A Lucio Dalla, in un concerto a Milano nel 1978, era stata lanciata una bomba molotov durante una contestazione. Nel ‘76 Francesco De Gregori era stato sottoposto a un’arringa passata alla storia come il “processo” del Palalido: alcuni ragazzi, appartenenti agli stessi collettivi studenteschi che avrebbero poi aggredito il cantautore bolognese, dopo aver interrotto la sua esibizione salirono sul palco per interrogarlo e “processarlo”. I capi di imputazione: frequentare alberghi di lusso, suonare con cachet troppo elevati e, in sintesi, infarcire le proprie canzoni dei temi della sinistra solo per arricchirsi. La situazione degenerò e sembrò a rischio anche la stessa incolumità del cantautore: “Mancava solo l’olio di ricino e la scena sarebbe stata completa”, avrebbe commentato a caldo De Gregori.
Entrambe le incursioni erano state opera degli Autoriduttori, un movimento politico degli anni Settanta vicino alla sinistra extraparlamentare e sensibile a quanto avveniva nella musica italiana. La loro battaglia era rivolta, oltre che al rincaro dei concerti, ai cantautori di sinistra che non intraprendevano azioni di concreta militanza politica. Fra le vittime, oltre ad artisti come Antonello Venditti, anche nomi internazionali come Led Zeppelin, Lou Reed e Santana. Il clima degli anni di piombo si traduceva così nel mondo dello spettacolo.
Banana Republic, il tour congiunto di Dalla e De Gregori svolto fra il giugno e il luglio del 1979, fu la chiave di volta: segnò l’inizio della distensione degli Ottanta, ma anche e soprattutto la nascita del concerto moderno inteso come adunata pop enorme, disimpegnata e tipicamente estiva, con sede negli stadi e proiezioni divistiche dei suoi protagonisti sul palco. Fu una cerniera fra la vecchia fase della musica italiana (politica, e legata a contesti ridotti) e la contemporaneità dei live colossali, che Claudio Baglioni prima e Vasco Rossi poi avrebbero sublimato. Ma la portata, iconografica e numerica, di quella tournée è chiara solo definendo chi fossero, all’epoca, Dalla e De Gregori: due star, prima che due cantautori, all’apice della popolarità.
La fatidica sera del Palalido, per dire, De Gregori era reduce dall’exploit di Rimmel, terzo disco della sua carriera, il più venduto del 1975. Un trionfo a cui l’artista aveva dato segnali di insofferenza, ma che il successivo, ostico Bufalo Bill – uscito pochi giorni prima del concerto di Milano – non aveva mitigato. Nonostante avesse mantenuto una scrittura ermetica (pur con variazione intimistiche) e degli arrangiamenti scarni, più vicini a scuola francese, Ivan Graziani e Fabrizio De André che a esperimenti eccentrici sullo stile di Dalla e Rino Gaetano, per l’artista romano, come per i vari colleghi Vecchioni, Venditti, Bennato e lo stesso Dalla, gli ascolti continuavano a crescere e con essi i cachet. Del resto i cantautori negli anni Settanta erano al tempo stesso una moda e la voce della generazione post-sessantotto, la coniugazione fra musica popolare e impegno politico, e ai contestatori ciò sfuggiva: perché De Gregori era, per esempio, il cantante intimo e prevertiano di “Buonanotte fiorellino”, ma anche l’autore del manifesto antifascista di “Le storie di ieri”. Probabilmente fu la sovraesposizione post-Rimmel – maggiore di quella degli altri cantautori, tutti comunque impegnati e contestati – a renderlo vulnerabile a rimostranze violente e plateali come quelle del Palalido. Rimostranze che lo spinsero a ritirarsi: nel 1977 De Gregori lavorò in biblioteca, si sposò e divenne padre di due bambini. A 26 anni, la musica gli sembrava un capitolo chiuso per sempre.
Lucio Dalla veniva da un percorso differente. Dopo una gavetta infinita, con l’album Com’è profondo il mare (1977) aveva archiviato il sodalizio con il poeta Roberto Roversi e iniziato a scrivere in proprio i testi delle sue canzoni. Il risultato era stato, anche qui, una “contraddizione”: il disco vendette bene, meglio dei precedenti, contenendo comunque frasi come “con la forza di un pugno chiuso e di un sorriso”. Il successivo Dalla (febbraio 1979), poi, marcò lo scatto definito: il look eccentrico del cantautore bolognese, con gli occhiali e il cappellino di lana anche d’estate, insieme al soft-rock melodico e mediterraneo di brani come “L’anno che verrà” fomentarono una vera ossessione nei suoi confronti, raccontata anche da Carlo Verdone nel film Borotalco (1982). Alla fine del decennio, Dalla era ormai il volto pop italiano per eccellenza. E i suoi lavori, come già quelli di De Gregori, facevano le fortune della Rca, colosso della discografia che aveva in scuderia entrambi.
Ma fu durante delle sessioni negli studi della IT (la prima etichetta del cantautore romano), all’inizio degli anni Settanta, che i due si erano conosciuti. Lo racconta lo stesso De Gregori nel libro fotografico Guarda che non sono io:
Lucio capitava spesso in IT per fare dei provini. Gli piacevano le mie cose, le trovava strane, e lui era attratto dalla stranezza. (…) Diventammo amici. Lucio aveva un senso della vita tracimante, era difficile non divertirsi andando in giro con lui. Cominciai a seguirlo in qualche suo concerto, lui a seguire i miei.
Sulla scia di questi primi incontri, nel 1975 i due collaborarono all’arrangiamento di “Pablo”, mentre l’anno successivo al testo di “Giovane esploratore Tobia”. Ma la loro amicizia avrebbe giocato un ruolo chiave soprattutto dopo i fatti del Palalido, nel riavvicinamento di De Gregori alla musica con l’album De Gregori (1978): un disco vagamente disteso e malinconico, in cui mettersi alle spalle le contestazioni senza rinunciare all’impegno politico, ma anzi schierandosi, con l’anti-militarismo di “Generale”. Nonostante l’anno sabbatico, le vendite furono in linea con i precedenti successi, e i due a quel punto erano ormai famosissimi. Sempre più uniti, per suggellare la loro amicizia e il ritorno di De Gregori sulle scene, in autunno composero quasi per gioco “Ma come fanno i marinai”: poco più che un malinconico divertissement sullo stile di vita dei marinai, con un ritornello scritto prima, ritrovato chissà dove e arricchito dal riff di clarinetto di Dalla. Il brano esce a dicembre e sarà la prima pietra di Banana Republic: dal suo disimpegno quasi sacrilego deriverà l’anima del progetto, e dal suo successo gli italiani inizieranno a familiarizzare col binomio Dalla-De Gregori. Un sodalizio improbabile: l’uno bello, alto, efebico, timido; l’altro buffo, eccentrico, basso e tarchiato. “Lucio era l’uomo di spettacolo, stava sul palco come un leone, io ero l’animale ombroso con cui la gente ormai mi aveva identificato”, spiegherà De Gregori. Due artisti diversissimi, dunque, su cui la Rca e il suo storico direttore Ennio Melis decidono di scommettere per una serie di grandi eventi dal vivo per l’estate del 1979. Da fare in coppia, per la prima volta.
Ma organizzare un tour congiunto presentava diverse difficoltà: nel provincialismo della musica italiana aprire gli stadi, per di più con una produzione tanto imponente e costosa alle spalle, era un rischio e un inedito. E poi dal Palalido De Gregori non aveva più intrapreso una tournée completa, salvo un paio di brani i due non avevano un repertorio comune, le rispettive band si ignoravano e fuori le contestazioni non accennavano a diminuire. Nonostante questo, però, nella tarda primavera del 1979 la produzione opta per partire: “Eravamo in una bolla di inconsapevolezza”, racconterà anni dopo De Gregori a Mario Luzzatto Fegiz.
La prima data si svolge sabato 16 giugno 1979, a Savona, sotto un cielo plumbeo. Sul palco – che Ferdinando Molteni, nell’incipit del suo Banana Republic 1979: Dalla, De Gregori e il tour della svolta, definisce “incredibilmente grande, bellissimo e distante” dal pubblico assiepato solo sugli spalti per motivi di sicurezza – c’è spazio per le band di entrambi, con quella di Dalla composta dagli Stadio, allora ancora suo gruppo-spalla. In mezzo ai due cantautori suona invece un giovane Ron, chiamato a dare continuità agli arrangiamenti dell’uno e dell’altro: giocherà un ruolo essenziale per l’equilibrio del colosso. A Savona dovrebbe piovere, ma il meteo dà tregua. Il concerto si fa, fila anche meglio del previsto e il 19 giugno si replica già a Genova, stadio Marassi. Poi tutta Italia: Roma, Firenze, Torino, Bologna, Napoli. Manca Milano: “Ma non era una ritorsione. Forse furono gli organizzatori a non voler rischiare”, spiegherà De Gregori. Il tour è un trionfo: certe sere si arriva anche a 50mila spettatori e in totale i biglietti venduti sono 600mila, per un risultato senza precedenti. Non avvengono incidenti o contestazioni, ma solo scene di adorazione prima attribuite ai Beatles e più tardi alle popstar: ai cancelli, nelle attese fuori dalle arene, si assiste a isterie collettive e alle corse al posto migliore che diverranno consuetudine.
Insomma, la musica popolare italiana stava cambiando e per questo Banana Republic fu anche un evento di costume. Il nome stesso del progetto, per dire, nacque da una necessità: per sopperire all’assenza di un repertorio comune i due scelsero di coverizzare tale “Banana Republic”, un pezzo di Steve Goodman sconosciuto in Italia che De Gregori tradusse su segnalazione del fratello, il musicista Luigi Grechi. Fu questa la genesi della title-track “Banana Republic”: una canzone ironica e surreale, estiva, un tropicalismo malinconico con allusioni ai bancarottieri espatriati all’estero, ma senza pugni chiusi e ancora con disimpegno. Era l’unica canzone, insieme a “Ma come fanno i marinai” e all’insospettabile “Gelato al limon” di Paolo Conte (uscita appena qualche settimana prima dei concerti), in cui i due cantautori duettavano. Nel resto del live, salvo variazioni di serata, ognuno eseguiva i suoi pezzi da sé, con la propria band, mentre l’altro rimaneva sul palco limitandosi a fare i cori, suonare il tamburello nel caso di De Gregori e il clarinetto per Dalla.
Quest’idea di concerto congiunto ma con due set ben distinti è opposta ai canoni cui siamo abituati, ma più volte i protagonisti ribadiranno come lo spirito della tournée non fosse reinterpretare i pezzi a due voci, bensì condividere e contribuire alla stessa atmosfera. Un’atmosfera ancora ben resa, a distanza di quarant’anni, dal film dell’evento, che fu distribuito nelle sale qualche mese dopo. Fra esperimenti di “dietro le quinte”, spiccano i sorrisi fra i musicisti, l’aria rilassata del backstage, le sigarette accese sul palco, gli sguardi increduli degli spettatori, l’impianto luci colossale per l’epoca e un contesto sbottonato, quasi naif. E la scaletta. Ventotto canzoni all’epoca popolarissime e con gli anni divenute alla base dell’identità condivisa del nostro Paese: “Piazza Grande”, “L’anno che verrà” e “4 marzo 1943” dal fronte di Dalla; “Generale”, “Rimmel” e “Bufalo Bill” per De Gregori. E “Ma come fanno i marinai” in conclusione: con quel tono giocoso, malinconico e disimpegnato, a conciliare definitivamente cantautorato e musica popolare dopo un decennio di contestazioni, contraddizioni e incomprensioni. Di più: il successo di Banana Republic fu la consacrazione pop della stagione dei cantautori, l’evento che scolpì definitivamente la scuola italiana della Rca nella memoria collettiva del paese, come fenomeno di massa.
Il tour si concluderà a Rimini, il 30 luglio, ma per quel giorno la stagione degli stadi era già ufficialmente aperta. Nel 1980 toccherà a Milano, con San Siro che ospiterà Bob Marley ed Edoardo Bennato. Da lì sarà il turno dei grandi raduni per Claudio Baglioni, uno che negli anni Settanta era messo in cattiva luce proprio per il suo essere disimpegnato. Dal 1990, poi, Vasco Rossi trasformerà i concerti da sessantamila presenze in ritualità costante dell’estate italiana. I protagonisti di Banana Republic, invece, una volta archiviato questo progetto prenderanno strade diverse: Ron e gli Stadio rimarranno nell’orbita di un Dalla sempre più eccentrico e sperimentatore, mentre De Gregori predicherà un isolazionismo quasi nichilistico, prima di riscoprirsi popolare nel 1992, con il disco Canzoni d’amore. I due vivranno anche un lungo periodo di gelo, e per rivederli in tour insieme bisognerà aspettare il 2010 (Work in progress).
Tornando all’estate di quarant’anni fa, durante le date di Brescia, Verona e Bologna lo studio mobile Manor registrò alla meno peggio una manciata di brani in presa diretta. La qualità era scadente, il prodotto raffazzonato e in studio vennero persino aggiunti degli applausi finti: il risultato sarà il trascurabile disco dal vivo Banana Republic, un documento che uscirà già in estate, mentre i concerti non erano ancora terminati. Nonostante fosse un album improvvisato, si rivelò l’ennesimo successo annunciato: arriverà al primo posto in classifica e venderà mezzo milione di copie dando possibile adito a nuove “contraddizioni”, mentre per confezionarlo i dipendenti della Rca avevano dovuto rinunciare alle ferie estive. Ma questi erano aspetti che, nel luglio del 1979, iniziavano già a non importare più a nessuno.