I l 23 maggio scorso, in occasione dell’ottantacinquesimo anniversario della nascita di Robert Moog, è stato inaugurato ad Asheville, in North Carolina, il Moogseum: spazio espositivo dove sono raccolte apparecchiature d’epoca e memorabilia riguardanti colui che può essere considerato a ragion veduta il padre fondatore del suono elettronico. In cantiere dal 2007 sotto l’egida della Moog Foundation, il progetto è sovrinteso dalla figlia Michelle, che è anche protagonista del documentario Electronic Voyager: il lungometraggio firmato dal team canadese Waveshaper Media, già responsabile nel 2014 di I Dream of Wires, nel quale si ripercorreva la vicenda del sintetizzatore modulare, è un “viaggio emotivo” in giro per il mondo compiuto da Michelle Moog-Koussa sulle orme del genitore, scomparso il 21 agosto 2005.
Per celebrarne il penultimo compleanno era stato organizzato nel 2004 al B.B. King’s di Times Square, a New York, il “Moogfest”, raduno animato da figure come Keith Emerson, Rick Wakeman, Eumir Deodato e Bernie Worrell. Un elenco sommario degli artisti esibitisi nelle edizioni seguenti dell’evento, dal 2010 ricollocato in North Carolina, fra Asheville e Durham, dà la percezione di quanto ampia sia – in senso anagrafico e stilistico – la sfera d’influenza dell’ingegnere statunitense: Kraftwerk, Massive Attack, Chic, Giorgio Moroder, Laurie Anderson, St. Vincent, Grimes, Childish Gambino, Richie Hawtin, Derrick May, Orbital, Flying Lotus, Oneohtrix Point Never, Tim Hecker, Four Tet, Julia Holter e Animal Collective, per citare i più noti. Frattanto il musicista e videomaker californiano Hans Fjellestad aveva ultimato “Moog”, il film biografico che rivisita – con adeguata colonna sonora: Stereolab, Tortoise, Devo… – l’avventura dell’“archetipo americano dell’inventore indisciplinato”, nella definizione del regista.
Nato a New York nel 1934, da bambino Robert Arthur Moog aveva studiato pianoforte grazie alla madre, ma si era appassionato al bricolage elettronico. In un’intervista del 2000 a “Salon” raccontava: “Mi sono interessato nell’adolescenza all’elettronica, specialmente se applicata al suono. E quando parlo di elettronica, non intendo quella del giorno d’oggi: significava due o tre valvole, un paio di resistenze, una coppia di condensatori e certi grossi trasformatori. Potevi mettere tutto quanto sul tavolo. Era il mio passatempo: fra i coetanei c’era chi giocava a baseball e chi faceva a botte, cose che invece a me non piacevano”. Un nerd, insomma: “Ero il cervellone della classe: sapevo di essere più sveglio degli altri e per questo loro si sentivano in diritto di menarmi con regolarità per ricacciarmi in un angolo”.
A 14 anni costruì un theremin partendo dalla scatola di montaggio e a 19 architettò una versione personalizzata di quel bizzarro aggeggio che genera suoni sfruttando le interferenze prodotte dal movimento delle mani nel campo magnetico fra due antenne: il primo strumento totalmente elettronico, intestato al cognome americanizzato dello scienziato russo, in origine Thermen, che lo aveva creato nel 1920 (per intenderci, è il fischio alieno sul ritornello di Good Vibrations dei Beach Boys). A incoraggiarne e sostenerne l’inclinazione fu il padre, ingegnere all’Edison, insieme al quale il ventenne Robert fondò nel 1954 la società R.A. Moog Co. allo scopo di smerciare via posta a 59.95 dollari i kit di assemblaggio del suo theremin: ne vendette un migliaio di pezzi e con il ricavato finanziò il proprio cammino formativo, laureandosi in Fisica, con successivo diploma magistrale in Elettrotecnica e dottorato di ricerca in Fisica Ingegneristica conseguito nel 1964, dopo aver presentato già il prototipo di sintetizzatore da lui appena realizzato.
Fino ad allora la musica “artificiale” era stata appannaggio delle avanguardie, in genere alle prese con registratori a bobina (John Cage e il pioniere francese della musique concrète Pierre Schaeffer) o cervellotiche apparecchiature sperimentali (Karl-Heinz Stockhausen, Yannis Xenakis), ovvero di compositori stravaganti tipo lo statunitense Raymond Scott, con cui Moog collaborò durante gli anni Cinquanta, specializzato in sonorizzazioni di pubblicità radiotelevisive e cartoni animati, e i coniugi Barron, Bebe e Louis, autori dell’avveniristica colonna sonora del film Il pianeta proibito, classico del cinema fantascientifico datato 1956. L’archetipo del generatore di segnali audio chiamato sintetizzatore era stato reso di pubblico dominio nel 1955, mentre un secondo esemplare – soprannominato Victor – fu installato nel 1957 alla Columbia University di New York: si trattava di un macchinario alimentato da schede perforate che occupava una stanza intera, congegnato dagli ingegneri acustici Herbert Belar e Harry Olson nei laboratori della RCA a Princeton.
Oltre a completare gli studi, in quel periodo Moog era impegnato nello sviluppo di altri modelli di theremin, fra cui uno transistorizzato del quale avrebbe scritto poi nel gennaio 1961 sulla rivista specializzata “Electronics World”: basandosi sul protocollo illustrato in quell’articolo, ne assemblò uno Herbert Deutsch, compositore e docente di musica presso l’Hofstra University di Long Island. I due s’incontrarono nel novembre 1963, in occasione di un convegno all’Eastman School di Rochester, e si rividero tre mesi più tardi a cena in un ristorante italiano nel Greenwich Village: là posero le premesse per l’avventura che avrebbero intrapreso di lì a poco. Avevano maturato l’intenzione di fabbricare un sintetizzatore utilizzando moduli – da ciò l’aggettivo “modulare” – connessi tra loro per mezzo di cavi, attraverso i quali produrre impulsi sonori plasmabili in termini di timbro, intensità e frequenza variando la tensione e impiegando componenti di nuova concezione come il generatore d’inviluppo ADSR o i filtri a transistor Low-Pass e High-Pass, brevettati in seguito da Moog. Non erano i soli ad agire su quel fronte: in California operava Donald Buchla, creatore del Modular Electronic Music System che portava il suo cognome, di cui esplorò le possibilità Morton Subotnick nell’album del 1967 Silver Apples of the Moon, mentre a Roma il pioniere nostrano Paolo Ketoff aveva dato forma nel 1964 al Synket. La novità del sintetizzatore di Moog e Deutsch era che lo si pilotava mediante una tastiera tradizionale: intuizione derivata dalla relazione dialettica fra un ingegnere e un musicista. A tale proposito, nel dialogo menzionato con il giornalista di “Salon”, Robert Moog sosteneva: “Il riscontro degli artisti ha indirizzato sempre il mio lavoro: non progettavo cose per me, sono un costruttore di utensili pensati per le persone che ne hanno necessità”.
Il prototipo originario del Moog Modular Synthesizer, attualmente custodito all’Henry Ford Museum di Detroit, fu presentato nell’ottobre 1964, a margine dell’assemblea dell’Audio Engineering Society, e commercializzato l’anno seguente al costo di diecimila dollari: un decimo rispetto al moloch della RCA (“Il parametro più importante di qualsiasi prodotto è il prezzo”, dichiarò l’ideatore in un’intervista), in confronto al quale era inoltre maggiormente versatile e maneggevole. Nel frattempo Deutsch aveva composto la prima partitura destinata allo strumento, Jazz Images – A Worksong and Blues, che sarebbe stata da lui proposta in pubblico insieme ad altro materiale specifico nel 1969 alla Town Hall e al MoMA di New York. Gradualmente il modello venne perfezionato e snellito poi dal team di tecnici nel laboratorio di Trumansburg, dove l’azienda aveva installato il proprio quartier generale e avviato la produzione in serie nel 1967. Una volta venduti, sovente quei sintetizzatori venivano consegnati e installati personalmente da Moog, che si spostava a bordo dei bus Greyhound: gran parte degli esemplari finiva nei centri di ricerca universitari e negli studi di registrazione, mentre nella lista dei clienti figuravano solo 28 musicisti. Uno di questi era Walter Carlos, nelle cui mani alcune austere partiture classiche si trasformarono in bizzarre creature elettroniche dando forma al long playing Switched-On Bach, edito nell’ottobre 1968: best seller da oltre un milione di copie, cifra da primato per un’opera di estrazione “colta”, ancorché in veste non rituale, e vincitore di tre Grammy Awards. Nelle note di copertina dell’album seguente, The Well-Tempered Synthesizer, datato 1969, l’eminentissimo Glenn Gould affermò, riferendosi alla trascrizione del Concerto No. 4 del compositore tedesco: “È il miglior Brandeburghese che abbia mai ascoltato dal vivo, inscatolato o intuito”. Erano le avvisaglie della memorabile colonna sonora di Arancia meccanica, commissionata nel 1971 da Stanley Kubrick all’artista statunitense (che un anno più tardi avrebbe cambiato sesso divenendo Wendy).
Commentò Moog tempo dopo: “Switched-On Bach e i dischi successivi di Wendy Carlos furono determinanti perché dimostrarono le possibilità dello strumento. Nell’industria musicale dei tardi anni Sessanta la convinzione diffusa era che con i sintetizzatori si potessero produrre sonorità buffe ed effetti accattivanti da utilizzare in chiave sperimentale o nei jingle radiofonici, non ‘vera musica’”. Quanto all’altra controversia latente, che cioè le macchine fossero destinate a soppiantare l’essere umano nel processo creativo, in un’intervista concessa nel 1997 al web magazine “Perfect Sound Forever”, disse: “Non sono stato mai sfiorato dall’idea che i sintetizzatori analogici potessero rimpiazzare gli artisti: anzitutto per suonarne uno devi essere musicista. E del resto non ho mai creduto che il suo suono si potesse confondere con quelli degli strumenti tradizionali: per me il sintetizzatore è stato sempre fonte di nuove sonorità”.
Dopo il successo inopinato di Switched-On Bach le cose non furono più le stesse. Fra gli acquirenti del prodotto, oltre a esponenti dell’avanguardia quali John Cage e Suzanne Ciani, si distinsero alcune star del rock: sia i Beatles (che utilizzarono il sintetizzatore Moog in Abbey Road) sia i Rolling Stones (Mick Jagger ne manipola uno nel trailer del film di Nic Roeg Performance), dai Doors ai Byrds, questi ultimi convertiti dai colleghi Paul Beaver e Bernie Krause, che nel giugno 1967 avevano montato uno stand dimostrativo nell’area dove si svolgeva il festival di Monterey. Nel 1969 lo strumento affiorò anche nella colonna sonora di John Barry per Un uomo da marciapiede e in Music to Moog By di Gershon Kingsley, già in evidenza per i lavori in duo con il francese Jean-Jacques Perrey, tra cui l’album del 1967 Kaleidoscopic Vibrations, aperto a suon di Moog da una pionieristica miniatura intitolata The Savers, e in seguito fondatore del First Moog Quartet, protagonista del primo concerto di musica elettronica alla Carnegie Hall il 30 gennaio 1970: nel gruppo compariva Stan Free, che nel 1972 , con i suoi Hot Butter, riprese dal disco citato di Kingsley Popcorn e lo tramutò in tormentone da hit parade.
Intanto nell’officina di Trumansburg, contravvenendo alle indicazioni del boss, ostinatamente purista, uno dei suoi collaboratori di fiducia, l’ingegnere Bill Hemsath, stava testando una versione più compatta dell’apparecchiatura da cui scaturì infine il Minimoog, messo in commercio nel 1970. Fu il punto di svolta: un boom mercantile da circa 12.000 esemplari, propiziato dalla reperibilità del prodotto nei negozi di strumenti musicali e, soprattutto, dalla possibilità d’impiegarlo dal vivo in virtù del costo contenuto e della praticità d’uso. La sua tipica sonorità, vagamente kitsch a un orecchio conformista, dipendeva da un errore: “L’alimentatore funzionava male, nel senso che era instabile, cosicché i tre oscillatori non si trovavano in fase tra loro. Da ciò deriva la tonalità eccezionalmente calda, ricca e suggestiva dello strumento”, ha spiegato il sociologo Trevor Pinch, autore del saggio Analog Days. Tali caratteristiche lo hanno reso immortale: “Il timbro distintivo del Minimoog è ancora con noi adesso, in particolare il corposo suono basso del triplo oscillatore ha trasceso la dimensione effimera della moda, divenendo uno standard accanto a pochi altri strumenti, tipo l’organo Hammond B3 o il piano elettrico Rhodes, nel Pantheon delle tastiere”, proclamò Robert Moog nel 2003, durante una conversazione pubblica a Città del Capo, nel quadro di Red Bull Music Academy.
La pop music aveva a disposizione dunque un nuovo congegno con cui gingillarsi. Lo utilizzarono, talora abusandone, gli alfieri del cosiddetto progressive rock: Emerson, Lake & Palmer, Genesis, Yes e Pink Floyd. E Brian Eno, ancora sound designer nei Roxy Music, lo adottò quale strumento elettivo, così come i “corrieri cosmici” tedeschi, dai Tangerine Dream ai Popol Vuh. Accadde lo stesso nei circuiti del jazz: visionario com’era, Sun Ra se ne appropriò immediatamente (si ascolta il Minimoog nell’album del 1970 My Brother the Wind), ben presto imitato dai “davisiani” Joe Zawinul, Herbie Hancock e Chick Corea, quando su altri fronti della black music se ne servirono Stevie Wonder (Living for the City, 1973) e i Parliament del “funkadelico” George Clinton (Flashlight, 1978), mentre nel 1977 Giorgio Moroder coniò la disco music per conto di Donna Summer al ritmo di I Feel Love, contemporaneo all’ampolloso Oxygene di Jean-Michel Jarre. Ma soprattutto arrivarono i Kraftwerk, che più di chiunque altro, da Autobahn in avanti, colsero ed esaltarono il valore rivoluzionario di quel ritrovato tecnologico, formulando canoni cui tuttora si attiene la musica pop. L’onda lunga suscitata allora giunse a contagiare persino il post punk di Devo e Gary Numan, per scavallare addirittura nel Ventunesimo secolo attraverso il revival dei sintetizzatori analogici personificato dai vari Beastie Boys, Air e Beck. Con quel cognome vagamente onomatopeico (da pronunciare “moug”, in rima con vogue, precisano puntigliosamente molti degli articoli a soggetto), il signor Moog ha segnato perciò la storia della musica contemporanea quanto altri “inventori” quali Leo Fender, Les Paul, Adolph Rickenbacker e Laurens Hammond. Ma se costoro non fecero che elettrificare strumenti – chitarre, pianoforti e organi – già esistenti, a lui spetta il merito di averne creato uno nuovo di zecca.
E tuttavia egli non riuscì a beneficiare nella misura dovuta della propria invenzione. “Di colpo mi ritrovai al centro di un business in espansione senza sapere come condurlo, non avevo idea di cosa fosse un bilancio, ignoravo le regole del cash flow e il conto era sempre in rosso: per me rimaneva un hobby”, confessò una volta. L’unica annata in attivo fu il 1969, sulla scia di Switched-On Bach, cosicché nel novembre 1971 l’azienda venne assorbita – causa indebitamento – dalla rivale MuSonics, che nel 1972 la ribattezzò Moog Music per poi cederla nel 1975 alla Norlin Corporation (all’epoca proprietaria pure del logo Gibson), sotto la cui direzione l’offerta si ampliò con il lancio di Polymoog, Multimoog e Moog Vocoder, benché a fare il mercato fossero a quel punto concorrenti quali il connazionale ARP Instruments e i giapponesi Roland e Korg, quando all’orizzonte si stagliava l’incipiente avvento del digitale, annunciato dal sintetizzatore polifonico Synclavier, seguito dal campionatore Fairlight CMI e dall’interfaccia MIDI.
Retrocesso al rango di semplice dipendente, Robert Moog aveva rassegnato le dimissioni nel 1977: “Che cosa mi ha spinto ad andarmene? Che cosa mi ha trattenuto così a lungo, piuttosto”. Avviò quindi una nuova ditta, Big Briar, e s’insediò nel 1978 ad Asheville continuando a ideare altri prodotti, dal pianoforte interattivo manovrato da uno schermo touch alla rielaborazione del theremin chiamata Ethervox. Dal canto suo, Moog Music dichiarò bancarotta nel 1987 e cessò l’attività nel 1993. Per riappropriarsi del marchio il titolare avrebbe dovuto attendere il 2002, tre anni prima di andarsene. Onorandone la memoria, nel 2016 l’azienda ha messo in commercio la riedizione del Minimoog Model D con connessioni MIDI, dopo che nel giugno 2015 le maestranze – un’ottantina di addetti complessivamente – avevano acquisito una parte delle azioni dell’impresa, divenendone di fatto comproprietarie, come voleva il fondatore: proposito avverato nel decennale della scomparsa dalla vedova Ileana Grams e dall’amministratore delegato Mike Adams.