D elitti irrisolti, ingiustizie sociali, famiglie che si proteggono o si autodistruggono; un governo che è causa, talora inconsapevole, di questo male, e che non ha la minima idea di come curarlo. Volendo sintetizzare in una frase il senso più profondo del cinema di Bong Joon-ho, questa potrebbe essere una buona traccia da cui partire. Ce ne potrebbero essere altre: l’inevitabilità dell’apocalisse, sotto forma di mostro (The Host, [Gwoemul], 2006) o di glaciazione (Snowpiercer, 2013); o ancora la tragedia greca aggiornata ai giorni nostri (Madre, [Madeo], 2009). Di fatto, in soli sette film e meno di vent’anni di carriera ufficiale, il regista coreano quarantanovenne ha delineato con tratto forte e sicuro la miseria umana del terzo millennio. Trasfigurando il disagio e raccontando la lotta di classe attraverso i generi cinematografici, un po’ come usava nel cinema italiano fino a qualche decennio fa: “I miei film sono basati sui generi cinematografici – spiega con limpida semplicità lo stesso autore – che sono un linguaggio universale. Un linguaggio che chiunque può parlare”.
Palma d’oro alla settantaduesima edizione di Cannes con Parasite (Gisancheung, 2019), Bong Joon-ho è il più giovane talento dell’hallyu, movimento – chiamiamolo “new wave” – di rinascita economica e culturale che a cavallo dei due millenni dalla penisola coreana ha irradiato verso il resto del mondo usi, costumi e consumi. L’ascesa della Samsung da un lato e di Gangnam Style di Psy dall’altro sono figli della medesima euforia di un popolo oppresso per secoli e infine desideroso di esportare la propria originale way of life. Un Paese vessato nel giro di un secolo prima dalla dominazione giapponese, poi da una guerra civile eterodiretta e mai terminata, infine da un’assenza di democrazia che spesso al Sud ha finito per sembrare uguale e opposta a quel Nord comunista e grottesco su cui tanto ha ricamato la propaganda statunitense. Nonostante questi ostacoli apparentemente insormontabili e dopo aver pagato il prezzo di troppe vite umane, alla fine degli anni Ottanta la Corea del Sud ha infine conosciuto la democrazia. Dieci anni dopo ha addirittura visto l’opposizione salire al governo del Paese, il benessere aumentare e le proprie arti cinematografiche assumere un ruolo guida nel continente asiatico.
Oggi, tra alti e bassi, bolle speculative e drammatiche ricadute, la faccenda ha acquisito contorni più realistici ed equilibrati. Il contributo del cinema al risveglio e poi alla consapevolezza delle coscienze di un popolo ha giocato un ruolo fondamentale, talvolta attraverso un intervento attivo e in prima persona nella cosa pubblica. Bong Joon-ho non ha mai ricoperto incarichi ufficiali come il collega Lee Chang-dong, ministro della repubblica, ma non ha mai fatto mistero della sua appartenenza al Nuovo Partito Progressista, formazione politica di sinistra. E forse, più di ogni altro collega, Bong è andato dritto al cuore della frattura sociale nel Paese dei grandi contrasti.
Il contributo del cinema al risveglio e alla consapevolezza delle coscienze ha giocato un ruolo fondamentale in Corea, talvolta attraverso un intervento attivo e in prima persona nella cosa pubblica.
Quella sudcoreana è un’anima divisa in due: sul piano etico la parola di Confucio ha attecchito profondamente, plasmando la società su basi comportamentali che oggi presentano un contrasto stridente con la tendenza generale della società contemporanea. Basti pensare al ruolo della donna e alla soglia di tolleranza nei confronti di abusi misogini dentro e fuori dal grande schermo. Persino nel cinema di uno dei registi simbolo della cosiddetta “golden age” dei Sessanta quale Kim Ki-young, autore di The Housemaid (Hanyo, 1960), la rappresentazione del femminino è irricevibile per i canoni odierni. Per Bong e per gli altri autori della hallyu Kim Ki-young è un maestro, un punto di riferimento: ma, osservando la metamorfosi nella rappresentazione della realtà da allora a oggi, è possibile comprendere la spinta innovatrice del movimento di inizio millennio e il salto quantico operato in termini di modernizzazione dei costumi rispetto al confucianesimo più intransigente.
Il Paese dei contrasti
In linea con quanto rappresentato sulla bandiera nazionale, il tae guk gi, in Corea del Sud a uno yin corrisponde inesorabilmente uno yang, a un Nord un Sud. E il cinema si è nutrito di questo dualismo, alternando punte estreme di violenza e di pietà, di amore e di vendetta. Un luogo di contraddizioni apparentemente inconciliabili, che il cinema di Bong Joon-ho porta in superficie attraverso espedienti di genere. La ricerca di un’unità nazionale e sovranazionale (tra Nord e Sud) rimane pura utopia, ma l’indagine su questo contrasto insanabile porta a comprendere meglio la propria natura, di popolo e di individuo, e la propria collocazione sulla mappa sociale.
“Il mio film parla di polarizzazione: una questione universale, che riguarda tutti”. Così Bong sintetizza laconico il senso di Parasite, ultimo suo lavoro e prima Palma d’oro nella storia del suo Paese. I Park e i Kim, due famiglie connotate dai cognomi comuni a metà della popolazione coreana, sono separati dal divario sociale e insieme uniti nell’insensatezza di una società dei consumi che titilla e sobilla in maniera instancabile, di un turbocapitalismo che ha talmente esasperato i desideri da renderli insensatezze, immersioni nel futile. Nel luogo che più di ogni altro ha visto diffondersi la chirurgia plastica tra giovani e giovanissime, o che ha assistito all’indebitamento di una intera generazione, preda di un consumismo incontrollato e compulsivo, il cinema di Bong Joon-ho prova a sistematizzare il caos. Senza mai ricorrere a degli eroi né a villain di comodo, ma senza nemmeno ritrarsi di fronte alla sgradevolezza del genere umano. Nell’insensatezza e nell’esasperazione grottesca di una realtà impossibile da decifrare con il semplice realismo, vive una singolare commistione di cultura pop e intellettualismo europeo. Nei film di Bong elementi eterogenei tanto di Ishiro Honda e di Claude Chabrol, di Stanley Kubrick o Akira Kurosawa partecipano dello stesso desiderio frustrato di inquadrare il genere umano, di comprenderlo e di anticiparne le mosse. “Chi controlla il controllore?” sembrano chiedersi tanto Parasite che Snowpiercer: forse nessuno. O forse un disegno oscuro, che non sembra avere coordinate chiare sul nostro futuro. Tanto l’industria che dispone dei maiali intelligenti di Okja (Id., 2017) che l’inventore del treno globale di Snowpiercer seguono diktat autoimposti, ma non è chiaro se stiano osservando il dito o la Luna. Le conseguenze delle loro azioni, devastanti per la specie umana, non rappresentano una fonte di preoccupazione.
Nell’insensatezza e nell’esasperazione grottesca di una realtà impossibile da decifrare con il semplice realismo, il cinema di Bong Joon-ho prova a sistematizzare il caos.
Il cuore selvaggio e il lato ferino insito nella natura profonda della società coreana sono scandagliati da Bong con uno sguardo curioso e maturo, che esula dagli stereotipi e dalle scorciatoie in cui si sono incastrati diversi autori dello hallyu e i loro epigoni minori che si sono susseguiti. In Madre, in particolare, Bong affronta tanto Freud che Sofocle, senza citarli né parafrasarli. La sua visione della complessità di un rapporto filiale e della coesistenza di questo con il ritardo mentale è priva del portato di compassione che deriva del cristianesimo, non è mai giudicante. Non lascia prevalere né la pietà né la crudeltà, come nel cinema del connazionale Kim Ki-duk. Quella di Bong è un’altra angolazione, un punto di osservazione sulla natura delle cose che mescola i valori di una tradizione difficile da comprendere per gli studi occidentali e ne trae conseguenze inaspettate, irriducibilmente originali.
Rappresentazione della realtà e adorabili perdenti
Come per Miyazaki Hayao, anche nelle storie raccontate da Bong le protagoniste sono spesso delle adolescenti, in genere i personaggi più assimilabili al concetto di “eroe”, di cui lo spettatore è indotto a prendere le parti. La Hyun-seo di The Host o la Mija di Okja, ma prima ancora la Hyeon-nam di Barking Dogs Never Bite (Flandersui gae, 2000), a cui dà vita una giovane Bae Doo-na, sfidano la violenta ignoranza dei detriti della società dei consumi con la propria incrollabile volontà di credere in qualcosa. Per Miyazaki il percorso conduceva all’emancipazione professionale, in Bong passa da un’àncora affettiva, dall’individuazione di ciò che è inconfutabilmente innocente in un mondo corrotto. Elemento quest’ultimo che spesso, ma non sempre, si identifica in un animale, come il cane di Barking Dogs Never Bite o il maiale super intelligente di Okja.
Se una componente del cinema di Bong Joon-ho fa infatti leva sul grottesco e sul caricaturale, sull’allegoria a forti tinte, l’altra metà, lo yang del suo yin, verte sull’ingiustizia sociale, su una trasfigurazione moderna dell’analisi dickensiana del disagio sociale susseguente alla rivoluzione industriale. Non è un caso che sia un racconto per bambini di epoca vittoriana, Il cane delle Fiandre di Ouida, a ispirare una dissacrante rielaborazione nel suo primo lungometraggio, Barking Dogs Never Bite. Se approdo e linguaggio sono dissimili, il milieu di divario sociale, tipico lascito dello sforzo economico di una potenza in ascesa, è il medesimo. Bong costruisce un ponte invisibile tra l’Inghilterra vittoriana e lo hallyu coreano, concentrandosi sui colletti blu, i dimenticati della società, corrispettivi degli eroi di Ken Loach o Mike Leigh, in cui l’abbrutimento da disagio e la rivalsa da guerra tra poveri ha sostituito ogni consapevolezza di essere sfruttati. Fin dal suo secondo cortometraggio Incoherence (Ji-ri-myeol-lyeol, 1994), risalente all’epoca in cui Bong studiava alla Korean Academy of Film Arts – lo si può vedere qui – a interessare il regista sudcoreano è il “sale della Terra”, per rubare una definizione ai Rolling Stones o ai Vangeli. Negozianti, segretarie, lavoratori dei fast food; o un aspirante professore costretto a pagare per diventare tale (Barking Dogs Never Bite) e poi a sfogare la propria frustrazione sui cani. Così come i paria dell’ultimo vagone del treno dell’umanità di Snowpiercer, nutriti a barrette di proteine, così vicini ma così lontani dalle leve del potere. Eppure saranno loro, i paria, in una profezia che sa di pseudo-marxismo, a recitare un ruolo di guida, per quanto improbabile, di un’umanità a cui toccherà premere il tasto di “reboot”.
Se una componente del cinema di Bong Joon-ho fa leva sul grottesco e sul caricaturale, l’altra metà verte sull’ingiustizia sociale.
Al termine del loro arco di crescita, i reietti di Bong lasciano intravedere una nuova consapevolezza. Come nel più pessimista tra i suoi lavori, nonché uno dei suoi più acclamati, Memories of Murder (Salinui chueok, 2003), ispirato alla storia vera di una scia di delitti insoluti nella Corea del Sud dei primi anni Ottanta. Una delle prime opere cinematografiche, insieme a Peppermint Candy (Bakha satang, 1999) di Lee Chang-dong, che affronta senza paura gli anni bui della dittatura, che afferma quel che prima non si poteva neanche pronunciare. Così come per il Pablo Larrain di Tony Manero e Post mortem, che sembra rispondere a Bong dagli antipodi del mondo, il fascismo non si comprende inquadrando le adunate o i simboli del suo potere. Lo si comprende osservando la sua capacità virale di penetrare nei gangli della società, di attecchire come una malattia dove le difese culturali sono più fragili e la frustrazione degli oppressi è più forte. Lo sguardo di Bong disapprova e disprezza Park Doo-man e Cho Yong-koo, i due poliziotti che occultano goffamente le prove o interrogano i nemici politici a colpi di taekwondo, ma non li condanna come esseri umani. Permane sempre un’ombra di umanità nell’osservazione del loro ruolo di rotelle dell’ingranaggio, nella loro ingenuità di marionette a cui è stata raccontata una realtà surrogata e posticcia. Tanto i poliziotti di provincia che le molte Tilda Swinton che strillano ordini in Snowpiercer e Okja sono vittime del sistema almeno quanto lo sono i “buoni”, oppressori sì ma incapaci di guardare alle proprie di catene.
Bong li chiama “amabili perdenti”, Dino Risi li chiamava “mostri” o “complessi”. Sfumature differenti, punti di vista alternativi sugli stessi vizi immortali, insiti e apparentemente inestirpabili, in quel mistero buffo catalogabile alla voce “specie umana”.