I
l nuotatore” di John Cheever, un racconto apparso sul New Yorker nel 1964, inizia con una festa. Neddy Merill, il protagonista, beve cocktail a bordo piscina insieme ad altre famiglie della upper class dei sobborghi americani. Sono le ore più calde del giorno, l’indolenza e il mal di testa dovuti all’alcol pesano sulla compagnia, così Ned decide di tornare a casa a nuoto. Si tuffa in piscina, aprendo una via acquatica che immaginariamente collega le piscine del vicinato. Gli amici lo accolgono con calore e altri drink, la luce estiva avvolge le prime tappe del percorso; pian piano che procede nella nuotata verso casa, Ned sente farsi il vuoto intorno a lui, i saluti diventano meno affettuosi, i vicini si dispiacciono per le sue sfortune, le foglie ingialliscono e poi cadono. Il tempo si diluisce, senza che Ned conservi memoria di come è trascorso.
Secondo Olivia Laing, “Il nuotatore” di Cheever “comprime tra le sue strane tenaglie tutto l’arco della vita di un alcolista”. Il binomio alcol-scrittura non riguarda solo lui: Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald, Tennessee Williams e Hart Crane, Jean Rhys e Marguerite Duras, John Berryman e Raymond Chandler, la lista degli autori i cui scritti sono nati nell’alcol è lunga. In Viaggio a Echo Spring (il Saggiatore, 2019, traduzione di Francesca Mastruzzo e Alessio Pugliese) Laing esplora il legame tra scrittura e alcolismo, indaga l’origine di questa simbiosi e alternando spunti personali, critica culturale e ricerca biografica, costruisce un impianto narrativo che intreccia le vite e le opere di diversi autori del Novecento americano con la dipendenza dall’alcol.
È una strategia simile a quella adottata in Città sola (il Saggiatore, 2018, traduzione di Francesca Mastruzzo), in cui al centro dell’indagine c’era però la solitudine, la città e le vite di artisti come Andy Warhol, Edward Hopper e David Wojnarowicz – soli, ognuno a modo suo, tra le luci dei grattacieli di New York. Con queste opere, Laing crea delle mappe dell’alcolismo e della solitudine, tracciate seguendo le coordinate dell’arte.
A rompere il cerchio di un metodo consolidato e potenzialmente replicabile, c’è il primo romanzo di Laing, Crudo (in uscita l’anno prossimo per il Saggiatore): scritto di getto usando la voce ibrida di Kathy Acker, racconta la “terribile estate del 2017”: Trump, il tempo frammentato dei social e il confine sempre più labile tra verità e finzione.
Alcolismo e solitudine solitamente rientrano nel territorio della medicina, della scienza, della psicologia, della sociologia. Perché scegliere la letteratura come strumento d’indagine?
Mi piace affrontare gli argomenti da diversi punti di vista. Con Echo Spring volevo comprendere l’alcolismo e aveva senso farlo guardando alle vite degli scrittori, che dopotutto esprimono la loro dipendenza nel modo più articolato. Ho potuto ancorare la ricerca a vite vere, grazie all’abbondanza di materiale biografico, e usare la loro arte come metodo di verifica o come strumento di riflessione sugli studi medici e scientifici. Per quanto riguarda la solitudine, volevo capire le sue cause, ma anche esplorarne il potenziale positivo. La scienza tende a considerare la solitudine come uno stato non creativo, sterile, di nessuna utilità, ma l’istinto mi diceva che era una condizione umana ineludibile, parte dell’essere un animale sociale, mortale, e che l’arte della solitudine mostrava una ricchezza, oltre al dolore, in questa condizione.
E usi poi la geografia per dare fondamenta a temi tanto ampi: entrambi i libri sono legati a dei luoghi. In Città sola c’è New York, in Echo Spring un viaggio attraverso gli Stati Uniti.
Sì, in Echo Spring, in particolare, ho mappato gli stadi dell’alcolismo con un viaggio attraverso gli Stati Uniti, quasi fossero le tappe di una via crucis. Mi ha dato una grande forza propulsiva – mentre viaggiavo per gli Stati Uniti, studiavo la progressione della dipendenza, trovando una correlazione nei paesaggi che attraversavo. Per esempio, all’apice del libro, quando parlo dell’aspetto suicida dell’alcolismo, mi trovavo a Key West, in questo paesaggio dissoluto, acquoso. Lì erano avvenuti dei suicidi, ed è stato un modo per rielaborare e rendere tangibile l’impulso verso l’autodistruzione.
Quali punti di contatto tra alcolismo e scrittura hai trovato?
C’è un’enorme somiglianza tra il desiderio di fuggire dalla realtà bevendo e il desiderio di escogitare, inventare, affabulare che sta al cuore dell’arte del romanzo. Tutti gli uomini di cui ho scritto hanno avuto infanzie infelici, rapporti insoddisfacenti con le proprie famiglie, era chiaro che ci fosse qualcosa in comune tra il desiderio di ubriacarsi, di annegare i dispiaceri, e quello di raccontare storie. È evidente soprattutto in Cheever e in Fitzgerald, sono figure tragiche con le loro bugie e autoinganni. Ma scrivere è anche un modo di dare senso alla realtà, di comprendere il trauma e farne qualcosa di bello. Non si può dire lo stesso dell’alcolismo.
All’inizio di Echo Spring introduci il concetto di brain switch: la grande bestia della dipendenza, che una volta innescata prende vita propria.
In quasi tutti gli scrittori di cui parlo, si notano gli effetti a lungo termine della dipendenza dall’alcol nei lavori tardivi, che perdono coerenza e acume. Vale soprattutto per Hemingway, i suoi ultimi lavori sono informi ed eccessivi se paragonati alle prime opere, così precise e affinate. La grande bestia si vede anche in Berryman o Carver, che per molti versi scrivevano della loro dipendenza. Avevano una visione incredibilmente lucida e spietata delle loro avventure, del loro catastrofico bisogno di alcol, anche quando le loro vite ne erano pressoché distrutte – nel caso di Berryman, anzi, letteralmente distrutta.
Durante le ricerche per Echo Spring e Città sola, ti sei legata a qualche artista in particolare?
Sono profondamente legata a David Wojnarowicz e Andy Warhol. Prima di iniziare a lavorare a Città sola pensavo che Warhol fosse un artista vuoto e superficiale, ma più passavo il tempo sulle sue opere, più mi rendevo conto che parlava di un’intimità difficile, di distanza e di desiderio. Era molto più delicato di quanto credessi. E lui stesso è una persona tanto coinvolgente: così arguto, intelligente, imprevedibile. Di David, invece, mi sono innamorata del coraggio, della vulnerabilità, della sua rabbia.
E studiare l’evoluzione dello stile degli scrittori ha cambiato il tuo modo di scrivere?
Stranamente, no. Il mio stile è diventato un po’ più sobrio, meno fiorito, ma credo che dipenda dal fatto che sto invecchiando.
I tuoi libri rimangono sempre in bilico tra biografia, saggio e critica letteraria.
Cerco di bilanciare queste componenti e di fare quello che serve per entrare nel cuore del tema. A volte significa raccontare la storia di una vita; a volte significa analizzare opere d’arte; a volte affrontare una scrittura più scientifica. Le parti paesaggistiche servono ad aggiungere colore e a dare sollievo dal materiale più emotivo.
E come gestisci l’elemento personale?
L’autobiografia mi serve per spiegare, nel modo più breve e onesto possibile, il mio coinvolgimento in quell’argomento. È lì per spiegare perché mi importa, perché voglio capirlo. Uso la prima persona per attirare il lettore all’interno delle scene, per esempio quando sono in un archivio e scorro tra le lettere o i vestiti di qualcuno. Crudo, invece, è più personale e mi espone molto – in un certo senso me ne pento, ma il tema è la paura dell’amore. Volevo indagare il tema dell’egoismo, della paura di aprire i propri confini, sia a un livello molto personale che a livello globale, politico. Disprezzo l’egoismo nel mondo là fuori, ma è anche vero che lo sento all’opera dentro di me, e volevo esporre questa cosa, anche se significava rivelare i miei lati più spiacevoli. Ormai è fatta!
Perché proprio Kathy Acker?
Ero in Italia e stavo leggevo la biografia di Kathy Acker firmata da Chris Kraus, e mi ha entusiasmato la sua pratica di plagio. Prendeva libri come Grandi speranze e Don Chisciotte e li copiava, ma scrivendoli in prima persona. Era il 2017, un momento politico particolarmente buio – Brexit, Trump, l’ascesa dell’estrema destra, eccetera – e non riuscivo a scrivere perché tutto mi sembrava molto precario. Allora ho iniziato a scrivere qualsiasi cosa succedeva, nella mia vita privata e nel mondo, dal punto di vista di Kathy Acker. La catapulto nel Ventunesimo secolo (è morta nel 1997) e provo a guardarlo attraverso i suoi occhi. Per molti versi, è il mondo che aveva descritto nei suoi romanzi, un mondo di attacchi terroristici e ultra violento. Era l’emissario perfetto.
È autofiction?
Odio il termine autofiction. È una parola nuova per una tecnica vecchia. Preferisco il termine roman à clef, mi piacciono in particolare scrittori del Novecento come Marguerite Duras e Christopher Isherwood. Addio a Berlino di Isherwood, con l’unione del personale e del politico, con il narratore in parte reale e in parte inventato, è stato il mio modello per Crudo.
Echo Spring e Città sola sono un esercizio di sintesi, una rete di connessioni. Crudo è veloce, instabile. Com’è stato adattarsi a questo ritmo?
Splendido! Crudo, come suggerisce il titolo, è grezzo. L’ho scritto in tempo reale, lo stesso giorno e spesso la stessa ora degli eventi che descrive. La regola che mi sono data era di scrivere tutti i giorni, senza editare o rileggere. Quindi procedeva in modo molto più spedito e più libero rispetto ai libri di non fiction, che sono rifiniti in periodi molto lunghi di tempo e attraversano un editing molto intenso. Mi è piaciuto molto usare la voce veloce, dinamica di Kathy. Era perfetta per raccontare un momento così turbolento, in cui i social media invadono la realtà e la verità è sotto attacco.
È il più politico dei tuoi libri?
Credo che Crudo e Città sola siano i miei libri più politici. Città sola parla dell’epidemia di AIDS, dello stigma e dell’emarginazione come cause profonde della solitudine. Crudo parla dell’era dei muri e dei confini, delle fake news e della fine della civiltà. Il mio prossimo libro, Funny Weather (che uscirà nel Regno Unito in autunno) è sottotitolato “arte durante l’emergenza” e sono dei saggi sull’arte e la politica. E il libro a cui sto lavorando, Everybody, riguarda i corpi e la violenza, i corpi e la protesta politica. In passato sono stata un’attivista e credo che la politica sia in tutto quello che facciamo. Come si fa a non fare politica, come artisti, in un periodo come questo? Brexit, l’ascesa dell’estrema destra, il cambiamento climatico: credo che gli artisti debbano rapportarsi a queste realtà. Il compito dell’arte è scavalcare il muro e farsi amico lo straniero.