Le metamorfosi di Sylvia Townsend Warner
Identità femminile, rapporto con la natura e dimensione soprannaturale nei romanzi della scrittrice inglese.
Identità femminile, rapporto con la natura e dimensione soprannaturale nei romanzi della scrittrice inglese.
L aura Willowes è una ragazza inglese, molto perbene. Vive con il padre in una grande casa di campagna piena di oggetti tramandati da generazioni. È l’inizio del novecento e Laura è di famiglia borghese, ama passeggiare nei boschi e cercare erbe medicinali, non si fa domande sul futuro. Alla morte del padre, il fratello decide che andrà a Londra a stare da lui. “Laura, sentendosi un po’ come un articolo dell’eredità omesso dal testamento, si era disposta a fare quello che gli altri ritenevano più opportuno”.
Inizia così Lolly Willowes, il primo romanzo di Sylvia Townsend Warner, pubblicato nel 1926. Le premesse hanno un sapore vittoriano, sono il punto di partenza ideale per un racconto di formazione che vedrà la docile Laura trasferirsi a Londra, superare qualche difficoltà, poi trovare un uomo rispettabile e costruirsi una vita in città. È quello che si augurano il fratello e la moglie accogliendola, ma le cose non andranno così. Il vero romanzo di formazione inizierà vent’anni più tardi, quando Laura – ormai una signora di mezza età – deciderà di trasferirsi in un villaggio di campagna per diventare una strega.
Sylvia Townsend Warner, in effetti, non è autrice di romanzi vittoriani. Nata nel 1893, studia musica, ha una relazione con un professore molto più grande di lei, lavora in una fabbrica di munizioni durante la prima guerra mondiale, si iscrive al partito comunista, inizia una relazione con la poetessa Valentine Ackland che durerà tra alti e bassi per tutta la vita. Nei libri di Townsend Warner ci sono i personaggi austeri e strampalati di Dickens, l’ironia di Jane Austen, il realismo di George Eliot. Ma le storie prendono spesso una piega fantastica, surreale, che trascina i protagonisti verso zone sconosciute di sé: una donna che diventa strega, un’orfana che rincorre un amore fatato, un missionario di stanza nei mari del sud che scopre l’attrazione per l’uomo che è riuscito a convertire. In Lolly Willowes e Il cuore vero (i soli pubblicati in Italia, entrambi da Adelphi), questo slittamento si nota in particolare nell’identità femminile.
I romanzi di Sylvia Townsend Warner prendono spesso una piega fantastica, che trascina i protagonisti verso zone inesplorate.
La trasformazione di Laura Willowes avviene per gradi. “Al momento di trasferirsi a Londra, Laura si lasciò Laura alle spalle e acquisì lo status di Zia Lolly”. Cambia il nome e la funzione sociale. A Londra, Lolly è la zia che si occupa dei nipoti, è la presenza discreta indispensabile al funzionamento della famiglia, è la cognata zitella per cui si combinano cene e appuntamenti, è la donna di cui “già nel 1902 c’erano persone di mentalità aperta che si chiedevano perché quella Miss Willowes, piuttosto benestante e con tutta probabilità destinata a non sposarsi, non avesse messo su casa per conto suo, dedicandosi a un’attività artistica o a qualche causa progressista”. Il cambiamento è anche fisico. La vita lontana dalla campagna l’ha resa più pallida, il passare del tempo ha accentuato le linee agli angoli della bocca, curvandoli verso il basso; i lineamenti sono più duri, “avevano perso la loro espressività ed erano sempre più dominati dal naso adunco e dal mento aguzzo, che dieci anni dopo avrebbero avuto il sopravvento”. L’occhio del narratore è fisso su Laura, ma le domande arrivano il più delle volte dall’esterno, sono gli altri a commentare la sua vita, a prendere decisioni per lei. Per vent’anni, si abbandona alla quotidianità e a “un senso quasi mistico dell’importanza delle piccole cose”.
In questo torpore, si presenta a tratti un’inquietudine difficile da identificare, un turbamento che non ha a che fare con la sua vita ma con l’arrivo dell’autunno, l’odore delle foglie morte, la luna alta nel cielo:
La sua mente inseguiva a tentoni qualcosa che sfuggiva all’esperienza, un qualcosa di rarefatto e minaccioso, e che tuttavia, per qualche ragione, le era affine; un qualcosa che si celava in luoghi tetri, evocato dal rumore dell’acqua che gorgoglia in canali profondi e dal canto sinistro degli uccelli notturni.
È un’inquietudine che si avvicina a una forma di desiderio. Laura all’improvviso decide di cambiare vita, abbandonare il suo ruolo sociale e trasferirsi nel villaggio di Great Mop, guidata solo dalla fiducia in una sensazione che non ha ancora decifrato, l’attrazione verso la natura, il selvaggio e l’indomito, il non addomesticato. Arrivata al villaggio, Laura passa le giornate a camminare nei prati, a dormire nelle radure e all’ombra di faggi; instaura un legame profondo con i boschi e le colline.
Questa attrazione verso il mondo naturale si trova anche in Il cuore vero e appare evidente fin dalla genesi. Townsend Warner racconta di aver trovato una mappa nel reparto cancelleria di un negozio londinese e di essere rimasta affascinata dal verde delle paludi e dai loro nomi, al punto di decidere di visitarle. Nelle intenzioni dell’autrice, Il cuore vero doveva essere un adattamento vittoriano della storia di Amore e Psiche. L’unica a capirlo fu sua madre. In effetti, le peripezie che la protagonista deve superare sono solo un intrattenimento superficiale. La storia dell’orfana Sukey Bond e del suo cieco amore per Eric Seaborn colpisce per l’insistenza di certi temi che ritornano, sepolti sotto gli slanci amorosi. Il cuore vero è un romanzo di formazione femminile in piena regola, che vede l’identità di Sukey compiersi con la maternità. È un percorso che procede in parallelo con la scoperta del mondo naturale. Spedita dall’orfanotrofio alla fattoria dove prenderà servizio, scopre il paesaggio della palude, sospeso tra la terra e l’acqua:
Là, nelle paludi salmastre, Sukey era in un luogo segreto fra due mondi, e portandosi una mano al viso per detergersi il sudore scoprì di avere su di sé l’aroma di quel territorio ambiguo: un odore di sale, di fango ricco, e l’effluvio acre e fragrante dell’abrotano selvatico. Infilò le mani in un cespuglio e si annusò i palmi. Era così eccitante scoprirsi profumata (lei che fino a poco prima sapeva solo di sapone da bucato), che si accorse d’un tratto che stava affondando i denti nel labbro, e anche quello era un piacere, tanto lievi e precisi erano quei morsi.
La natura invita a scoprirsi. Il monologo di Sukey sulla soglia della maternità, il coronamento ideale del suo percorso di formazione, quando la sua identità di ragazza si scinde per sempre dalla donna che diventa madre (“Ti rivedrò mai Sukey, Sukey Bond? Forse quando Sukey Seaborn fosse stata vecchia, seduta al sole o china fra i suoi cespugli di lamponi e uva spina, Sukey Bond sarebbe tornata, l’ultima, la più vera, la più pietosa dei suoi figli”) segna un cambiamento netto, nel pensiero e nel tono, se paragonato alla prima impressione della ragazza a contatto con il mondo animale:
Quando la scrofa figliò, Sukey si sentì molto a disagio. Provò imbarazzo davanti a una così ampia manifestazione della maternità.
Sylvia Townsend Warner non gioca solo con il percorso positivista di crescita e inserimento nella società del romanzo vittoriano e con la sua tendenza al sentimentalismo (i romanzi delle sorelle Brontë spogliati della vena selvaggia, la morte dei piccoli orfani di Dickens, le digressioni esasperate di Trollope); ma anche con l’eredità della tradizione inglese nella rappresentazione del paesaggio. Si dilunga nella descrizione minuta di fiori uccelli piante, di oggetti e circostanze, con la delicatezza dei primi romantici (“Il fruscio delle gonne sembrava sollevarsi attorno come il mormorio dell’acqua che circonda uno scoglio”); si concede poi metafore byroniane per esaltare la potenza della natura (“Sull’intera palude il vento rugliava e rimbombava con un rumore sordo, come il fantasma di un tuono”). Il mondo naturale nei suoi romanzi, però, ricopre un ruolo molto più sensuale: instaura una relazione intima con i personaggi femminili, spesso in netta contrapposizione con quelli maschili.
Sylvia Townsend Warner non gioca solo con il percorso di crescita del romanzo vittoriano, ma anche con la tradizione inglese nella rappresentazione del paesaggio.
Gli uomini della fattoria di Il cuore vero sono impegnati a dominare la palude, a dare forma al paesaggio per addomesticarlo. Il vento e il mare che risvegliano il desiderio di Sukey sono per loro una minaccia da combattere. In Lolly Willowes questo meccanismo diventa ancora più esplicito. Quando Titus, il nipote preferito di Laura, va a Great Mop con l’intenzione di stabilirvisi, la sua presenza è vissuta fin da subito come un’invasione. “Aveva lasciato la pipa e la busta del tabacco sul caminetto, come lo scettro e la corona di un monarca usurpatore” nota lei. Le cose peggiorano quando questa invasione travalica la casa e s’impossessa della natura circostante. In una passeggiata nei boschi, davanti a uno splendido panorama: “Vorrei poterle accarezzare”, dice Titus “e seguì con la mano il profilo rotondo delle colline inciso da rotondi boschi di faggi”. Prova un’attrazione possessiva nei confronti del paesaggio. È la paura di sentirsi schiacciata da una simile carezza, di sentirsi di nuovo imprigionata da quell’abbraccio famigliare, che spinge Laura a stringere un patto con il diavolo.
Fosse stata chiamata a scegliere a sangue freddo se fare la zia o la strega, forse l’abitudine e la vigliaccheria degli scrupoli di coscienza avrebbero avuto la meglio. Ma al momento buono, pressata dall’angoscioso subbuglio della Lolly braccata che la opprimeva come una coltre di buio, la vera Laura ne era uscita con un fiuto infallibile. Aveva saputo a chi rivolgersi.
Anche qui il rapporto con la natura è rivelatorio. Immersa nei boschi, in un paesaggio non addomesticato, Laura riesce a decifrare il richiamo che il Diavolo, “l’amoroso cacciatore”, le indirizzava da anni. L’atto di rispondere a questa chiamata è una tripla promessa: verso la natura che l’ha fatta risuonare, verso il soprannaturale che le dà un ruolo alternativo alla società, verso l’ultima evoluzione della propria identità che si riconosce nel ruolo di strega: “per mostrare il nostro disprezzo per chi finge che la vita sia un luogo sicuro, per soddisfare la nostra passione per l’avventura”.