L a protagonista del grande romanzo di Andrej Platonov Mosca felice si chiama Mosca Čestnova ed è una creatura inquieta e raminga, il cui primo ricordo rimanda direttamente alla Rivoluzione d’ottobre, quando era solo una bambina: si tratta di un ricordo violento che ha per protagonista un bolscevico inseguito e ucciso davanti ai suoi occhi. Mosca è orfana sin dalla più tenera età e quando è ormai una donna adulta, un sogno terribile la riporta agli anni della sua infanzia: “correva per una strada dove abitavano animali ed esseri umani – gli animali le strappavano brandelli dal corpo e li mangiavano, le persone la agguantavano cercando di trattenerla”, e alla fine di lei rimane solo lo scheletro, quando “dei bambini che passavano cominciavano a rompere anche qualche ossa, (…) sentendosi magra e sempre più rimpicciolita Mosca continuava pazientemente a fuggire, pur di non tornare mai nei terribili luoghi che aveva abbandonata nella fuga, pur di restare viva”.
Questo sogno “triste e indistinto” della protagonista non è solo immaginazione: a tornare nella sua mente sono i ricordi dell’infanzia, quando lei, così come molti altri bambini, faceva parte dei “besprizornye”, parola russa traducibile in italiano con perifrasi come bambini randagi, bambini senza alcun controllo né tutela. A questi bambini, i figliastri della rivoluzione, rimasti orfani, abbandonati dai genitori o addirittura che decisero di propria volontà di lasciare la famiglia, ormai decimata dalle violenze e dalla fame, dedica adesso un libro Luciano Mecacci, Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935), pubblicato da Adelphi nella bella Collana dei casi, un libro che per la prima volta ricostruisce questa storia per il lettore italiano. Besprizornye è un libro coraggioso che va a scavare in una delle vicende più disturbanti e tragiche del Novecento, una materia complessa che Mecacci riesce a mettere insieme e gestire anche grazie al suo occhio esperto di psicologo e alla sue profonda conoscenza della Russia.
I besprizornye registrati dal regime sovietico arrivarono a essere all’inizio degli anni Venti del Novecento circa sette milioni: un enorme gruppo di abbandonati, reietti della società, rimasti esclusi dal mondo a seguito del 1917. Questi bambini tra i sei e i sedici anni, che si univano in piccoli gruppi, sono descritti da Mecacci con un preciso riferimento alle fonti. Ne emerge un ritratto terrificante: sporcizia impressionante, stracci consumati ammucchiati sui piccoli corpi nella speranza di trattenere il calore, assenza di scarpe anche quando il terreno era coperto di neve, fumo e utilizzo di droghe, furti e prostituzione.
I besprizornye registrati dal regime sovietico arrivarono a essere all’inizio degli anni Venti del Novecento circa sette milioni.
Durante una visita in un orfanotrofio a Novočerkass, il console belga Joseph Douillet (le cui memorie dalla Russia saranno la fonte primaria per il celebre fumetto di Hergé Tintin nel paese dei soviet) e il professor Armandi della Croce Rossa Italiana, restano pietrificati da ciò che vedono in una “sala sudicia e male illuminata”:“asfissiati da fetori stomachevoli, tanto da essere costretti a estrarre il fazzoletto e portarlo alla bocca” scorgono sotto i tavoli bambini che si “abbandonano ad atti che una penna decente non saprebbe descrivere”. Soprattutto, però, constatano l’assenza totale di personale: “i bambini sono abbandonati a loro stessi. Chi gioca, chi si picchia,“e in un’altra stanza ritroviamo la stessa scena che ci ha sbigottiti nella prima”.
La prostituzione diventa in particolare uno dei modi utilizzati per provare a uscire dalla miseria, come racconta Mecacci in quello che è forse il capitolo più crudo del libro. In condizioni psichiche alterate, anche dall’uso di droghe e dell’alcool, soprattutto cocaina e vodka, le bambine e i bambini adescano passanti o viaggiatori di passaggio nelle stazioni, in situazioni dove i segni lasciati sui loro piccoli corpi da miseria e squallore funzionano come ulteriori segnali di debolezza, generando un nuovo meccanismo di sopraffazione che li vede vittime. La prostituzione, annota Mecacci, per molti di questi besprizornye “fu il modo estremo per fronteggiare il freddo degli scantinati e la fame perenne”. Per provare a comprendere questa situazione, che indignava i benpensanti dell’epoca, si potrebbe fare riferimento alle parole del Grande Inquisitore, continua Mecacci citando Dostojevskij: “Prima sfamateli, e poi chiedete loro la virtù”.
L’attrice e regista lituana Anna “Asja” Lacis descrive i componenti di queste bande, che incontrò personalmente nel 1919: “c’erano ragazzi con i visi neri, non lavati da mesi, indossavano giacche a brandelli da cui l’ovatta pendeva a ciuffi, calzoni imbottiti larghi e lunghi tenuti su con una corda. Erano armati di bastoni e spranghe di ferro. Andavano sempre in giro a gruppi guidati da un capo e rubavano, rapinavano, uccidevano”. Uno “spettacolo indicibilmente triste” come lo definì Walter Benjamin proprio durante una visita alla Lacis, con protagonisti questi “bambini abbandonati, pittoreschi e coperti di stracci”, impegnati ad andare a zonzo, correre, sedere lungo le strade, mentre respirano “un’aria di sventura”, come scrisse Joseph Roth nel 1926 nel suo Viaggio in Russia.
A denunciare questa situazione terribile furono in tanti: da Asja Lacis a Walter Benjamin, da Joseph Roth a Georges Simenon, fino a Pasternak.
Ma a denunciare, o comunque ad annotare, questa situazione terribile furono in tanti, anche scrittori molto prestigiosi, come nel caso di Georges Simenon che si trovò a fare un viaggio intorno al Mar Nero nel 1933, più di dieci anni dopo il picco numerico di bambini abbandonati, mostrando che la situazione, seppure un poco migliorata, non era certo in via di risoluzione. Proprio durante alcune visite a Odessa e Batumi emerge proprio come la gravità della vicenda dei bambini abbandonati non fosse molto differente rispetto a quella degli anni Venti, ma ciò che maggiormente colpisce lo scrittore è la causa che la sua guida individua di questa situazione terribile, ravvisabile in una generica tendenza al “vizio”: “ce ne sono dappertutto – dice la guida allo scrittore belga – dormono dove capita… mangiano quello che trovano… Sono una gramigna…”.
Quando Simenon chiede se qualcuno si prende cura di questi bambini, la risposta di Sonia, questo il nome della guida, è disarmante, soprattutto perché, di fronte a loro, c’è “una bambina di cinque anni che dormiva per terra, con la testa ripiegata sul braccio”: “Ci sono – dice Sonia – delle case di rieducazione, ma scappano… hanno già il vizio in corpo”. All’interno di questa idea delle classi superiori di una macchia primigenia e permanente che pesa sui besprizornye, nel dialogo tra Simenon e Sonja per esempio è evidente il disprezzo ostentato dalle classi sociali più alte e scolarizzate nei confronti di questi poveri bambini, ha certo pesato anche la posizione politica della prima epoca sovietica: si trattava infatti di un argomento tabù di cui era sconsigliato parlare anche in famiglia o tra amici in casa propria, “rischiava grosso chi si azzardava solo ad accennarvi” racconta Mecacci.
Il fatto che questa situazione dovesse passare sotto silenzio per paura di delazioni (“Questo tema / ancora non è stato urlato” scrive nel 1926 Majakovskij nella poesia La piaga dei besprizornye) e il tentativo di mantenere il più possibile nascosta la storia perché avrebbe pesato incontrovertibilmente sulla visione che il resto del mondo aveva dell’Unione Sovietica, sono i due fattori che spiegano come delle vicende dei besprizornye si sia iniziato a parlare solo in tempi più recenti.
Una delle domande che con più forza si insinua durante la lettura del libro di Mecacci, anche a fronte dei milioni di bambini che vissero questa situazione, riguarda il destino di questo sterminato gruppo di senza casa e senza affetti. Se le risposte si intravedono già nello scorrere dei capitoli, quello finale, intitolato Tormentare, sgombra il campo da ogni dubbio, raccontando come molti di questi furono internati nei lager, dove oltre alle violenze della detenzione si trovarono a subire anche quelle degli adulti (si pensi a quello che racconta Solženicyn in Arcipelago Gulag, le violenze che C. riversa sui ragazzi, colpevoli di piccoli furti di cibo nei confronti di invalidi e anziani: “acchiappava di nascosto un marmocchio, lo buttava a terra, con il ginocchio gli schiacciava il petto fino a che sentiva le costole scricchiolare”), altri invece, che sopravvissero alla vita randagia, diventarono soldati nelle milizie e nell’Armata Rossa, dove secondo gli ufficiali potevano mettere a frutto l’assenza di empatia nei confronti degli altri, caratteristica “ideale per servitori dello stato sovietico quali i soldati schierati in prima linea”.
Molti diventarono soldati nelle milizie e nell’Armata Rossa, dove secondo gli ufficiali potevano mettere a frutto l’assenza di empatia nei confronti degli altri, caratteristica “ideale per servitori dello stato sovietico quali i soldati schierati in prima linea”.
Di questi ebbe modo di parlare Indro Montanelli nel 1941 in una delle sue cronache di guerra per il Corriere della sera sul fronte finnico-sovietico: dove dopo aver visto questi soldati estremamente giovani e aver notato che “non hanno né istruzione civile né militare”, Montanelli si interroga se Stalin servendosene “vuol approfittare dei besprizorniki per vincere la guerra o se vuole approfittare della guerra per sbarazzarsi dei besprizorniki”.
La vicenda dei besprizornye si ritrova anche in alcuni passaggi del celebre romanzo di Boris Pasternak Il dottor Živago: in uno di questi si racconta di come alla lavandaia Tanja, besprizornica, fu assegnato il cognome Bezoceredeva, “non un cognome, ma una parola inventata, deformata”: a una figlia di ignoti non è concesso di avere un nome reale. Ma forse, aggiunge Pasternak, “nel cuore della Russia, in qualche luogo dove la lingua è ancora pura e intatta” le hanno dato un nome normale, comprensibile: impressionanti sono le liste di bambini senza nome che furono pubblicate sui giornali con la speranza di alcune sparute famiglie di ritrovare i propri figli – alcune di queste sono riportate da Mecacci nel libro – liste che generano questa impressione anche proprio per l’impossibilità di nominare questi bambini che non hanno più la possibilità di essere chiamati. Perduti, molto spesso, per sempre – così come il loro nome.