N ella maggioranza dei film di fantascienza, i cibi del futuro sono intrugli di proteine o pillole colorate che garantiscono gli elementi nutritivi essenziali, oppure cibi tradizionali ma di origine sintetica, come i noodle dei chioschi che affollano le strade della decadente Los Angeles di Blade Runner. Lì, su una Terra esausta, spremuta dall’ingordigia umana, gli animali sono un privilegio per pochi eletti. Le persone comuni devono accontentarsi di repliche artificiali, sia per compagnia sia – e soprattutto – a tavola.
Nella nostra realtà la carne rappresenta l’ossessione alimentare di gran lunga più agognata, che affonda le sue radici nella realtà di una filiera costosa, eticamente controversa e ambientalmente onerosa, motivo per cui, da almeno mezzo secolo, i ricercatori stanno esplorando la possibilità di creare bistecche e petti di pollo in provetta. Stando a quanto dichiarato da un numero crescente di aziende biotech, il traguardo sembra ormai prossimo: entro il 2020, o al più tardi nel 2021, i primi hamburger coltivati in laboratorio potrebbero sbarcare nella grande distribuzione.
L’idea di sintetizzare gli alimenti fa capolino già nella seconda metà del Diciannovesimo secolo. Il primo scienziato a sbilanciarsi fu probabilmente Marcellin Berthelot: in una dichiarazione del 1894, il chimico francese affermò che entro l’anno 2000 l’umanità avrebbe abbandonato la macellazione degli animali per sfamarsi di bistecche prodotte in laboratorio. La suggestione influenzerà più l’immaginario collettivo che la produzione gastronomica, come dimostra l’articolo su The Strand Magazine del 1931 nel quale Winston Churchill affermò che presto o tardi saremmo sfuggiti “all’assurdità di far crescere un pollo intero, solo per mangiarne il petto o l’ala, facendo crescere queste parti separatamente in un ambiente adatto”. Il primo alimento sintetico della Storia sarebbe stato tuttavia molto diverso dalle aspettative.
Nella seconda metà degli anni Sessanta i ricercatori della British Petroleum svilupparono le cosiddette proteine da cellula singola. Dalla fermentazione microbica della paraffina e la successiva essicazione del lievito responsabile (Candida lipolytica), il gruppo guidato da Alfred Champagnat ricavò la Toprina, la più celebre fonte di proteine alimentari non convenzionali. Nell’annunciare l’avvio della produzione dei primi lotti, Champagnat fu terribilmente lucido nel predire la sorte della sua invenzione: “Gli esseri umani sono molto conservatori nelle loro abitudini alimentari […]. Allo stato attuale non sappiamo come o fino a che punto la gente accetterà la Toprina come additivo o sostituto di cibi più tradizionali”.
Già nel 1894 Marcellin Berthelot affermò che entro l’anno 2000 l’umanità si sarebbe sfamata di bistecche prodotte in laboratorio.
A partire dal 1978 le bioproteine verranno effettivamente impiegate nell’allevamento dei bovini, incontrando un discreto successo in alcuni Paesi come l’Unione Sovietica. Tuttavia si tratterà di un fuoco di paglia: le incertezze sulla sicurezza e la pressione delle associazioni ambientaliste porteranno al loro accantonamento dopo appena una decina di anni.
I primi hamburger
Nel frattempo i successi ottenuti nelle tecniche di coltura cellulare, soprattutto dopo l’isolamento delle prime cellule staminali, e l’interesse delle agenzie spaziali ponevano le basi per creare la bistecca in provetta. La grande corsa, disputata a colpi di annunci e brevetti, ebbe ufficialmente inizio nel 2002 quando un consorzio capitanato dal Touro College di New York comunicò di aver ottenuto un filetto di pesce potenzialmente commestibile. La storia si stava però scrivendo nei Paesi Bassi, grazie alle ricerche pionieristiche condotte da Willem van Eelen, considerato da molti il padre putativo della carne coltivata.
Figlio di un medico olandese di stanza nell’allora colonia delle Indie orientali, durante la seconda guerra mondiale van Eelen fu catturato dai giapponesi e quindi recluso per cinque anni nei campi di lavoro. Gli stenti patiti durante la prigionia furono decisivi nell’orientare la sua carriera accademica: rientrato nei Paesi Bassi al termine del conflitto, si iscrisse a medicina, interessandosi fin da subito all’istologia e alla possibilità di coltivare popolazioni di cellule per scopi alimentari. Durante gli anni Novanta van Eelen depositerà una lunga serie di brevetti, cedendoli regolarmente per finanziare le proprie ricerche. Nel nuovo millennio, passa il testimone al connazionale Mark Post dell’Università di Maastricht. Sarà lui nel 2013 a proporre in mondovisione la cottura e degustazione del primo hamburger ottenuto da cellule staminali di manzo cresciute in laboratorio.
L’hamburger da 150 grammi era composto da 20 mila fibre muscolari, ciascuna delle quali nutrita da siero fetale bovino e coltivata singolarmente per tre mesi prima di essere compattata con le altre. Il colore della carne dipendeva dal succo di barbabietola mentre il sapore era stato corretto con l’aggiunta di zafferano, sale, uova in polvere e pane grattugiato. Nonostante l’apprezzamento della critica gastronomica Hanni Ruetzler, l’anomala consistenza della creatura di Post aveva rivelato il vero tallone di Achille della carne coltivata, nonché il motivo per cui le aziende biotech lavorano a polpette, salsicce e altre pietanze ottenute tradizionalmente dalla macinazione della carne.
A tutt’oggi, la replica di un muscolo completo e funzionale rimane pura fantascienza. I muscoli scheletrici sono infatti una matrioska di fibre avvolte da tessuto connettivo, la cui architettura è arricchita da varie cellule di supporto, grasso e vasi sanguigni. Inoltre, si osservano variazioni che dipendono dal taglio della carne e dall’animale di provenienza: le proprietà meccaniche di un petto di pollo sono ben diverse da quelle della coscia e ancor più lontane da quelle della lombata di manzo.
Riprodurre in laboratorio questa complessità richiede un’impalcatura che consenta a diversi tipi di cellule, con esigenze altrettanto diverse, di crescere l’una accanto all’altra in maniera coordinata e strutturata. Una strategia possibile prevede di innescare un comportamento simile a quello delle cellule tumorali – in grado di promuovere la formazione di vasi sanguigni nel tessuto ospite – nelle fibre muscolari. Tuttavia, la strada oggi più battuta fornisce alle cellule in crescita delle microstrutture porose, di origine sintetica o vegetale, sulle quali svilupparsi.
Oggi le proteine vegetali possono essere organizzate a livello nanometrico fino a ottenere una bistecca stampata in 3D dalla consistenza fibrosa.
Paradossalmente, il traguardo della consistenza potrebbe venire tagliato da surrogati inaspettati. La coltura cellulare delle fibre muscolari non è infatti l’unica strada per ottenere carne coltivata: un approccio altrettanto valido è costituito dal cosiddetto “plant based” che impiega unicamente componenti di origine vegetale. Sebbene la sintesi di questi hamburger sia relativamente rapida ed economica, la loro consistenza informe scoraggia l’appetito anche qualora il sapore si avvicini a quello della carne. L’avvento di stampanti tridimensionali di ultima generazione e la commistione con tecniche istologiche ereditate dall’ingegneria biomedica indicano una via per la risoluzione del problema: oggi le proteine vegetali possono essere organizzate a livello nanometrico come se fossero fibre muscolari fino a ottenere una bistecca stampata in 3D dalla consistenza fibrosa tipica della carne animale.
Accettazione
Il valore del primo, storico assaggio ammontava a 250 mila euro. Tuttavia, investimenti massicci, progresso tecnologico ed economie di scala erodono di anno in anno il costo della carne coltivata. A distanza di sei anni, Mark Post ha affermato che una replica della sua creatura costa circa 500 euro. Alcune aziende si spingono oltre promettendo carne coltivata a 600 euro al chilo. E il prezzo scende ulteriormente per le bistecche di origine vegetale che già oggi è comparabile a quello della carne animale. Un particolare non di poco conto considerato l’affanno della filiera tradizionale: “quello della carne è un sistema drogato che senza gli incentivi dell’Unione Europea non si reggerebbe in piedi. Il costo reale di una bistecca è molto maggiore di quanto siamo abituati a pagarla” sostiene Paola Sobbrio, giurista esperta di bioetica e di diritti degli animali.
D’altro canto, la storia insegna che il cambiamento dei comportamenti alimentari, anche in risposta a interventi correttivi, è terribilmente lento. L’alimentazione non è solo una questione di stomaco ma anche di cultura, luoghi e tradizioni. “Gli ostacoli che incontrerà la carne coltivata presso i consumatori sono principalmente due. Innanzitutto, vi è l’atavica contrapposizione tra il naturale e l’artificiale che suscita diffidenza, se non repulsione” dice Sobbrio, che specifica: “In Italia ci saranno fortissime resistenze. È probabile che verrà invocato il principio di precauzione per scongiurare la sua commercializzazione”.
La storia insegna che il cambiamento dei comportamenti alimentari, anche in risposta a interventi correttivi, è terribilmente lento.
L’altra criticità riguarda l’utilizzo in fase di coltura cellulare del siero fetale bovino, ottenuto dal sangue dei feti di bovine gravide durante il processo di macellazione. Per quanto possa ridurre il numero di animali sacrificati, la carne coltivata rimarrà dunque un’opzione inaccettabile per vegetariani e vegani. “Ciò nonostante, sono convinta che la carne coltivata finirà per imporsi. Gli investimenti nel settore sono colossali ma soprattutto essa può fare leva sull’unica motivazione capace di modificare la dieta di miliardi di persone: la salvaguardia del pianeta. Se la richiesta di carne collasserà non sarà per ragioni etiche ma di pura necessità: la sua filiera è insostenibile” prosegue Sobbrio.
Nei prossimi cinque anni è previsto una crescita del 40% nel settore, che raggiungerà un business di circa 6 miliardi di dollari. Lo scorso maggio Beyond Meat è sbarcata in borsa, prima azienda specializzata in carne vegetale a quotarsi. Nel giro di poco più di un mese le sue azioni sono salite di oltre il 620% . Ma è corretto considerare delle cellule cresciute in provetta come un prodotto di origine animale? La carne coltivata va considerata alla stregua di un organismo geneticamente modificato? Una linea cellulare ottenuta dalla razza chianina potrà essere brevettata e pubblicizzata, ponendo le bistecche coltivate in diretta competizione con quelle tradizionali? Mentre le agenzie regolatorie faticano a trovare il bandolo della matassa, le aziende biotech lavorano a fari spenti per alimentare dinamiche sociali favorevoli all’accettazione, come generare aspettativa e reclutare testimonial e influencer.
“Tutto sta nel trovare il giusto storytelling imperniato sui punti che mettono d’accordo più persone possibili. Ecco perché le bistecche di sintesi vegetale potrebbero risultare le vere vincitrici: sono quelle che incontreranno meno resistenze”, secondo Sobbrio.
Sostenibilità
L’allevamento di animali da macello è responsabile di quasi il 15% del totale delle emissioni di gas serra di origine antropica. Alle emissioni legate al trasporto di capi e prodotti finiti, nonché dei mangimi, si sommano il metano proveniente dalla fermentazione gastrica e intestinale, soprattutto dei ruminanti, e dalla gestione degli escrementi, e i composti azotati derivanti dal metabolismo delle proteine. Un contributo imponente, destinato inesorabilmente ad aumentare: la diffusione dell’insostenibile stile di vita occidentale, abbinata alla crescita demografica globale, moltiplica di anno in anno la richiesta di carne. Una corposa revisione scientifica, pubblicata nel luglio del 2018 sulla rivista Science, fotografa passato, presente e futuro del settore.
La carne coltivata in laboratorio contribuirebbe a ridurre drasticamente il consumo di acqua e suolo; per quanto riguarda le emissioni di gas serra, invece, è difficile tirare le somme.
Nell’ultimo mezzo secolo il consumo procapite medio è pressoché raddoppiato, passando da 23 chili all’anno nel 1961 a 43 chili nel 2014. L’aumento dei consumi è stato particolarmente sostenuto per la carne di pollo e di maiale. Tuttavia, il tasso di crescita varia in funzione del reddito. A trainare la domanda sono state le economie emergenti (nella maggioranza dei Paesi industrializzati il consumo è rimasto stabile o addirittura in calo), mentre in quelli più poveri è cresciuto lentamente. Due distinte valutazioni del ciclo di vita hanno stimato che l’allevamento di ruminanti produce più emissioni di quello degli altri mammiferi, che a loro volta sono ben più impattanti del pollame.
Secondo gli autori, nemmeno il cosiddetto biologico rappresenta una soluzione per frenare le emissioni: per quanto preferibile per altri aspetti, l’allevamento estensivo produce più gas serra per unità rispetto ai sistemi intensivi. Sulla carta, l’affermazione della carne coltivata in laboratorio dovrebbe ridurre l’impronta dell’uomo sul pianeta. Di certo contribuirebbe a ridurre drasticamente il consumo di acqua e suolo; per quanto riguarda le emissioni di gas serra, invece, è difficile tirare le somme. La partita si giocherà sulla produzione in larga scala della carne coltivata e sulla natura delle fonti energetiche da cui attingerà. Nel breve periodo il metano prodotto dagli animali ha un effetto serra ben più potente dell’anidride carbonica, ma la sua permanenza in atmosfera è di appena 12 anni: qualora fosse alimentata da energia fossile, una filiera altamente energivora come quella della carne coltivata nel lungo periodo potrebbe rivelarsi ben più aggressiva per il clima di quella tradizionale. Un dilemma che va chiarito presto, per non dire subito: che sia nel 2020 oppure tra qualche anno, l’avvento della carne coltivata sembra questa volta davvero vicino.