodare e imbrogliare pur di evitare il licenziamento, e contribuì al fallimento della multinazionale. “Il libro della natura”, spiega il primatologo, “è come la Bibbia, ognuno lo legge cercando ciò che più apprezza, dalla tolleranza all’intolleranza e dall’altruismo all’avidità”.
La storia recente mostra quanto possa diventare controproducente pensare di sovrapporre una verità scientifica a un sistema sociale, pensando in termini di equivalenza e determinismo.
Perciò, se un sistema A (ad esempio il gene, o le aragoste) è regolato da un certo tipo di leggi, stabilire un’equivalenza con un sistema B (ad esempio una multinazionale, o qualunque sistema sociale umano) senza dimostrare cosa rende A equivalente a B è un’illusione ottica, più che un discorso scientifico. Potremmo per esempio usare i bonobo, scimmie antropomorfe più simili a noi delle aragoste, per proporre come ottimali società matriarcali poliamorose, dove la sessualità interviene a stemperare i conflitti. Ma, per l’appunto, quanto sia scientificamente esatta l’analisi del sistema A non ci dice nulla del sistema B, di per sé; l’equiparazione ci dice piuttosto qualcosa di chi la compie. Ossia, nel caso di Peterson, il bisogno di trovare una giustificazione a convinzioni personali di per sé ampiamente discutibili.
Se il diavolo è nei dettagli, in 12 Rules for Life lo vediamo spesso danzare. Ad esempio nel criticare l’idea che esista il Patriarcato, scrive Peterson: “Certo, la cultura è una struttura oppressiva. È sempre stato così. È una fondamentale, universale realtà dell’esistenza”. Da questa premessa generale deriva il fatto che ogni gerarchia crea vincitori e perdenti, e se i vincitori sono più propensi a giustificare la gerarchia, i perdenti sono più propensi a criticarla (e qui un Socrate avrebbe molte domande per Peterson, a partire da “quindi tu difendi le gerarchie perché sei vincente?”). Il che sarebbe un’indebita generalizzazione, ma il punto nodale è un altro, ossia che sarebbe “perverso” “considerare la cultura una creazione maschile” perché “la cultura è simbolicamente, archetipicamente e mitologicamente maschile”. Una sorta di determinismo archetipico che è assolutamente vero e condivisibile solo se tralasciamo qualunque figura mitologica femminile associata alla conoscenza, o alla guerra, dalla dea Atena alle eroine delle saghe islandesi.
Quando Peterson dice che oggi “le donne possono vincere nella loro gerarchia” e in quella degli uomini, e che questo è un problema perché le donne sono attratte dagli uomini con più status, e come nel perdere contro una donna un uomo perde molto più status rispetto al contrario, più di una visione archetipica, o mitologica, o simbolica, o scientifica, ci sta comunicando un’idea di competizione sociale ferma al cortile della scuola media. Specie se, come sostiene, il rischio all’orizzonte è che le facoltà umanistiche diventino “un gioco per donne”, finendo così in balia del Caos (perché il Caos sarebbe ovviamente femmineo). La “civiltà occidentale” di Peterson è un’idea ora biologica, ora eternamente inscritta nei miti, ora così fragile da poter essere distrutta da dottorande in Antropologia culturale.
Peterson ha in comune con l’estrema destra l’idea di un nemico interno, un blocco ideologico unico identificabile nel “neo-marxismo postmoderno” che minaccia i valori dell’Occidente.
In ogni caso, Peterson è assolutamente convinto che femministe, sociologi e antropologi siano il “braccio lungo” e “postmoderno” del “neo-marxismo”, e che il loro sguardo al servizio del Caos porterà al totalitarismo, distruggendo la civiltà Occidentale. Di recente Peterson ha avuto l’opportunità di discutere di questo pericolo con il filosofo Slavoj Žižek, in quello che è stato promosso come “il dibattito del secolo”. L’eccentrico marxista contro il compassato campione dell’Ordine. Dietro l’enfasi però, abbiamo visto alla fine due persone unite dalla costruzione del ruolo: la capacità di posizionarsi in base ai propri oppositori, tanto che Žižek ha iniziato il proprio intervento ricordando di essere ostracizzato da quegli stessi liberal che avversano Peterson.
Poi però, nelle oltre due ore, ha chiesto conto dell’apocalittica visione di Peterson con una semplice domanda: “Dove sono i marxisti? Dammi qualche nome”. In risposta abbiamo ricevuto i nomi di filosofi morti, come Deridda o Foucault, e la teoria secondo cui c’è una “connessione tra il tipo postmoderno e il marxismo, come un colpo di mano che rimpiazza l’idea di oppressione del proletariato per mano della borghesia con l’oppressione di gruppi identitari per mano di altri”.
Con questa sovrapposizione, arbitraria e confusa, Peterson mostra la sua affinità con l’estrema destra, con cui condivide l’idea di un nemico interno, un blocco ideologico unico identificabile nel “neo-marxismo postmoderno” che minaccia i valori dell’Occidente. Peccato che il temuto relativismo, a ben guardare, sia qualcosa che possiamo trovare anche nei sofisti greci, prima ancora che nei moderni dipartimenti di Filosofia. Dietro il fascino suasorio e la controllata retorica da severo padre di famiglia, che può far presa su un pubblico prevalentemente maschile che avverte un deficit di disciplina, la crociata di Peterson si svela per quello che è: una palude di generalizzazioni e non sequitur in cattiva fede.