I mpressionante a scorrerla, la bibliografia di Furio Jesi, soprattutto se si fa riferimento alla sua breve vita, terminata nel 1980, a soli trentanove anni. Saggista, studioso di miti e di religioni, critico letterario e traduttore, Jesi è tutto questo, ma non solo. Già nel 1967 pubblicava un libro fondamentale, Germania segreta, saggio nel quale predispone la sua analisi sul mito, sulle sue relazioni con la modernità e sul suo continuo rinascere in forme distorte nelle società contemporanee. Per portare avanti la sua indagine Jesi si basa su un ampio gruppo di autori che comprende, tra gli altri, Nietzsche, Mann, Kafka, Brecht, Mahler e molti altri numi tutelari della cultura mitteleuropea.
Il libro adesso è stato ripubblicato dalla casa editrice Nottetempo, luogo centrale di una Jesi renaissance – sono stati infatti rimessi in commercio anche Il tempo della festa e il fondamentale, e inquietantemente attuale, Cultura di destra – curato come gli altri libri da Andrea Cavalletti, grande interprete e profondo conoscitore dell’opera di Jesi. Cavalletti nella sua introduzione sottolinea che la ristampa non si presenta come un semplice tesoro bibliofilo, quanto invece come meritorio lavoro editoriale capace di ridare alla figura di Jesi la centralità che purtroppo sempre di più fugge. Germania segreta “è il lavoro che restituisce nella sua prima, unitaria configurazione, l’immagine originale del laboratorio jesiano”, ed è preciso nell’assecondare l’ipotesi teorica dell’autore che indaga come parte della cultura tedesca novecentesca sia stata conquistata, e poi mossa, dal culto per un “passato per eccellenza”, un dispositivo sotterraneo mitico, “segreto” appunto, un materiale da osservare e da custodire per affrontare in maniera differente il presente.
Dopo le intemperie della Seconda guerra e le storture del germanesimo hitleriano, Jesi mette in comunicazione diversi luoghi del sapere, dalla musica all’arte, dalla storia alla letteratura, per mostrare in maniera limpida quelle che sono le fondamenta di un discorso sul consenso (vedere per esempio le pagine dedicate ai teorici nazisti), sulla costruzione deforme di un’identità e sulla creazione di nemici. Ma se l’opera saggistica di Jesi continua ad avere – seppur non moltissimi – estimatori e lettori e se resta evidente come alcuni luoghi teorici siano decisivi e impressionanti incubatori di elementi esplosi e rintracciabili nel nostro tempo presente, c’è una parte della sua opera che resta oscura quasi in maniera assoluta, quella poetica, uno dei luoghi centrali del suo articolato pensiero: in fondo “Tutto quanto io ho scritto è poesia”, recita un passo di Il tempo della festa.
All’interno di quello che abbiamo definito come un tentativo di rinascita jesiana, occupa un posto di rilievo anche l’editore Nino Aragno, che negli ultimi anni ha pubblicato il precoce studio La ceramica egizia, e gli importanti saggi L’ultima notte e Mito. L’editore torinese ha il merito di avere pubblicato un tassello sommerso dell’opera di Jesi, le sue poesie raccolte sotto il titolo L’esilio, in una pregevole versione curata con grande attenzione da Giacomo Jori. L’esilio apparve per la prima volta nel 1970, pubblicato da Umberto Silva, ma Jesi ci lavorò tra il 1963 e il 1969, negli anni in cui, dunque, prese vita il movimento della neoavanguardia ed esplosero i fuochi intorno al 1968: ma in realtà, e almeno a un primo sguardo che resta certo anche in seguito per nulla sfocato, i componimenti poetici che formano questa raccolta sembrano essere sospesi nel tempo e inattaccabili dai numerosi eventi che si susseguono negli anni della stesura, configurandosi piuttosto come una sorta di indagine spirituale sulla condizione dell’esiliato, carattere proprio dell’anima stessa dell’uomo, senza tempo e radicato nel suo essere.
Certo non è esente dal verso di Jesi una poetica militante e uno sperimentalismo che dialoga con lo stile poetico degli anni in cui scrive, ma questi elementi sono sommersi dal continuo riferimento agli autori da sempre frequentati, che sono tanto gli scrittori classici quanti i decisivi punti di riferimento del primo Novecento (da Eliot ai maestri tedeschi). Il comunicato stampa originale dell’editore Silva, uno dei numerosi e fondamentali apparati di questo libro che invitano e guidano il lettore nella lettura e nell’interpretazione, gettano subito l’opera in questa linea atemporale che si inabissa nei nuclei dell’identità dell’uomo:
Il titolo di questa raccolta di poesie può essere ricollegato ai singolari sviluppi del concetto di esilio nella tradizione culturale e religiosa ebraica. Specialmente nell’ambito della mistica, l’esilio apparve come un’esperienza dapprima redentrice, poi sempre più catastrofica e apocalittica.
Come giustamente annota il curatore Jori, si condensano in questi versi, che lo stesso Jesi definiva nella loro interezza come un “poema epico”, oltre alle influenze di cui si è già detto (uno su tutti, Rilke, unito a Jesi dall’idea che la poesia sia “solitaria esperienza dell’essere” ma, nello stesso tempo, “solitario accesso alla collettività dell’essere”), anche opere di pensatori che qui figurano come ispiratori filosofici e teologici, come Martin Buber, Marìa Zambrano o Gershom Scholem. In particolare Le grandi correnti della mistica ebraica di Scholem è senza dubbio uno dei punti di riferimento per questa raccolta che riprende il tema del “più profondo simbolo pensabile dell’esilio”, cioè che “Dio si è ritirato nelle profondità del suo nulla, e che quel ritirarsi ha reso possibile per drammatico paradosso la creazione, il nome”, e dal quel ritirarsi (“Tzimtzùm” in ebraico) ha origine l’erranza (lo stesso volume di Jesi porta, tra l’altro, in epigrafe, una citazione dallo Zohar: “L’impulso dal basso richiama quello dall’alto”).
Nonostante si possano rintracciare con facilità elementi della tradizione greca e latina, sino a riferimenti a Dante e all’età moderna e contemporanea, in L’esilio soggiace dunque questa componente ebraica, un aspetto che contribuisce a donare al dettato poetico la dimensione epica, come auspicato dallo stesso Jesi, con un poema che finisce per divenire il simbolo stesso dell’umano. Oltre al componimento omonimo, la raccolta si completa con Amazzonomachia (“il poemetto delle lame” come lo definisce il curatore Jori, meraviglioso emblema delle ferite e delle mutilazioni che colpiscono l’uomo nell’incontro con l’altro e con se stesso), Ahasvero, L’ora e le piogge e il conclusivo Outremer (a sua volta costituito da cinque parti). L’andamento generale è univoco, incentrato sul tentativo di esaurimento, o quantomeno di un radicale scavo, dell’essenza dell’esilio e dell’uomo.
Risponde a questo sforzo il personaggio di Ahasvero, vero eroe epico, ebreo errante protagonista della parte a lui intitolata ma altresì simbolo e metafora di tutto il poema. La figura del protagonista è ripresa da una leggenda cristiana, quella di un uomo condannato alla punizione di non trovare mai la morte e di dover errare in eterno fra gli uomini poiché non aveva riconosciuto il Signore e lo aveva oltraggiato. Nel poemetto a lui dedicato Ahasvero parla in prima persona raccontando la sua storia, emblema della natura erratica di cui vuole parlare Jesi:
Molte strade ho percorso, molte vie solitarie
nei pomeriggi di sole, fra l’erba e la creta bagnata
molti antichi sentieri. Molti tramonti
vidi su molte città, su sterminati mari.
Molte ore ho dormito mentre dormiva la terra;
su vasti cammini battuti dal vento ho attraversato la notte.
Si può arrivare a dire, forzando forse un po’ i termini, che in questa sua opera Jesi, prendendo tanto a prestito i miti classici e la Bibbia quanto la letteratura moderna e contemporanea, mira a tratteggiare un’immaginifica rappresentazione della morte, un “Triumphus Mortis” come ha scritto Carlo Ossola, con la figura dell’esilio che talvolta sfuma i suoi contorni trasformandosi nel dramma della scomparsa, stringendo così una relazione tragica e inevitabile (“Ché questo è certo peccato. Poiché regge l’esilio / norma solitaria e lontana. Qui la chiamano morte”).
La figura protagonista dell’ebreo errante si tinge allora di un’universalità che non è facile rintracciare in altri scrittori e poeti che si sono concentrati su questi temi, assumendo un carattere particolare, come se l’ambizione del progetto, che non trovò né successo né seguito, fosse costruire il ritratto della sofferenza dell’intero Occidente, che non esclude nessuno:
Ad uno ad uno illuminò i propri volti
con la lanterna cieca: il Bambino, lo Straniero,
l’Incantatore, l’Omicida, balzarono dal buio del cuore
non maschere carne umana priva di sguardo,
muta e quieta.
Questo faticoso viaggio di scavo del poeta si conclude con l’ultimo movimento, Outremer, dove si compie il legame indissolubile tra mito e biografia, con un riferimento all’oltremare che è nel tempo stesso “il regno fondato dai cristiani in Terrasanta”, come annota Jori, ma anche terra d’Israele, e dunque fine ultimo del pellegrinare. Ma anche le terre d’Etiopia, dove il padre combatté.
Intorno a quest’aspetto ruota la parte intitolata Katabasis, dove emerge l’afflizione per la morte del padre in giovane età (morì a Torino proprio a seguito delle ferite di guerra, dopo avere subìto la mutilazione di una gamba), il dolore del ricordo che si affievolisce sempre più (“Ma nella casa dei morti / non più ti riconosci, e il tuo volto / né il mio volto tu sai”), e il lutto nostalgico di cui è permeata una parte dell’infanzia, come descrive Jesi con i suoi versi:
Bambino
molte volte ho ornato di fiori
la tua tomba. […] Giocavo silenzioso
per non destarti dal sonno,
e neppure cercavo
la tua mano, di notte,
perché non bisognava svegliarti.
Si tratta di un’ultima, e decisiva, sfumatura del dolore che trova corrispondenza nel dato biografico e che continua comunque ad emergere dalla figura universale dell’esiliato, intrecciando così in maniera indissolubile storia collettiva e individuale. In una lettera a Giulio Schiavoni, che Jori riporta nelle note, Jesi ha dato una definizione della poesia, della sua natura e del compito di chi la scrive: “il poeta si trova nella condizione spietata di misurare le sofferenze, proprie e altrui, e di scandire la poesia nel ritmo di chi ha più male”.