C ome scrisse Giovanni Raboni sul Corriere della Sera, commentando Metropolis di Giorgio Bocca, libro del 1993 che racconta la Milano delle bustarelle e apparso con la rapidità di un instant book: “non voglio dire che tra venti o trent’anni avremo sicuramente dei bei romanzi su Tangentopoli; dico solo che sarebbe strano se li avessimo prima”. Ecco, vent’anni possono rappresentare la giusta distanza, il tempo sufficiente a prendere fiato, a far sedimentare immagini e sentimenti. Numero zero, l’ultimo romanzo di Umberto Eco (2015), non il suo migliore, muoveva dalla redazione di un giornale, nel pieno del caos politico-industriale dei primi Novanta. Sul fronte della scrittura televisiva, le serie 1992 e 1993 si sono addentrate nell’intrigo di quel tempo, da un’ottica diremmo spettacolare, di intrattenimento.
Fuori dalle luci e dentro una linea narrativa intima, quasi neorealista, si colloca Una volta ladro, sempre ladro, da poco in libreria per minimum fax, il primo romanzo di Lorenzo Moretto, con un titolo che possiede le virtù di uno scatto (un uomo finito in carcere dovrà per sempre fare i conti con un evento così traumatico, con tutto quello che ne consegue; anche nella psicologia dei suoi congiunti), e uno svolgimento che ha il merito di addentrarsi nel fitto della storia di quegli anni, restando tuttavia distante dalla dimensione corale, dalla tentazione della fotografia di gruppo.
Era l’11 giugno 1994 e cinque fra appuntati, sovraintendenti, ispettori e un ufficiale della guardia di finanza mi guardarono dal pianerottolo. Indossavano un paio di jeans, scarpe da ginnastica e polo (Lacoste, Sergio Tacchini, Fila, senza marca), tranne uno che esibiva una camicia a maniche corte bianca con sottili strisce gialle verticali; uno aveva gli occhi arrossati; due portavano la pistola avvolta dalla fondina legata alla cintura.
La scena inizia dall’arresto del padre di Lorenzo, Giovanni, nell’appartamento di famiglia (l’attacco del romanzo, “Al centro della mia vita c’è l’arresto di mio padre”, è una frase scarna e colma di dolore). Un pasto appena consumato, all’ora di pranzo, mentre in televisione scorrono le cronache sportive dagli Stati Uniti, dove la nazionale di calcio allenata da Arrigo Sacchi sta per prendere parte ai mondiali. Ma nel mezzo di quella che si sta annunciando come una nuova, normale estate italiana, cinque agenti entrano in casa per notificare il provvedimento – l’accusa è di presunto riciclaggio di capitali tra l’Italia e l’estero – e a partire da quegli istanti ogni aspetto della vita è destinato ad assumere una nuova configurazione. La tempesta, improvvisa, investe con forza sia la sfera morale che quella pratica – le routine intorno a cui si organizza il vivere quotidiano. Nel raccontarla, il passo di Lorenzo Moretto è calmo, sicuro, ma in controluce s’intravedono tensione e sconvolgimenti interiori. Ci sono le procedure d’arresto da svolgere, occorre organizzare la difesa, sentire gli avvocati, pianificare i viaggi a Milano, verso il carcere più famoso d’Italia, San Vittore, dove Giovanni è stato condotto. E poi c’è chi resta fuori, aggrappandosi a “tutto pur di attenuare quella visione di macerie che stava disgregando la nostra famiglia”.
Attesa e inquietudine riempivano la cronaca e la politica italiana di quegli ultimi due anni così pieni di corruzione, conflitti, affari, magistratura, possibilità, tutti quegli eventi che entrarono nella parola Tangentopoli. Dal 17 febbraio 1992 e per i ventotto mesi successivi ci furono almeno 4525 persone arrestate, 25.400 avvisi di garanzia, e fra questi furono circa 1100 i parlamentari e gli uomini politici di vario livello coinvolti, raggiunti da un avviso o arrestati con grande megafono di notizie. Uno di quei 4525 arresti fu mio padre, un uomo che nel grande affresco sociale dell’Italia di quegli anni non contava un cazzo.
L’intreccio che propone Lorenzo Moretto, dunque, si dispiega tra la vicenda personale e lo sfondo ingombrante dell’Italia formato seconda repubblica, nella perenne transizione del paese. Ma Una volta ladro, sempre ladro, come si conviene a un racconto letterario, al di là del paragrafo citato qui sopra, non ha l’afflato dell’inchiesta retrospettiva, né tantomeno è un lavoro di ispirazione sociologica. È la storia di una famiglia, è la storia di un padre e di un figlio, ovvero due delle tre parti in cui è formalmente suddiviso il romanzo (la terza, Noi, ha il valore di un epilogo), ed è questa la sua forza. La scoperta, sulla propria pelle, che le visite in carcere richiedono una trafila fiaccante, un incastro di burocrazie e stanzoni opprimenti, tra odori di umidità e arance (“Sì, le arance, come nelle storielle sui carcerati”). E la constatazione che dopo l’arresto e la galera, tornare alla normalità sarà impossibile; è tutto vero, accade veramente che gli amici ti voltino le spalle, e che a quasi sessant’anni trovare un nuovo lavoro è una sfida che va oltre ogni ragionevole forza.
Mentre la vicenda giudiziaria segue il suo corso, Lorenzo si stabilisce a Milano – dove inizia a lavorare nel ramo assicurativo, osservando i mutamenti nel tessuto della città – ospitando il padre per le trasferte dovute alle udienze. Sotto il grande cielo del dibattito nazionale, nel frattempo, continua a imperversare il conflitto tra magistratura e politica, con l’area berlusconiana impegnata ad approvare leggi e decreti passati alla cronaca come ad personam, un fattore che lambisce la vicenda dei Moretto per l’essenza della questione – riforme più o meno aggressive della custodia cautelare – ma anche per via dei magistrati coinvolti.
Una vicenda individuale può farsi narrazione-mondo, o più precisamente, narrazione-paese, e questo è quanto accade a Una volta ladro, sempre ladro.