T ra distopie, noir, racconti di fantascienza, pseudo-autobiografie, iconotesti, scrissi d’arte, Tommaso Pincio è uno degli scrittori italiani più significativi del panorama contemporaneo. Da M., esordio del 1999, a Il dono di saper vivere, ultimo romanzo pubblicato nel 2018, Pincio ha mantenuto nella sua sperimentazione due linee costanti: l’inserimento di certi elementi della sua biografia; e il rapporto con l’arte figurativa.
Le due cose hanno la stessa radice: Pincio nasce Marco Colapietro, pittore. Al liceo si avvicina al mondo dell’arte come fumettista, poi, stanco di quella “roba da sfigati”, tenta un percorso più tradizionale, l’Accademia delle Belle Arti, per poi scappare a New York dove lavora come assistente del pittore Jonathan Lasker. Tornato a Roma, la cesura: diventa mercante d’arte nella galleria di Gian Enzo Sperone a Via Pallacorda – strada a forma di y che torna in ogni scritto – e resta a lungo dall’altra parte della tela. Incontra persone, artisti, scopre opere, scrive. In Scrissi d’arte, raccolta di contributi scritti tra il 1987 e il 2015, racconta che a un certo punto della sua vita, più tardi di altri che l’avevano già spinto a muoversi in tale direzione, si rende conto che, in fondo, un talento ce l’ha eccome, ed è scrivere. Marco Colapietro lascia la pittura e prende il nome di Tommaso Pincio, omaggio al colle e a Thomas Pynchon, a Roma e agli Stati Uniti, i due fondamentali punti di riferimento intellettuali per l’autore.
Continua a scrivere d’arte, ma soprattutto comincia a scrivere opere di narrativa che dell’arte, sempre, risentono (“Nello scrittore che sono diventato c’è molto più di Alighiero (Boetti, ndr) che di tanti scrittori che ho letto e amato”). M. è pregno di Bauhaus e Philip Dick; Lo spazio sfinito (2000) è un fototesto ambientato in una Beat Generation “spaziale”; Un amore dell’altro mondo (2002) è la musica di Kurt Cobain, il cinema di Siegel e del suo cult L’invasione degli alieni, ma, ancora, è David Lynch e Twin Peaks; Cinacittà (2008) si muove tra il noir, l’autofiction e la distopia, ma è, soprattutto, La dolce vita, se non forse, più provocatoriamente, Roma (sempre quella di Fellini); Panorama (2015), infine, pullula di riferimenti artistici, così come Hotel a zero stelle (2011), che però si presenta come testo autobiografico, seppur nei termini di un’autobiografia intellettuale. Insomma, l’arte visiva, o per meglio dire, la visual culture costella la scrittura di Pincio, figlio degli scrittori postmoderni americani ma anche degli artisti che, per esempio, accompagnano Il dono di saper vivere, “libro caravaggesco” su Caravaggio, primo tra i numi tutelari.
Il protagonista del romanzo e alter ego di Pincio, infatti, vorrebbe proprio essere il Gran Balordo, il Michelangelo meno amato, un Caravaggio che viene associato ad Andy Warhol perché come lui pop e come lui per vario tempo frainteso. E analogamente ad altre opere dell’autore, qui il paratesto è decisamente significativo: tutte le citazioni tratte da The Andy Warhol Diaries che leggiamo in esergo nel Dono, infatti, non solo mostrano la vicinanza dell’autore a Warhol, ma rendono manifesta una pungente critica alla fruizione contemporanea della cosa artistica, che nell’era dell’homo photographicus e dell’iperconnessione diventa spazzatura e, paradossalmente, viene riciclata tramite i social network: emblematico il momento in cui il protagonista ritrova Tutta la pittura di Caravaggio in un cassonetto e prima di recuperarlo ne posta una foto su Instagram.
Certo, se nel Dono i riferimenti sono in prima istanza figurativi, tra gli scrittori italiani menzionati in Hotel a zero stelle, Pincio accoglie nel suo Parnaso scrittori come Parise e Landolfi: il primo, per il “doppio talento» e per la naturale predisposizione a una lingua elaboratamente semplice; il secondo, invece, per la sempre rivendicata “fintascienza”, continuo mélange tra realtà e finzione. E Pincio è un sur-realista, uno scrittore che si appoggia concretamente sulla realtà per modificarla. Qui l’avvertenza di Cinacittà: “in questo romanzo vi sono persone, occorrenze e cose che, seppur trasfigurate, paiono spingersi al di là della finzione narrativa in senso stretto. Trattasi comunque di chimere. La realtà non è di questo mondo.”
L’arte nel senso più antico del termine, l’artificio, insomma, la finzione, è parte della vita – reale – di Pincio da quando ha tentato la strada della pittura, per poi abbandonarla, fin quando, ormai scrittore affermato, non si è riconciliato con la sua “mediocrità d’artista” e ha ricomprato un cavalletto. Se è vero che Hotel a zero stelle è un’autobiografia primariamente letteraria, la presenza di riferimenti artistici non tarda a manifestarvisi. I “quadri di parole” di Christopher Wool sono, ad esempio, un espediente di Pincio per presentare la tesi sui “pittori scrivani”, per corroborare la quale, però, viene naturalmente chiamato in causa Bartleby:
lo scrivano è un copista. Ne consegue che pure un pittore scrivano lo sia, sebbene alle maniere specifiche dell’arte, a cominciare dalla maniera più classica e convenzionale che è l’imitazione della natura, o, come si direbbe oggi, il realismo. Tuttavia, lo speciale carattere dello scrivano non emerge tanto nella mera copia, quanto […] nella meccanicità.
E ancora, per analizzare la pittura di Gianni Dessì Pincio si serve de L’uomo invisibile di H. G. Wells, per l’opera di Marco Colazzo menziona Philip Dick. Vengono sempre prediletti quegli artisti che hanno fatto del rapporto tra testo e immagine la loro espressione, da Luca Buvoli a Cy Twombly. Insomma, pittore e scrittore Pincio si sovrappongono in ogni momento: “evocare con parole non è come rappresentare con segni e colori, nondimeno lo sguardo del pittore mancato è rimasto dentro di me alla maniera in cui gli estinti seguitano ad abitare una casa, la maniera dei fantasmi, cioè”.
L’opera letteraria parla d’arte, scrive l’arte, a volte la crea (Lo spazio sfinito, Pulp Roma, Hotel a zero stelle sono dei veri e propri iconotesti); l’opera figurativa riguarda, quasi sempre, ritratti di scrittori. Infatti, Hotel a zero stelle, è, sì, un autoeteroritratto letterario, un’autobiografia realizzata tramite i ritratti degli altri; d’altra parte si conclude con le fotografie di un’opera murale che presenta “Volti di persone famose. Volti di persone anonime: amici, parenti, fidanzate. E poi simboli, immagini, cose”:
…in ogni ritratto c’è un fantasma e siccome non si dà un fantasma senza il racconto di una storia, il ritratto è il genere pittorico più prossimo alla scrittura. Così ho iniziato a ritrarre scrittori, scegliendoli perlopiù tra quelli defunti proprio per esaltare la loro condizione di fantasmi, e li ho ritratti all’interno di una storia perché è nelle storie che in realtà abitano i fantasmi e quando diciamo che una certa casa è infestata quel che di fatto intendiamo è che ha una storia.
Le storie di Pincio sono infestate di ossessioni, fantasmi di fantasia, o fantasmi della storia culturale, artistica e letteraria, italiana e non. La lingua, poi, si nutre di questi fantasmi accogliendo e modificando, come nei migliori incontri di tradizione e sperimentazione. È una lingua dalle pennellate convinte, dai colori accesi. Una lingua di cui si riconosce la penna, il pregio della ripetizione, e che però ogni volta si maschera, il pregio della differenza. Si tratta a volte di un italiano televisivo – di una televisione di dieci anni fa – a volte di un italiano forbito degli inetti ingiustamente detenuti; a volte di un italiano lucidamente violento, come il rosso dei ritratti, così uniforme e serigrafico seppur ricreato ogni volta. È una lingua immediata che racconta il colto e il culto, non ostenta retoricismi ma mostra quanto la semplicità sia qualcosa di estremamente laborioso da realizzare.
La forma, in entrambe le espressioni, muove sempre dalla volontà di Pincio di mostrarsi per quello che è: un pittore che dipinge quadri di parole e uno scrivano che scrive libri di immagini, un autore che si ambienta egregiamente nell’epoca del pictorial turn. E allo stesso tempo, incollato alla volontà di narrare vite, ivi compresa la sua, Pincio nei suoi romanzi è in primo luogo un romano, un ex bambino vissuto negli anni Settanta nella capitale, tra l’edicola del padre davanti al Palazzaccio e le vetrine dei negozi di arredamento che ispireranno le atmosfere fintascientifiche-hopperiane delle sue innumerevoli rappresentazioni.