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Istanbul, nel giorno dell’ampia vittoria del nuovo sindaco Ekrem İmamoğlu e della sconfitta significativa del presidente Erdoğan, si è celebrata un’udienza del secondo processo legato alla rivolta di Gezi Park. Una coincidenza, ma altamente simbolica. Lo scrittore e avvocato Burhan Sönmez era nell’aula di tribunale allestita, dopo aver seguito la lunga giornata elettorale. “L’uniformazione dei media si è rivelata inutile”, commenta sollevato. “Nonostante al 90% abbiano fatto campagna elettorale come fossero una voce unica in favore dell’Akp, l’opposizione ha una dinamica certa e radicata nella società. E se la società esige il cambiamento, lo si può ostacolare, rallentare ma nessuno può fermarlo. La Turchia lo ha dimostrato”, dice.
Parole che ricordano quelle di un personaggio del suo romanzo Istanbul Istanbul: “Vogliono che soccomba al dolore, che rinunci al mio amore. Vogliono che smetta di credere in me stesso e a Istanbul, che diventi come loro. Fanno a pezzi il mio corpo, perché vogliono che la mia anima assomigli alla loro. Non si accorgono che la mia fiducia in questa città diventa sempre più forte”.
La scrittura dell’autore di origine curda, figlio dell’Anatolia, classe 1965, pubblicato in Italia da Nottetempo, nasce da un’esperienza di dolore e di resistenza. Già nel cuore degli anni Novanta, Sönmez ha sperimentato sulla propria pelle la violenza della repressione. In seguito a uno scontro fisico con le forze di sicurezza turche restò gravemente ferito, in pericolo di vita. È stato curato in Gran Bretagna con il sostegno della fondazione Freedom from torture – Medical Foundation for the Care of Victims of Torture. “Confinato a letto per molti mesi – racconta, le uniche cose che potevo fare erano guardare la televisione e scrivere appunti su qualsiasi cosa immaginassi. Appunti che poi si sono aggrovigliati in storie. Ho realizzato che avrei dovuto scrivere, e ho iniziato a credere alle cose belle che possono scaturire da un brutto incidente”.
Oggi Sönmez insegna all’Università Metu di Ankara ed è un avvocato specializzato in diritti umani. È tornato a Istanbul, dopo un decennio vissuto da esule a Cambridge. Nell’opera collettanea Strongmen, pubblicata recentemente da Nottetempo, è possibile leggere un suo ritratto del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, mentre per gli stessi tipi nelle librerie italiane è appena arrivato il nuovo romanzo, Labirinto, con la traduzione di Nicola Verderame. Protagonista è Boratin, un musicista blues, e l’intreccio narrativo ruota intorno alle conseguenze del suo tentativo di suicidio: gettandosi dal Ponte sul Bosforo Boratin perde completamente la memoria.“La carta riporta il nome di mia madre e di mio padre, la data di nascita e il luogo di nascita, e grazie a questo credono che possa conoscermi. Ma non voglio sapere chi sono, voglio sapere cosa sono. Ma questo non me lo dicono. Cosa sono io?”, s’interroga Boratin.
Sönmez, che cosa significa la perdita della memoria per Boratin?
Questa è la domanda centrale che lo muove. L’amnesia generale che lo ha colpito è una disgrazia o una fortuna? Lo sforzo per la ripresa dovrebbe mirare al recupero progressivo del passato. All’inizio le persone che lo circondano, lo esortano a ricordare, perché nella sua vita non ha più alcun riferimento e nessuno in cui riporre fiducia. Boratin attiva invece un processo contrario: inizia a dubitare di avere davvero bisogno di un passato. Talvolta rifiuta di incontrare i vecchi amici o la ex compagna. Il dilemma tra rincorrere o sfuggire al passato, che lo agita, credo sia un fattore determinante del nostro tempo.
L’interpretazione del tempo nel romanzo è molto interessante e si differenzia dai libri precedenti. Quale valore assegnano stavolta i personaggi al passato?
In Istanbul Istanbul, la necessità vitale consisteva nel riappropriarsi del tempo uscito dalla storia per entrare in quello di una cella. Il flusso del tempo doveva muoversi dal sottosuolo verso la superficie e viceversa. In generale nei miei romanzi, come Gli innocenti, il valore assunto dalle memorie del passato era positivo: rappresentava un tesoro a cui attingere nei momenti più bui della repressione. In Labirinto la prospettiva cambia; Boratin stravolge la relazione con la storia. Ho sempre creduto nel potere della memoria, ma l’osservazione della realtà mi spinge a constatare come la storia sia stata sostituita soprattutto nei grandi agglomerati urbani dalla famelicità del presente. Cerco di indagare come si possa vivere schiacciati dalla dittatura del presente e sulla necessità di liberarsi anche dalla prigionia dei ricordi.
La vera fuga di Boratin sembra essere dal concetto d’identità.
Esattamente. Il movimento di Boratin è duplice: mantiene la distanza dal passato, provando a dimostrare di potersi ricostruire come se fosse una creatura nuova. Guardando alle nostre vite, dobbiamo ammettere di essere soprattutto l’esito del tempo che viviamo. Non siamo liberi, ma il prodotto della scuola che ci forma, delle identità nazionali, politiche, religiose, di genere propagandate nei vari contesti geografici e storici. Il mio personaggio letterario esprime la speranza per il genere umano di aprirsi al cambiamento. Possiamo sempre piantare nuove radici per un’interpretazione più feconda del destino personale.
Il romanzo allarga la riflessione sulla memoria che è anche politica. Come si rapporta oggi la Turchia alla propria storia?
La rilettura parcellizzata della storia è la principale impostazione della politica del presidente Erdoğan. L’obiettivo è di conquistare una nazione, una società vendendo l’idea di un popolo che si rinnova condividendo il passato, o almeno quella parte del passato che viene scelta come la migliore. La ricostruzione acritica della storia dell’Impero Ottomano è brandita, evocando per il futuro un improbabile ritorno imperiale, che diviene dunque uno strumento di condizionamento dell’identità e della società che verranno. La nomenclatura considera la Repubblica turca una parentesi buia tra l’Impero Ottomano e un’altra sorta di impero. La letteratura, soprattutto in Turchia, dovrebbe permettere di confrontarsi con il passato del proprio paese, di mettere il lettore a confronto con tutta una serie di cose da cui la storia ufficiale ti ha escluso, che non ti ha raccontato.
Aggiungo un aneddoto che riguarda la memoria selettiva di Erdoğan. La Costituzione turca prevede che un candidato alle presidenziali sia diplomato in un istituto di istruzione superiore. Il presidente deve dunque essere stato all’università per quattro anni. Erdoğan si è diplomato all’Istituto Commerciale di Aksaray nel 1981. All’epoca era un corso di formazione biennale. Quando era Primo Ministro e si stava candidando alla presidenza, affermò che il suo ex istituto si era unificato all’Università di Marmara e che era stato convertito in una scuola quadriennale al suo ultimo anno di frequenza. L’intera vicenda era piuttosto confusa. L’Università di Marmara è stata fondata nel 1982, l’istituto è stato assorbito nel 1983 ed Erdoğan si è diplomato nel 1981. Erdoğan ha tanti ricordi della sua vita, anche del periodo da studente predestinato, ma non parla mai dell’università.
La longevità politica del presidente turco ormai ha superato quella di Mustafa Kemal Atatürk. Che cosa ne resterà?
La Turchia non ha una storia democratica solida e radicata. Le novità prodotte da Erdoğan, che continua a presentarsi come vittima, sono essenzialmente due. Innanzitutto ha introdotto il culto individuale della persona: nel nostro paese non sono mancati leader autoritari, ma erano inscritti in una tradizione politica. Questa invece è la Turchia di Erdoğan, che significa aver creato o provato a creare una cultura politica a sé stante. Il secondo elemento è la demolizione della laicità statale. Da una società e una politica secolarizzata siamo passati al riconoscimento del fondamento religioso islamico. Queste sono le tracce più profonde impresse da Erdoğan. Credo, invece, che l’unica Turchia possibile sia inclusiva di tutte le diversità, affinché siano parte della costruzione di un paese e non di una nazione. Per questa ragione continuo a stare nel mio paese.
Qual è stato l’elemento più significativo della relazione tra Recep Tayyip Erdoğan e Fethullah Gülen, a lungo due volti della stessa medaglia?
La contiguità ideale e la lotta del potere per il potere. In Turchia sono l’espressione dei due poteri islamici più forti. Il movimento di destra di Gülen è stato il più stretto alleato di Erdoğan per vent’anni: si tratta del principale movimento islamista della Turchia e della diaspora turca. Gülen sostenne il colpo di Stato militare del 1980 e vanta stretti rapporti con gli Stati Uniti, dove vive ora. Non è esagerato affermare che in Turchia sia stato il personaggio politico più influente del ventunesimo secolo. Gülen era riuscito a occupare tutte le principali istituzioni del paese: università, forze di polizia, esercito e magistratura. Con lui cominciò l’ascesa di Erdoğan, che seguendo le indicazioni di Gülen entrò in politica e si distinse dal partito islamista tradizionale, dalla sua ideologia per fondarne uno nuovo, l’AKP. Gülen presentò Erdoğan al mondo occidentale e ai leader americani. Nel laboratorio politico di Gülen nacque l’immagine di Erdoğan come promessa di cambiamento e di riforme nell’area mediorientale.
Poi l’asse è deflagrata.
Per un decennio sono andati pienamente d’accordo, inscenando successivamente una guerra di potere egoistica, lontana da qualsiasi forma democratica di contrapposizione. La notte del fallito golpe si sono scontrati questi due poteri autocratici che si assomigliano. Entrambi hanno un sostrato ideologico religioso. Sono intolleranti a qualsiasi forma di dissenso. Hanno creato e sfruttato, tenendosi per mano, la “Nuova Turchia”. Immaginavano lo stesso futuro illiberale, che la Turchia ha cominciato a rifiutare.
Nel 1994 Erdoğan fu eletto sindaco di Istanbul. Che cosa è successo alla città nell’ultimo ventennio monocolore?
L’attuale maggioranza di governo era in carica dal 1994. L’unica cosa che amano è costruire grattacieli e centri commerciali sempre più grandi. Con un piano urbanistico all’insegna della gentrificazione hanno stravolto i quartieri dei cittadini ordinari per creare la loro classe elitaria islamica capitalista. Istanbul è una delle più grandi città al mondo, ma non ci sono spazi comuni, pubblici per il tempo libero. La protesta di Gezi Park scaturiva proprio da queste politiche. Nel cuore della città non sono rimaste aree verdi eccetto una piccola parte di Gezi Park. Questo palesa la mentalità del governo. La bellezza della città e il pubblico interesse non contano. Il profitto è l’unica unità di misura.
Che cosa rappresentavano per Erdoğan l’amministrazione della città e la partita elettorale?
Lo scorso marzo ha perso elezioni amministrative molto significative. Istanbul non è solo una città in Turchia, ne raffigura l’identità come capitale culturale ed economica con una popolazione che supera i 15 milioni di persone. È anche il luogo in cui Erdoğan iniziò a costruire il proprio successo politico. L’ammissione della sconfitta indebolisce l’immagine dell’uomo forte al comando. Non si può governare la Turchia solo da Ankara, c’è bisogno di Istanbul. Senza alcuna prova, le autorità hanno invalidato il voto di marzo, programmando la nuova tornata elettorale il 23 giugno. È una scorrettezza che ha acceso la volontà di partecipazione dei cittadini, che hanno insistito nella pratica democratica del voto per sconfiggere ogni forma di manipolazione.
Lei è stata una delle anime della rivolta resistenziale di Gezi Park. A sei anni di distanza, qual è il lascito politico di quelle giornate?
In Turchia, per quanto la situazione sia complessa, i giovani sono stati sempre portatori di potenzialità rivoluzionarie. Lo spirito della protesta di Gezi Park è ancora vivo nella società in varie forme. Come hanno dimostrato le elezioni amministrative di due mesi fa, metà del paese è fortemente contraria alle politiche di Erdoğan. Ora le persone credono sia possibile lottare insieme, credono in un fronte unitario contro un regime dispotico. Gezi Park ne fu una prima testimonianza. A volte dimentichiamo la potenza di quella manifestazione, il governo no: è sempre nei loro pensieri. Appena due giorni dopo il fallito colpo di Stato del 2016, nel quale Erdoğan ha vinto una battaglia molto critica, il presidente ha tenuto il primo discorso a piazza Taksim, nei pressi di Gezi Park, giurando di liberarsi dello stesso per costruire al suo posto una caserma militare e un centro commerciale. Sanno che lo spirito di Gezi Park è vivo nel paese, ciò mi spinge a restare in Turchia nonostante le difficoltà e mi rende ottimista per il futuro.
Ieri è stato possibile iniziare a seguire il secondo processo penale legato a Gezi Park. Di che cosa si tratta?
L’accusa mossa nei confronti degli imputati è di aver organizzato segretamente la rivolta di Gezi Park con l’obiettivo di far cadere il governo Erdogan. È un processo privo di basi solide. Eravamo presenti all’udienza con osservatori internazionali insieme agli attivisti di Gezi Park. La corte è stata allestita in una grande arena per la pallacanestro. Già il processo precedente si era risolto in un nulla di fatto. Fra i sedici imputati alcuni sono in esilio, altri in prigione o in libertà. Il sistema giudiziario è sempre stato problematico in Turchia, specialmente dopo l’avvento dei militari al potere. Ora la giustizia non è gestita dai militari, ma direttamente dal palazzo presidenziale e in Turchia non c’è più un singolo giudice indipendente. Nelle carceri sono detenuti circa mille procuratori e magistrati senza capi d’accusa.
Qual era l’atmosfera politica e sociale a Istanbul a pochi giorni dalle nuove elezioni?
Le persone sono estremamente attente alla competizione politica. Dieci o vent’anni fa non c’era un tale coinvolgimento: oggi in Turchia tutto e tutti hanno assunto una dimensione politica; se ne parla ovunque. È una realtà determinata dal governo di Erdoğan, che è riuscito nell’impresa davvero complessa di unire l’opposizione, dandole la percezione di poter esercitare un potere politico. Nel luogo in cui ho trascorso recentemente qualche giorno di vacanza, ho assistito a un concerto con un noto cantante folk. Dal palco ha parlato più volte del voto istanbuliota con una viva reazione del pubblico, che non vedeva l’ora di recarsi senza paura alle urne. Si respira questa atmosfera. Insieme alla consapevolezza del voto sottratto a marzo, c’è stata quella di poter ribadire il medesimo esito elettorale e sancire la sconfitta di Erdoğan.
In che modo Ekrem İmamoğlu, dal 2014 al 2019 sindaco del municipio istanbuliota di Beylikdüzü, espressione del CHP e candidato sindaco del fronte unitario delle opposizioni, ha vinto la prima e la seconda sfida a Istanbul?
Le opposizioni necessitavano di un volto nuovo e İmamoğlu è emerso tra le figure della politica locale. Colpiscono l’umiltà e soprattutto il suo linguaggio che ha creato un rapporto di fiducia con le persone. È un uomo dalla forza quieta, che ha saputo costruire una campagna incessante d’incontri pubblici casa per casa, strada per strada convincendo che di lui ci si può fidare. Lo puoi trovare in tutti i mercati popolari di Istanbul, che percorre quotidianamente. È giovane, nessuno lo conosceva e non lo accreditavano di alcuna possibilità di vittoria a causa dell’invisibilità mediatica. Lo stesso governo lo ha sottovalutato, ma in Turchia i cittadini vivono gli effetti di una profonda crisi economica. Erdoğan ha promesso tanto, tutto, ma è l’economia a determinare lo stato d’animo popolare. I turchi hanno preso coscienza dell’arricchimento personale del presidente e del suo apparato. Stavolta non è più sufficiente vendere l’idea di presunta grandezza della nazione, mentre le persone faticano a comprare il pane. E nei mercati İmamoğlu ha aperto un varco, costruendo il proprio consenso nei quartieri.
L’economia è stata la chiave di volta delle elezioni?
Il consenso di Erdoğan è eroso dalla condizione economica del paese. La moneta sta perdendo valore e le persone non possono acquistare. Si era verificata la stessa situazione nei giorni della rivolta di Gezi Park, in cui la lira era particolarmente debole. E la ricchezza della nomenclatura del presidente non passa più inosservata. Nel 1994 Erdoğan, quando decise di candidarsi alle elezioni, si sfilò l’anello matrimoniale dal dito e lo mostrò alla gente durante un comizio, dichiarando: “Questa è la mia unica ricchezza”. Cinque anni dopo, nel 1999, affermò: “Se un giorno doveste sentire che Tayyip Erdoğan è diventato molto ricco, dovrete pensare che ha commesso atti riprovevoli”.
Che cosa l’ha colpita del post voto?
La velocità con cui Erdoğan ha riconosciuto il risultato elettorale e la sconfitta. Credevo attendessero con qualche diversivo prima di presentarsi alla stampa, mentre a due ore dalla chiusura dei seggi sono apparsi sugli schermi televisivi. Dare il segno di una pratica democratica viva era il male minore, dopo l’errore pesantissimo di non aver accettato l’esito della prima votazione. In un mese questa scelta ha aumentato del 10% la distanza tra İmamoğlu e il candidato di Erdoğan. È un dato incredibile, ma non sorprendente. Era evidente che la scelta non fosse stata compresa innanzitutto dagli elettori di Erdoğan, consci della forzatura. Stavolta non c’è stato modo di convincerli. Col panico per la possibile sconfitta, specialmente nelle ultime due settimane la loro campagna elettorale aveva un orientamento confuso privo di qualsiasi spinta propulsiva. Alla vigilia del voto Erdoğan ha mostrato tutto il proprio disappunto con toni particolarmente duri e scomposti negli incontri elettorali.
Il fair play nella reazione alla sconfitta sarà mantenuto nel tempo?
Possiamo affermare che ora è cominciata la fine politica di Erdoğan. Il suo potere e quello del movimento politico si dissolveranno, ma la domanda è: lo accetteranno o proveranno a fermarlo con un ulteriore irrigidimento del regime e le maniere sporche, com’è avvenuto in passato? Non mi aspetto una svolta morbida, in senso democratico o con un recupero di modestia. Saranno più arroganti nel tentativo di disgregare il rinnovamento con ogni mezzo.
C’è chi ha evocato lo scenario di elezioni anticipate. Erdoğan ne ha davvero bisogno?
No. È già al potere e mancano quattro anni alle presidenziali. Il parlamento è stato esautorato delle proprie funzioni e aumenterà la concentrazione del potere.
Qual è stato il ruolo del leader curdo Selahattin Demirtaş, arrestato nel 2016 dopo una serie di vittorie elettorali e da allora detenuto, nel successo di İmamoğlu?
Il suo appoggio è stato fondamentale. Dal carcere ha chiamato a raccolta le persone per sostenere la candidatura a sindaco di İmamoğlu, esortando a recarsi alle urne.
Potrebbe ripetersi un caso Demirtaş?
Può succedere qualsiasi cosa. Dopo Demirtaş, İmamoğlu costituisce il nuovo pericolo per Erdoğan.