Come l’era digitale ha cambiato la musica secondo Damon Krukowski, scrittore ed ex batterista dei Galaxie 500.
Matteo De Giuli è scrittore e editor. È stato senior editor del Tascabile. Ha collaborato con Treccani, Radio3 e Rai3. Ha scritto "Buoni a nulla. Fondamenti di una teoria dell'ozio" (Quanti, Einaudi, 2022) e, con Nicolò Porcelluzzi, "MEDUSA. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo)" (Not, NERO editions, 2021).
Damon Krukowski si ricorda della prima volta che ascoltò un CD, verso la fine degli anni Ottanta, quando finalmente capitolò dopo aver giurato a se stesso che non avrebbe mai abbandonato i vinili. I Galaxie 500, il suo gruppo, erano già un nome di culto della neopsichedelia e della scena indie statunitense. Krukowski era davanti allo stereo con il suo compagno di band Dean Wareham (che oggi non nomina mai direttamente), e il CD era Crazy Rhythms dei Feelies, uno degli album che avevano imparato a memoria prima di formare i Galaxie. I Feelies avevano un suono sporco e sguaiato, ma ascoltarli per la prima volta senza gli scricchioliidell’LP era una sensazione strana, “simile a quella che avrei potuto provare guidando l’ultimo modello di una macchina progettata per una guida piacevole anziché la mia 128 Fiat arrugginita. Proprio come su una grossa, nuova macchina americana, non riuscivo più a sentire la superficie”.
I Galaxie 500 si sciolsero bruscamente dopo qualche anno, Krukowski e la bassista della band Naomi Yang formarono il duo Damon&Naomi e si sposarono. Krukowski oggi continua a suonare e ha scritto in questi anni, per Pitchfork e The Wire, di musica e cultura, di come il digitale ha cambiato la produzione e il consumo di suoni – riflessioni che ha condensato in Ascoltare il rumore (SUR, traduzione di Chiara Veltri) il suo primo libro pubblicato in Italia.
Ascoltare il rumore è un saggio sulla storia del suono e l’avvento del digitale, ma forse è soprattutto un libro di testimonianza.
È vero: quando ho iniziato a scrivere non ero sicuro di dove sarei andato a parare, ma sapevo di essere stato testimone – e di essere sopravvissuto – a un momento che non si ripeterà più, perché certi cambiamenti tecnologici sono un punto di non ritorno. Ho iniziato la mia carriera musicale in un ambiente completamente analogico, dove non c’era traccia di computer. E nel giro di pochi anni tutto è cambiato davanti ai nostri occhi. Già il terzo disco dei Galaxie 500, nel 1990, a quattro anni dal primo singolo, lo abbiamo registrato in DAT, Digital Audio Tape, un formato che nel frattempo è a sua volta praticamente scomparso, ma quello è stato il primo segnale di transizione. Di lì a pochi mesi in tutti gli studi di registrazione sono spuntati i computer.
Non sembri nostalgico però.
C’era tanta musica brutta e registrata male nel mondo analogico e c’è tanta buona musica registrata bene nel mondo digitale. La nostalgia è facile, soprattutto quando invecchi. Ma è una trappola. L’ultima cosa che volevo fare era scrivere un libro per dire che il vinile è meglio dello streaming. Ho cercato di mantenere un approccio distaccato, di raccontare i difetti di entrambi i mondi, e di non limitare i ragionamenti all’ambito musicale, perché la rivoluzione digitale ha investito tutta la società. Volevo guardare il passato per capire cos’è davvero cambiato sotto la superficie abbagliante delle novità tecnologiche, che ormai si rinnovano di continuo. Volevo trovare un’immagine che riassumesse bene in che modo il passaggio al digitale ha cambiato i metodi di registrazione, il nostro modo di ascoltare le cose, ma anche il nostro rapporto con lo spazio e il tempo.
E l’hai trovata nel rapporto tra il segnale e il rumore.
Il rumore, per gli ingegneri, è tutto ciò che non è segnale, tutto ciò che non è informazione rilevante. In una telefonata, per esempio, i nostri smartphone spezzettano il suono che ricevono convertendo il segnale elettrico in numeri, in zero e uno, e lo “ripuliscono” cercando di mantenere in primo piano la voce, il segnale, e di eliminare per quanto possibile il sottofondo, i respiri, il traffico: il rumore. Man mano che scrivevo il libro, quella della soglia tra segnale e rumore mi è sembrata la chiave per capire buona parte dei cambiamenti del mondo digitale. I software di registrazione in studio oggi fanno, in maniera più raffinata, la stessa cosa che fanno i nostri smartphone. La tecnologia ci consente di isolare il segnale per condividerlo in modo più efficiente, e questo significa che possiamo eliminare il rumore. Ma anche il rumore ha un significato! Il rumore è comunicativo quanto il segnale. Finché si tratta di ripulire la qualità audio delle telefonate non ci sono grosse controindicazioni, ma per il resto cosa stiamo perdendo cancellando il rumore?
Nel mondo degli audiofili si parla di “compressione audio” digitale, e di come il suono di un mp3 sia sempre più povero rispetto alla registrazione analogica. Nel libro cerchi di applicare lo stesso schema a tutta la comunicazione: viviamo in una società di “informazione compressa”.
C’è una parola in inglese: lossy [da loss, perdita]. Non è neanche una vera parola, è uno di quei neologismi inventati dalla Silicon Valley. Ma il significato è proprio questo: la compressione dei formati porta a una maggiore comodità attraverso il sacrificio di informazione. Solo che nella Silicon Valley è considerata una cosa positiva, che permette un’economia dell’informazione. L’ambiguità, la confusione, il disaccordo, il paradosso, però, sono valori per l’arte, la filosofia, la letteratura. Invece per gli ingegneri sono problemi da eliminare. E il modo in cui queste persone pensano ha finito per modellare il nostro mondo. Prendi Facebook: quello che l’algoritmo decide di mostrarci su Facebook è quello che l’algoritmo stesso pensa possa essere significativo per noi, il segnale, che ci arriva dopo che i post “meno interessanti” sono stati nascosti. Non lo fa solo per ottimizzare il nostro tempo online, ma anche per monetizzare i dati raccolti. Eppure questo filtro è già di per sé uno strumento di comunicazione, una scelta “editoriale”. Sono cose che diamo per scontate senza capirle fino in fondo, e invece dovremmo continuamente chiederci cosa è segnale e cosa è rumore, e chi lo decide, chi decide cosa è importante e cosa no.
Una cosa che continuavo a pensare leggendo il tuo libro sul digitale è come invece la musica dei Galaxie 500 abbia un suono che definirei completamente analogico: le chitarre languide, la voce che stona, la batteria fuori tempo.
È vero [ride], avevamo un approccio totalmente analogico, non solo per i tool che usavamo per registrare ma anche per lo stile. Era anche merito del nostro produttore, Kramer, un tipo molto eccentrico. Si faceva e si fa chiamare così, senza nome, solo Kramer. Hai presente, in Seinfeld, il personaggio del vicino di casa stralunato e geniale? Si chiama Kramer. Beh, il nostro Kramer è amico di molti comici e scrittori di New York, così ho sempre pensato che…
Fosse ispirato al vostro produttore?
Ne sono quasi convinto. Kramer e Kramer hanno delle caratteristiche molto simili. Anche il nostro Kramer è molto impaziente, si comporta come se avesse un disturbo da iperattività. Fumava molta marijuana per riuscire a concentrarsi, perché di suo era troppo energetico, saltava continuamente da un argomento all’altro. Riesco a immaginare chiaramente come Jerry Seinfeld, Larry David o chi per loro possano aver costruito il personaggio di Kramer a partire dal nostro Kramer. Per tornare al “suono analogico”, comunque: con Kramer era sempre buona la prima. Se facevano qualche errore non voleva che cambiassimo nulla. Anzi, faceva di più: ci induceva in errore. Noi eravamo giovanissimi, siamo entrati in studio con canzoni molto lineari, con idee semplici e una tecnica molto rudimentale. E lui, in maniera assolutamente deliberata, provava a metterci in crisi. Perché dagli errori nascevano momenti rivelatori, di sorpresa, diceva. E così, per esempio, iniziava a registrare quando non eravamo ancora pronti e stavamo solo provando, oppure ci dava indicazioni sbagliate su quando attaccare con gli assoli di chitarra, indicazioni sbagliate rispetto a quello che avevamo concordato, perché voleva vedere come ce la cavavamo improvvisando. Era il suo modo di evitare le cose banali. Ci mandava nel panico, ci arrabbiavamo, ma avevamo scelto lui perché ci piacevano i dischi che produceva, e alla fine aveva sempre ragione. È lui che ci ha reso dei musicisti.
Quando parli di “dischi puramente analogici”, fatti di rumore oltre che di segnale, citi Sgt. Pepper’s e Pet Sounds.
Beatles e Beach Boys: volevo prendere come esempi i cliché più saturi, quelli da “vecchio amante dei vinili classic rock”. Dei simboli, al di là del giudizio sugli album. Volevo fare capire che alcuni dischi nati in ambiente analogico suonerebbero diversi se registrati oggi in digitale. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e Pet Sounds sono dischi da classifica, prodotti con cura e con tanti soldi, e allo stesso tempo sono pieni di rumori involontari, inseparabili dai segnali, dalla musica presente sul nastro.
Alla fine dell’album dei Beatles, è un esempio arcinoto, in chiusura di “A Day In The Life” si sente il ronzio dell’aria condizionata dello studio. Pet Sounds è ancora più denso di rumori non voluti. Riporto quelli che i fan hanno trovato per esempio in “Here Today”:
1:15 Mike Love comincia a cantare il ritornello troppo presto. “She made me feel”, e poi qualcuno dice qualcosa per fermarlo. 1:27 Un oggetto metallico cade nel punto che fa: “She made my heart feel sad. She made my days go wrong…” nel secondo ritornello. 1:46 Brian Wilson dice “Top” non appena termina il secondo ritornello per riavvolgere i nastri e ricominciare la take. 1:52 Qualcuno dice qualcosa, presumibilmente riguardo a delle macchine fotografiche. 1:56 Qualcun altro risponde alla persona che ha parlato a 1:52. 2:03 Brian Wilson dice “Top please”, probabilmente rendendosi conto che il nastro sta ancora scorrendo dopo tutti questi rumori. 2:20 Qualcuno parla.
Questo perché, come scrivo, la registrazione analogica è un processo additivo, e i dischi registrati in analogico ospitano i suoni di tempi e spazi stratificati su brevi porzioni di nastro. Potevi essere i Beatles, potevi essere i Beach Boys, ma i tuoi errori e i rumori delle registrazioni rimanevano lì.
Racconti anche dei CAN che registravano composizioni fatte solo di ronzii dello studio, praticamente rumore senza segnale.
I CAN sono tra i miei eroi artistici, erano dei veri esploratori. I Beatles, ok, nessuno si sognerebbe di attaccare i Beatles, ma erano un’impresa commerciale sin da subito, e avevano a che fare con questioni di mercato sfiancanti che li hanno portati a detestarsi. I CAN all’opposto erano degli artisti puri che spingevano sull’avanguardia. Da bravi tedeschi pazzi degli anni Settanta, credevano che le macchine e lo studio di registrazione avessero un’anima, una magia tutta loro. Così ogni tanto accendevano gli strumenti e non facevano nulla, registravano l’atmosfera della sala. Era lo studio di registrazione che componeva.
Poi il digitale ha stravolto il rapporto musicale tra segnale e rumore, e ci siamo ritrovati con la “guerra del volume”.
Nelle registrazioni analogiche, alzare il volume del segnale significava per forza di cose alzare anche il livello del rumore. Immagina di alzare il volume direttamente dal mix nell’assolo finale di “A Day In The Life”: alzi anche il rumore dell’aria condizionata. Quando negli studi è arrivato il digitale, con i DAT, è cambiato tutto. Su DAT non c’è rumore, il suono è ripulito, c’è solo segnale. Owen Morris, produttore degli Oasis, ha capito subito le potenzialità della cosa, e nel 1995 ha registrato (What’s the Story) Morning Glory? alzando il volume del segnale fino ad appiattire tutto verso il massimo volume possibile, spingendo tutto al livello massimo di informazioni contenibili sul DAT. E così dagli anni Ottanta a oggi, il volume di un CD è 10 volte più alto. La guerra dei volumi non è stata altro che una guerra per comporre canzoni che funzionassero in radio, canzoni in cui non c’erano parti sommerse o cose da ascoltare con attenzione: ti arrivava tutto sparato in faccia, che lo volessi o no. E in radio funzionò, perché le loro canzoni con quei volumi richiamavano l’attenzione. È lo stesso trucco usato dagli spot pubblicitari in TV.
Oggi succede una cosa simile con lo streaming, la struttura degli album viene pensata per scalare le classifiche di Spotify.
È la nuova versione di quel vecchio trucco. Ci sono canzoni che devono cogliere subito la tua attenzione nei primi 30 secondi, sennò passi a quella dopo e l’algoritmo ti penalizza. Oppure album con tanti pezzi, con riempitivi di una manciata di secondi, per aumentare numeri e visualizzazioni. Prendi Solange, che è un’artista che rispetto. Adoro la sua musica, l’ultimo album in particolare. Ma ha 20 tracce! 20 tracce, ma poi se conti le canzoni vere sono la metà. Ma 20 canzoni riprodotte in streaming vengono pagate meglio di 10 canzoni. È un modo di aggirare il sistema.
La guerra dei volumi ha portato anche a paradossi tragicomici come la storia di Death Magnetic dei Metallica.
Adoro questa storia, dimostra quanto la gente ami la musica, a volte più degli stessi musicisti. Nel 2008 i Metallica pubblicano questo album, Death Magnetic, con i volumi talmente alti che nel CD tutte le dinamiche del suono scompaiono, è tutto un blocco compatto, un muro. Poi qualche tempo dopo esce una versione del videogioco Guitar Hero con le canzoni dell’album. E lì finalmente le canzoni si sento meglio, la batteria, le chitarre, il basso, si distinguono, ci sono parti più rumorose e parti meno rumorose. Questo perché chi ha realizzato il videogame ha ricevuto i mix dell’album senza l’indicazione di aumentare al massimo il volume. I fan erano in visibilio, potevano finalmente ascoltare quelle canzoni con la giusta profondità, ma Lars Ulrich e i Metallica hanno risposto che erano pazzi, che non c’era nessuna differenza tra le versioni.
I Metallica escono fuori un po’ come i super villains del libro.
La loro colpa più grande è stata quella di aver ucciso Napster. Ci hanno davvero messo tutto l’impegno. Ed è stata una cosa terribile. Avevamo questo programma di condivisione dei file musicali che stava rivoluzionando l’industria. Chuck D appoggiava Napster. Dave Grohl appoggiava Napster. I Public Enemy. Tutte storie di successo, dal punto di vista commerciale, che nonostante questo dicevano: il sistema deve cambiare, l’industria deve cambiare, la musica deve essere gratuita, Napster non deve chiudere. Poi sono arrivati Lars e i Metallica, anche se non sono stati soltanto loro ovviamente, e Napster ha chiuso. Immagina un universo alternativo in cui le etichette discografiche sono scomparse, non hanno fatto causa a Napster, oppure hanno perso la causa e ora sono dissolte, disintegrate. Quale sarebbe il panorama musicale oggi? Un campo libero e caotico, come internet avrebbe dovuto essere e voleva essere all’inizio, con la musica che è parte integrante di quella libertà. E invece abbiamo avuto una versione addomesticata di quella rivoluzione, abbiamo lo streaming, iTunes e Spotify, le case discografiche sopravvivono e quelli che non fanno soldi sono i musicisti.
Qualche anno fa scrivesti su Pitchfork un articolo che diventò virale in cui svelavi quanto guadagnano le band indie dallo streaming: 0.004611 dollari per ogni canzone che viene riprodotta.
Eppure in pochi hanno colto il senso di quell’articolo. Non era una denuncia per ottenere una paga decente, il sistema difficilmente migliorerà. Lanciavo un’idea più radicale: tanto vale dare via la nostra musica gratis. Nel mercato musicale siamo passati dal classico capitalismo industriale della produzione di vinili e CD al capitalismo speculativo di Spotify per evitare “l’anarchia di Napster”, ma il risultato è che i musicisti non guadagnano più. Per gli esordienti è rimasta giusto l’illusione del fatto che se sei su Spotify, nella stessa piattaforma delle grandi star, e così magari qualcuno ti scopre per caso e puoi fare il botto, non hai bisogno di nulla, di un’etichetta, di un contratto, di una carriera, devi solo caricare il tuo mp3. Ma è una nuova versione del solito sogno capitalistico americano: tutti possono diventare delle stelle. Solo che semplicemente non è vero. Chi è emerso in questo modo? Billie Eilish? La sua famiglia è nello show business[i genitori sono l’attrice e musicista Maggie Baird e l’attore Patrick O’Connell, ndr]. Magari ci sono o ci saranno anche degli esempi, ma è come vincere alla lotteria. Alle band emergenti che sperano di diventare virali grazie allo streaming dico sempre “non succede, non succederà a voi, non potete sperarci davvero”.
Con i concerti si guadagna ancora?
I festival stanno fagocitando tutto, sono la versione live di Spotify, se vuoi. Grandi concentrazione di capitale, tanti sponsor, headliner pagati tantissimo. Ma a nessuna delle band che conosco piace suonare ai festival, sono sempre il concerto peggiore del tour. E per le piccole band sono una fregatura. Come può essere diventato questo il modello base? Per l’industria però sono la soluzione ideale, anche per il controllo del territorio. Una mia amica, non farò il suo nome, mi ha rivelato che adesso il Primavera Sound di Barcellona [uno dei più grandi festival musicali al mondo ndr] ti chiede l’esclusiva per la Spagna, per tutto l’anno. Ovvero: se vuoi suonare al Primavera del maggio 2020, non puoi fare un tour in Spagna né prima né dopo, per tutto l’anno. Solo che i gruppi li scelgono e li annunciano tardi, quindi se vuoi anche solo sperare di essere selezionato per il Primavera, che è un’occasione di visibilità per le band, devi rinunciare a programmare tour in Spagna da subito.
Qual è la via d’uscita allora?
Io credo ancora nel potere della libertà di internet. Il sistema oggi è orientato in direzione dei grandi capitali, ma la sopravvivenza di molte band sta nei piccoli concerti fuori dai festival, nei locali, e poi nei piccoli scambi, nelle piccole vendite che internet può facilitare: la musica della band in cui suono, Damon&Naomi, è disponibile gratis su Bandcamp. Gli ascoltatori possono decidere se e quanto donare per ogni download. Ma ci sarebbero tanti mondi alternativi su cui lavorare, basta guardare alla rete dei podcast, che sono quasi tutti gratis per gli ascoltatori, si finanziano con sponsor e donazioni e non dipendono dai colossi dello streaming. Se però accetti Spotify e il Primavera come unica realtà, è l’unica cosa che riceverai in cambio.