I n un’intervista a se stesso del 1983, Marechera si domandava quali scrittori lo avessero influenzato solo per rispondere che, per quanto lo riguardava, a influenzarlo più della letteratura era stata la “brutalizzata eppure ostinata umanità che mi circondava dove sono cresciuto, al punto da disperarmi”; forse dell’enfant terrible della letteratura africana del Novecento – l’uomo che alla cerimonia di consegna del Guardian Prize for Fiction si mise a lanciare piatti sulla platea – non si possono dare definizioni migliori di questa.
Di La casa della fame (tradotto da Eva Allione per Racconti Edizioni) Doris Lessing diceva che era come “ascoltare un grido” e l’impressione è che non si riferisse solo al tono in cui è scritta questa novella, ma al fatto che a guidare la narrazione sia una disperata urgenza che più di tutto richiede che le cose vengano dette con rapidità e sintesi: “Presi le mie cose e me ne andai”, inizia così il libro e dall’incipit in poi non si ferma più; nel giro di neanche cento pagine lo scrittore attraversa una infinità di argomenti diversi e, come un urlo, ci richiama a sé e ci lascia storditi.
Sintetizzare la trama non è semplice – si tratta delle giornate, dei ricordi confusi e dell’erranza di un personaggio in un compound, tra amici, donne e problemi – ma, soprattutto, non ha senso. In questa litania ininterrotta Marechera parla dell’indipendenza della Rhodesia al tempo di Ian Smith, dei tentativi di decolonizzazione del continente africano, del razzismo strutturale della lingua inglese, della donna nera come della persona più negletta, per citare Malcolm X (“viene bombardata ogni giorno da reti televisive secondo cui le nere non solo sono brutte ma nemmeno esistono a meno che non facciano il bucato, puliscano cessi, lustrino scarpe o sgobbino in uniforme da bambinaia”), dell’odio per sé e della politicizzazione come scelta obbligata e ricattatoria (“no, non è che odio essere nero. Sono solo stanco di dire che è bello”), degli abusi, della poesia e della rabbia.
Studente a Oxford, dove i professori lo dipingevano come un allievo brillante, ma con un atteggiamento decisamente troppo anarchico per il prestigioso istituto, e conosciuto nei pub della città come attaccabrighe, Marechera è un lettore onnivoro e disordinato: lo si percepisce immediatamente dalla lettura de La casa della fame, pieno com’è di citazioni di Eliot, di tavoli invasi da Aimé Césaire, James Baldwin e Senghor, di poeti selvaggi e artisti africani.
Marechera parla dell’indipendenza della Rhodesia al tempo di Ian Smith, dei tentativi di decolonizzazione del continente africano, del razzismo strutturale della lingua inglese, della donna nera come della persona più negletta.
C’è la stessa fame, ma meno mediata e più feroce, dei libri di Bolaño, la stessa giovinezza, lo stesso sperimentalismo innaffiato di droghe e alcol dei beat, c’è il modernismo di James Joyce, ci sono loro e c’è il ghetto, la vita e la mente fragile di uno scrittore per cui la letteratura era una questione di corpi e di energia elettrica.
Con una dipendenza da alcol e una diagnosi di schizofrenia, il talento di Marechera si è bruciato quasi subito: morto a trentacinque anni in quello che era diventato lo Zimbabwe, malato di Aids e in povertà assoluta, è difficile, a posteriori, distinguere tra letteratura e vita quando si leggono espressioni come “la vita è una serie di esplosioni minori la cui eco morente ci si insidia comoda comoda in fondo alla mente” o “quella notte mi balenarono in testa tutte le luci che avevo conosciuto in vita mia”.
E ancora, scrive “la stanza aveva preso possesso della mia mente. La mia fame era diventata la stanza”: quello che invece si capisce subito è che la scrittura di Marechera è impressionante anche a quarant’anni dalla sua prima pubblicazione, che mantiene ancora tutta la rabbia, la forza dirompente. E non solo rispetto all’ambiente serioso dei college inglesi, ma anche rispetto all’élite culturale africana, quella in cui non si riconosceva, quella “che nello stesso respiro riesce a gridare LIBERAZIONE e POLIGAMIA senza sentirci niente di sconnesso”, in cui sono profondamente radicati “la coscienza di classe e lo snobismo conservatore”.
Ci sono descrizioni della pioggia che sembrano spaccare i vetri e i contorni della pagina, ragazze che restano incinte a dodici anni, padri che picchiano i figli, zuffe nei bar e raccolte di poesie: La casa della fame è guidato da una scrittura febbrile di un autore che si definiva “un bicchiere d’acqua trasparente, urtato e congelato poco prima di rovesciarsi”. La bandella la definisce una “novella infinita”, perché sembra contenere il mondo, perché sembra poter continuare per sempre, come un monologo che non trova una conclusione, un momento di pace, in cui ogni cosa si trasfigura in quella successiva.
C’è un cumulo di attenzione che non ti porta da nessuna parte. C’è pure un cumulo di attenzione che pure quello non ti porta da nessuna parte. Sono tutti biglietti per nessuna parte, tutto quanto lo è.