M arie Kondo, ormai nota guru del “rassettare”, autrice del bestseller Il magico potere del riordino e coach di una serie a tema su Netflix, ha fatto alzare non pochi sopraccigli quando ha suggerito di disfarsi dei libri di casa, almeno quelli mai letti o mai finiti, per sgombrare dal superfluo stanze e appartamenti. Il ragionamento è che niente va perso, dato che ormai per la maggior parte dei testi esistono le copie digitali, e i volumi cartacei finiscono solo a prender polvere.
Un consiglio sbrigativo ma almeno all’apparenza sensato, che è andato però a rinfocolare una diatriba che va avanti da tempo: davvero dei libri di carta si può fare ormai a meno senza troppi rimpianti, e senza particolari conseguenze? In che cosa differiscono, se differiscono, la lettura su una pagina stampata e quella su uno schermo digitale?
Evoluti e digitalizzati
A partire almeno dagli anni Ottanta, i ricercatori di diversi campi, dalla psicologia all’informatica fino alle neuroscienze, si sono interrogati sul tema della “digitalizzazione” della lettura. Non si tratta solo di libri. Lo sfondo della discussione è la pervasività nella nostra vita quotidiana delle tecnologie digitali, tra schermi e connessioni Internet, su cui si sono fronteggiate per un po’ di tempo due opposte scuole di pensiero. Lo scrittore americano Nicholas Carr, ormai una decina di anni fa, era un esponente di quella “catastrofista”.
Secondo Carr, il sussidio costante delle nuove tecnologie, il loro “brusio incessante e ipnotizzante”, indebolisce le nostre capacità cognitive e ci rende in qualche modo più stupidi. Per colpa di Internet si andrebbe erodendo non solo la nostra umanità, ma anche la nostra intelligenza. A questa posizione in tanti hanno risposto citando le rivoluzioni tecnologiche e culturali del passato, guardate inizialmente con sospetto e paura, e poi normalizzate e integrate senza conseguenze nefaste. Del resto, si ricorda, perfino Socrate temeva che la “nuova tecnologia” della scrittura, permettendo di fissare i pensieri su carta invece di fare lo sforzo di tenerli a mente, avrebbe comportato un indebolimento della memoria e della capacità di giudizio.
Leggere non è stato uguale in tutte le epoche. La lettura è una tecnologia che, come tante altre, si è evoluta con i tempi.
Ma c’è un’altra critica più pertinente. Leggere non è stato uguale in tutte le epoche. La lettura è una tecnologia che, come tante altre, si è evoluta con i tempi. E che nel suo mutare cambia anche noi come lettori, argomenta per esempio Phil Cormack, ricercatore del Centre for Research in Education, della University of South Australia.
Ci sono episodi che sembrano dimostrarlo in maniera convincente. Alberto Manguel racconta nel suo Una storia della lettura (Feltrinelli) che nei primi secoli dell’era cristiana, un giovane insegnante di retorica latina, in visita al vescovo Ambrogio a Milano si stupì molto di vederlo leggere silenziosamente: il testo, fin dall’antichità, era scritto per essere pronunciato ad alta voce. Tanto che la classica frase scripta manent, verba volant aveva il significato opposto a quello che noi le attribuiamo: era la lode della parola pronunciata ad alta voce, che vola con le sue ali, invece di rimanere fissa e immobile sulla pagina scritta. Quell’insegnante di retorica sarebbe poi diventato Sant’Agostino, e la lettura muta l’aveva tanto colpito da riferirne nelle Confessioni. In effetti, sostiene Manguel, era davvero un passaggio rivoluzionario: permetteva un nuovo rapporto, intimo e senza testimoni, tra il libro e il lettore, era un modo di appropriarsi del testo, di metterlo in relazione con altre letture, altri autori, altri pensieri. In fondo, contribuiva alla creazione dell’uomo moderno, “una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture”, come ha scritto Italo Calvino.
È questo modo di rapportarsi ai testi che la neuroscienziata Maryanne Wolf intende quando parla di lettura profonda, la dimensione in cui processi neurali di base, la semplice capacità di “saper leggere” si integrano con i processi di memoria, attenzione, emozione, e ci permettono di stabilire collegamenti, creare immagini, generare esperienza e conoscenza. Un concetto intuitivo da comprendere, ma non tanto semplice da spiegare. Wolf fa un esempio.
A rischio di estinzione?
Prendiamo il racconto che Ernest Hemingway scrisse per scommessa, per dimostrare che non era impossibile narrare una storia in sei parole:
In vendita: scarpine da bambino, mai usate.
Una frase brevissima che evoca uno scenario di immagini e una gamma di sentimenti diversi in ciascuno di noi. È questo il potere della lettura profonda: entrare nei vari strati di significato nascosti dentro le parole.“Chi ha letto molto e bene avrà molte risorse da applicare a ciò che legge; chi non ha queste risorse avrò meno da portare con sé… I nostri giovani non sapranno ciò che non sanno” scrive Wolf nel suo ultimo libro, Lettore, vieni a casa (Vita e pensiero). Esperta di letteratura, oltre che scienziata, Wolf sostiene che proprio questa capacità di uscire dai confini di ciò che si sa per formare nuovi collegamenti, connessioni, idee, sia in grande pericolo nella società contemporanea. Anche per colpa delle nuove abitudini di lettura su schermi digitali.
Il perché non è immediatamente chiaro, ma vale la pena seguire il filo del ragionamento, e le ricerche condotte in materia, per cercare di capire. Che le modalità con cui leggiamo oggi siano cambiate non c’è alcun dubbio. Del resto, lo stesso si potrebbe dire degli schermi per quanto riguarda la scrittura, resa al tempo stesso più facile e più difficile. “Sono felice che il computer non fosse disponibile quando ho iniziato a scrivere” diceva tempo fa lo scrittore Tim Parks in un articolo del New Yorker. “Sarei rimasto sopraffatto dalle possibilità. Una volta che sai quel che stai facendo, però, la facilità del computer è meravigliosa”.
Recensendo il libro della Wolf, l’esperto di tecniche didattiche Doug Lemov evoca l’inquietante presenza nelle nostre vite del “Dispositivo”, che sia computer, tablet o telefonino. Secondo un’indagine americana, ma che sembra applicabile anche nel contesto nostrano, i giovani sui vent’anni cambiano fonte d’informazione 27 volte in un’ora, e controllano lo smartphone da 150 a 200 volte al giorno. Due minuti è la media dell’attenzione che dedichiamo a ogni compito digitale. “Bravo Dispositivo! Una volta era il servo; ora è il padrone”, dice Lemov. È dunque enorme la quantità di informazioni (34 gigabyte al giorno, è una stima) che ci arriva al cervello tramite uno schermo.
Ci sono dettagli fisici che fanno la differenza. Per esempio, il fatto che per leggere su questi dispositivi generalmente scorriamo il testo dall’alto in basso, o saltiamo velocemente da un contenuto all’altro tramite i link. Ma questa di per sé non è una novità della nostra epoca. Come fa notare Paul La Farge in un articolo su Nautilus, dall’invenzione del papiro nel 3000 avanti Cristo fino ad alcuni secoli dopo Cristo, la maggior parte dei documenti scritti erano rotoli. Solo dopo sono venuti i codici e i libri rilegati, che permettevano l’andirivieni tra le pagine. E la ruota dei libri inventata nel Cinquecento dall’ingegnere Agostino Ramelli in fondo non era altro che un marchingegno per avere sottomano più testi e passare agevolmente da uno all’altro, come oggi facciamo di link in link.
Sembra anche che il testo scritto su una pagina consenta di formare più facilmente una mappa mentale con cui il significato viene ancorato al testo, e quindi di ricordare meglio. Da questo vantaggio non sarebbero dunque esclusi gli e-book reader. Però il libro fisico darebbe in più la possibilità di tenere tra le mani il testo nella sua interezza, di scorrere facilmente avanti e indietro, e questo minore impegno cognitivo si tradurrebbe in una migliore padronanza.
Ma quando si è andati a vedere in dettaglio che cosa si perde e cosa eventualmente si guadagna con la lettura digitale le risposte sono state meno scontate di quanto ci si aspettasse.
Diverse velocità
Molti temono che, tra quantità degli stimoli, velocità con cui passiamo da uno all’altro e distrazioni varie, alla fine la comprensione di quanto leggiamo ne risenta. Gli studi più vecchi avevano osservato che le persone leggono più lentamente e meno accuratamente sullo schermo che sulla carta. Ma forse la novità e la poca familiarità del mezzo che si aveva all’epoca delle ricerche potrebbe spiegare almeno in parte i risultati. Altri studi più recenti hanno aggiunto diverse sfumature.
Varie ricerche confermano che, in effetti, chi legge su uno schermo ricorda meno e ha punteggi inferiori nei test che misurano la comprensione rispetto a chi legge lo stesso testo su una pagina di carta. Ma la colpa, più che del mezzo materiale in sé, potrebbe essere delle diverse aspettative rivolte al libro o allo schermo.
In altre parole, siamo abituati ad associare la lettura sullo schermo con testi “meno importanti” – dalle notizie agli scambi sui social – mentre la pagina stampata a qualcosa di più rilevante, per cui può darsi che prestiamo meno attenzione leggendo sul computer o il telefono, o lo facciamo più velocemente, a scapito poi della comprensione.
Siamo abituati ad associare la lettura sullo schermo a testi meno importanti e la pagina stampata a qualcosa di più rilevante.
Infatti, come mostra un altro studio, gli studenti abituati a fare ricerche online, e quindi ad impegnarsi su Internet per trovare informazioni, ottengono risultati migliori di quelli che usano la rete quasi solo per accedere ai social media. Una metanalisi recente di ricercatori dell’Università di Valencia e del Technion Israel Institute of Technology cerca di mettere alcuni punti fermi proprio sulla questione della comprensione. Il titolo anticipa la conclusione: “non buttate i vostri libri stampati”.
Esaminando le ricerche più recenti (dal 2000 al 2017) che hanno paragonato la lettura di testi su carta o schermo digitale, il vantaggio, complessivamente, è della carta. E il libro stampato è ancor più favorito in alcune condizioni specifiche, per esempio se è assegnato un limite di tempo per svolgere il compito di comprensione. Ma molto dipende anche da che cosa si legge. Se per i testi informativi la carta è meglio, per uno narrativo non sembrano esserci differenze. Nella lettura su supporto digitale, però, i lettori tendono a sopravvalutare le loro capacità di comprensione, ovvero pensano di aver capito, quando non è così.
A sorpresa, inoltre – o a conferma dei timori –, il vantaggio della carta è più marcato tra i più giovani. Invece di decrescere per via della dimestichezza con il mezzo da parte dei nativi digitali, come si tenderebbe a credere, la difficoltà a orientarsi e comprendere il testo scritto su uno schermo aumenta. Dal 2000 al 2018, l’effetto “inferiorità” del digitale è cresciuto. I ricercatori forniscono una misura della penalizzazione del digitale rispetto alla carta: lo svantaggio è circa due terzi del progresso tra un anno e il successivo di scuola elementare.
Non basta insomma dare in mano uno schermo a bambini e ragazzi perché imparino da soli come destreggiarsi o trarne il massimo vantaggio. O presumere che, via via che gli adulti prenderanno più confidenza con la tecnologia, la comprensione di quel che leggono su uno schermo migliorerà di per sé. In questo senso, potremmo davvero diventare “più stupidi” come Nicholas Carr paventava.
I ricercatori non spiegano il perché di questa persistente “inferiorità dello schermo”, ma presentano alcuni indizi a supporto della cosiddetta “Shallowing Hypothesis”. L’idea è che, essendo la maggior parte di noi abituata a utilizzare i media digitali per interazioni veloci guidate da una ricompensa immediata (per esempio il numero di “like” a un post), troviamo difficile servircene per compiti molto più impegnativi, come la comprensione di un testo complesso, che richiedono attenzione costante e prolungata. In questa prospettiva, più le persone usano i media digitali in questa modalità “superficiale”, meno saranno in grado di usarli per attività più complesse.
Questi risultati, benché non siano catastrofici dal punto di vista del senso comune, fanno suonare diversi campanelli d’allarme. Innanzitutto, per il mondo dell’educazione e della scuola, dato che mettono in discussione la moda dell’utilizzo dei media digitali, soprattutto ai gradi più bassi dell’istruzione, con i bambini più piccoli. Ormai neppure nella scuola più tecnologicamente arretrata sembra possa mancare la “Lim”, la lavagna multimediale. E mentre nella Silicon Valley i manager prediligono per i loro figli una scuola con carta e penna, molti istituti scolastici italiani presentano come innovazione di valore la sostituzione dei libri di carta con e-books. “L’ambiente digitale non è detto che sia il più appropriato per favorire la comprensione profonda e l’apprendimento”, scrivono invece gli autori dello studio.
Lezioni per il futuro
Un allarme simile è quello lanciato dagli esperti del progetto di ricerca europeo E-READ, Evolution of Reading in the Age of Digitisation. Nella Dichiarazione sul futuro della lettura adottata a fine 2018 a Stavenger, in Norvegia, scrivono che la rapida (e ingiustificata) sostituzione nell’istruzione primaria del testo stampato e di carta e matita con le tecnologie digitali non è neutrale. Anzi, se non è accompagnata da risorse digitali e strategie di apprendimento attentamente sviluppate, può avere effetti negativi sullo sviluppo della comprensione della lettura e del pensiero critico nei bambini.
Certo è che indietro non si torna. E quindi, più che puntare a eliminare la tecnologia, la battaglia è per accertarsi come e in che modo governarla.
Per i bambini piccoli, la fisicità di un libro e la possibilità di ripetere parole sono i puntelli che sostengono le prime esperienze di lettura. Negarle a favore di uno schermo sarebbe sbagliato, secondo Wolf. Anche il primo apprendimento della lettura a scuola dovrebbe avvenire su libri di carta. È in questo periodo che può avvenire l’incontro con gli schermi e il testo digitalizzato. Di lì in avanti si tratterà di riflettere bene e indagare su quali siano i metodi migliori per insegnare tutte le abilità indispensabili alla vita contemporanea, senza però perdere quella essenziale alle altre: leggere, e dunque pensare in profondità.
Illustrazioni: Francesco Del Re.