L a filosofia moderna – scriveva Simon Critchley in Responsabilità illimitata – nasce non dalla meraviglia, ma dalla delusione, dal “rendersi conto di vivere in un mondo profondamente ingiusto, attraversato dall’orrore della guerra; un mondo in cui, dice Dostoevskij, il sangue viene spillato come champagne”. Non sono convinto che la sua provocatoria definizione sia solida dal punto di vista della storia del pensiero – e probabilmente non aveva intenzione di esserlo. So però che corrisponde al modo in cui, per fattori sia generazionali che biografici, ho sempre inteso il mio rapporto con la filosofia in generale e con quella politica in particolare.
Quando per iniziare gli studi avanzati in questa disciplina mi trasferii negli Stati Uniti, arrivai per caso proprio nel giorno in cui entrava in vigore il Muslim Ban dell’amministrazione Trump, che serrava le frontiere americane alle cittadine e ai cittadini di sei paesi a maggioranza musulmana. Nel momento stesso in cui facevo la fila alla dogana, alcune persone provenienti dall’Iraq erano detenute nel medesimo aeroporto con la sola colpa di avere il passaporto sbagliato. Forse anche per la natura insolita e drammatica di quell’esordio, negli anni successivi mi sono spesso domandato se davvero la filosofia politica fornisca degli strumenti adatti a comprendere il presente per come si era ad esempio manifestato in quello scalo – o se addirittura dia qualche contributo, anche piccolo, alla creazione di un mondo in cui dei potenziali rifugiati non vengano respinti al confine senza alternativa alcuna, per il mero capriccio del potente di turno. Rispondere con un sì convinto a interrogativi del genere mi sembra, oggi come allora, quantomeno difficile.
Per spiegare questa difficoltà diventa necessario spendere alcune parole su quale sia il modo oggi dominante di fare filosofia politica. All’interno dell’accademia anglosassone, ma sempre di più anche in realtà da essa geograficamente e culturalmente lontane, la filosofia politica attualmente più in voga è quella di stampo analitico. Dicendo questo attuo ovviamente una forte semplificazione, ma se mi permetto di farlo è perché credo che gli attuali rapporti di forza all’interno della disciplina ci restituiscano – al netto di tutte le controtendenze, le eccezioni e le resistenze che pure esistono – un quadro in cui un approccio cosiddetto analitico alla relazione tra pensiero filosofico e realtà politica sta, lentamente eppure con una certa inesorabilità, divenendo egemonico.
Ci sono numerosi aspetti che possono essere assunti come tratti costitutivi di tale “scuola” di pensiero, ma qui mi preme analizzarne soprattutto uno che è raramente posto in evidenza – vale a dire un atteggiamento depoliticizzante nei confronti del presente, che si realizza essenzialmente tra due estremi: una visione della filosofia politica come latrice di una teoria ideale ed astratta, volta ad esempio a dirci cosa sia la giustizia in senso generale, senza indagarne particolarmente le relazioni con la realtà concreta (inevitabilmente molto lontana dall’ideale); una sorta di iper-presentismo che pone sì alcuni fenomeni contemporanei come punto di partenza per l’elaborazione filosofico-politica – ma lo fa in un’ottica prevalentemente locale, di problem solving, che di rado tenta di decostruirne i presupposti profondi e che quasi mai propone soluzioni che si discostino troppo dallo standard di una politica liberal-democratica e di un’economia capitalistica con qualche modesto correttivo.
All’egemonia della filosofia politica di stampo analitico corrisponde un atteggiamento depoliticizzante nei confronti del presente.
Nella sua critica approfondita e feroce di questo tipo di filosofia Lorna Finlayson in The Political Is Political. Conformity and the Illusion of Dissent in Contemporary Political Philosophy ha messo in questione, tra l’altro, il (non-)rapporto che essa intrattiene con gli aspetti più concreti ed “empirici” della politica per come la viviamo quotidianamente. Alla domanda riguardo cosa esattamente faccia di politico la filosofia politica analitica, scrive Finlayson, “la risposta convenzionale sembra essere che contribuisca contemporaneamente all’avanzamento della conoscenza ed al miglioramento della realtà sociale”. Da una simile prospettiva i filosofi parteciperebbero, sia pure in modi tortuosi e tutt’altro che rapidi, a riformare in meglio la società. Quali sono le modalità concrete tramite le quali un certo tipo di filosofia politica ritiene di influire sulla realtà politica più ampia?
Finlayson ne menziona tre: la – assai rara – partecipazione diretta di studiose e studiosi ad attività istituzionali (in qualità di consulenti ufficiali, componenti di comitati governativi e così via); la formazione di futuri policy makers, prevalentemente tramite l’insegnamento universitario (l’opzione certamente più enfatizzata nel contesto britannico da cui Finalyson scrive); il graduale cambiamento dell’opinione pubblica grazie alla progressiva assimilazione delle idee dei filosofi nel dibattito generalista (per mezzo delle due strategie precedenti o di occasionali interventi e discussioni di taglio filosofico nei mass media). Il procedimento secondo cui quest’ultimo passaggio dovrebbe avvenire è estremamente gerarchico: “L’influenza sull’opinione pubblica è concepita in modo da essere ricondotta all’interno di una visione del cambiamento sociale che avviene dall’alto verso il basso: i filosofi politici influenzano un’élite, alcuni dei cui membri trasmetteranno tale influenza alla popolazione. Così come nel caso dell’ipotesi neoliberale secondo la quale la ricchezza “sgocciolerà” [trickle down] dalla cima al fondo della società, l’idea sembra qui essere che la saggezza dei filosofi politici percolerà nelle menti di chi ricopre incarichi politici, nelle strutture politiche esistenti, nella cultura pubblica e, in forma diluita, nella coscienza confusa e distratta delle masse, che a quel punto reimmetteranno la saggezza assorbita nella macchina politica sotto forma di schede elettorali”.
Tre aspetti particolarmente problematici emergono da questa puntuale ricostruzione. Il primo è un notevole minimalismo: l’unico rapporto della filosofia con la politica nella sua accezione più diretta consisterebbe in una remota e lenta attività di condizionamento che gli studiosi di questa disciplina eserciterebbero, secondo un andamento top-down, sulle diverse componenti del sistema rappresentativo – attività nella quale ad ogni “sgocciolamento” potrebbero avvenire dei fraintendimenti, delle mutazioni, delle modificazioni del “messaggio” che filosofe e filosofi avrebbero in origine voluto trasmettere. In quest’ottica, il sapere filosofico è totalmente incluso nelle dinamiche istituzionali vigenti e finisce per legittimarle – il cambiamento sociale sarà così necessariamente un processo lento, il ruolo delle élite governative e non nell’elaborazione del senso comune verrà naturalizzato e via proseguendo.
Il secondo aspetto critico riguarda una sorta di disconnessione con una realtà politica che non ci restituisce un cauto e inesorabile progresso nelle condizioni di vita delle persone, ma un aumento vertiginoso delle disuguaglianze. Se davvero, come spesso si ripete, praticamente tutti i membri del governo del Regno Unito hanno avuto modo di leggere John Rawls, il teorico della giustizia come equità, nel corso dei propri studi (lasciando intendere che avrebbero pertanto assimilato alcuni elementi del suo pensiero), uno sguardo anche distratto alla realtà socio-economica di quel paese, in cui negli ultimi decenni si è ad esempio verificata una drastica polarizzazione della ricchezza in favore di una quota molto ridotta della popolazione, porterebbe a farsi un’opinione tutt’altro che lusinghiera dell’eredità del filosofo statunitense.
I filosofi, con buona pace della loro pretesa di obiettività, sono oggi spesso succubi delle ideologie politiche dominanti e si limitano a legittimarle con il proprio lavoro.
Infine, nonostante la portata per molti aspetti minimale di questa lettura dell’interazione fra filosofia politica analitica e vita politica di una data società, essa si caratterizza per un allarmante livello di narcisismo: ci presenta i filosofi politici come creature semi-mitologiche immerse in una specie di vuoto dal quale elaborerebbero idee piene di saggezza per poi lasciarle graziosamente scivolare, tramite una serie di passaggi, in direzione delle masse incolte. Il presupposto implicito è una visione fortemente verticistica e unidirezionale del rapporto tra teoria e prassi, che dietro all’apparente modestia della prima rispetto alla sua capacità di poter influire solo “una goccia alla volta” sulla seconda nasconde ambizioni vagamente prometeiche sul fatto che la pratica politica non possa fare a meno della teoria, ma non il contrario.
La tesi di Finlayson è che al di là di queste malcelate illusioni sull’influenza della filosofia politica analitica ci sia un rimosso – e cioè il fatto che i filosofi, con buona pace dei loro sogni di obiettività, sono oggi spesso succubi delle ideologie politiche dominanti e si limitano a legittimarle con il proprio lavoro. Un ruolo, questo, che a suo parere risulterebbe tanto conservatore quanto scarsamente necessario al mantenimento dei rapporti di potere nella società: le uniche persone a cui interessi qualcosa della filosofia politica ai giorni nostri sono coloro che se ne occupano.
Un’analisi di questo tipo si combina bene con l’osservazione della crescente standardizzazione della filosofia politica analitica dal punto di vista formale: ci si attende ormai che libri e articoli siano scritti in modo da risultare più chiari possibile al lettore non specialista, a costo di rilevarsi ridondanti o didascalici – introduzioni, conclusioni, sintesi in corso d’opera, parole chiave, esplicita rinuncia a termini troppo specifici: tutti testimoniano l’aspettativa che i testi filosofico-politici possano venire fruiti da un numero vasto di persone non addette ai lavori. Si tratta di un’aspirazione certamente lodevole, ma che fa completamente astrazione del contesto socio-economico in cui la distribuzione di tali opere avviene. Lo scarto tra l’ostentata inclusività di certi testi e una struttura editoriale con barriere d’accesso (economiche e linguistiche) tali da relegarli alla semi-clandestinità non è che una delle rappresentazioni più lampanti della distanza tra le aspettative, per quanto apparentemente umili, che i filosofi politici nutrono circa l’impatto delle loro fatiche e la reale irrilevanza di queste ultime.
Con queste considerazioni non intendo certo introdurre una qualche funzione di utilità nella valutazione delle opere filosofico-politiche, o anche solo accettare il presupposto per cui la filosofia dovrebbe servire a qualcosa – direi piuttosto che, se proprio si volesse trovare uno scopo a questa disciplina, sarebbe quello di sviluppare un sapere inservibile perché né servo né padrone di alcuno. La mia intenzione è invece quella di sottolineare il crescente iato tra la riflessione filosofica ed il presente inteso, sulla scia di Foucault, “come evento filosofico a cui appartiene il filosofo che ne parla” (Il governo di sé e degli altri) – questione di rilevanza ancor più immediata per quella parte della filosofia che definisce se stessa come politica. Foucault, come è noto, nel rivendicare il proprio presente come oggetto di studio e punto di partenza per l’elaborazione teorica non voleva difendere un’idea di intellettuale come colui o colei che “stabilisce leggi, propone soluzioni, profetizza” (Esperienza e verità). Si trattava invece di “fare un rilievo topografico e geologico della battaglia”, cioè “dare strumenti di analisi” – mentre spettava agli attori politici stessi, “a coloro che lottano”, “di trovare il progetto, le tattiche, i bersagli che bisogna darsi” (Il discorso, la storia, la verità).
La filosofia continentale resta più sensibile all’interpretazione storica del presente ma si scontra con il venir meno di quella sfera culturale che per un certo tempo aveva fatto da tramite tra la speculazione filosofica e il dibattito politico.
Il riferimento a Foucault ci riporta a quello che, nonostante una tendenza globale contraria, è ancora il tipo di filosofia politica più diffuso nel nostro paese – che possiamo per semplicità definire continentale. Se il mio scopo fosse limitarmi a rinfocolare una vecchia – e mai del tutto sopita – querelle tra analitici e continentali, le considerazioni precedenti acquisirebbero un certo gusto antiquario – sono decenni che i filosofi, quelli politici probabilmente anche più di altri, si trastullano con questo dibattito, senza che ciò abbia prodotto nulla di particolarmente costruttivo. Credo che il punto sia, di contro, comprendere come la filosofia politica continentale resti sì più sensibile, anche per una sua tradizione storica, all’interpretazione storica del presente, ma debba fare i conti da un lato con gli stessi ostacoli editoriali fronteggiati dal pensiero analitico e dall’altro dalla tendenziale scomparsa di una delle più importanti condizioni di possibilità della sua rilevanza pubblica. Mi riferisco al progressivo venir meno di quella sfera culturale che per un certo tempo aveva fatto da tramite tra la speculazione filosofica e il dibattito politico: l’ampia cerchia di giornalisti culturali, editori, divulgatori che ancora negli anni Settanta o Ottanta consentivano, con tutte le distorsioni e gli arbitri del caso, di far circolare determinate idee filosofiche (il più delle volte direi anche filosofico-politiche) in settori dell’opinione pubblica che pure non erano soliti confrontarsi con esse.
I filosofi stessi, dal canto loro, erano parte integrante di questa vasta cornice intellettuale, avventurandosi volentieri su terreni non squisitamente accademici. Oggi il New Yorker assegnerebbe difficilmente un lungo reportage dall’estero ad una docente di filosofia politica, ma è esattamente quello che fece nel 1961 con Hannah Arendt, i cui articoli sul processo Eichmann in Israele sarebbero poi stati racchiusi in uno dei saggi più letti dal secondo dopoguerra – La banalità del male. Analogamente, i lettori odierni del Corriere della sera resterebbero sorpresi nell’apprendere che durante la rivoluzione iraniana del 1978-1979 Foucault lavorò per il quotidiano (e per altre testate francesi) in qualità di corrispondente da quel paese.
Sia il testo di Arendt che gli articoli di Foucault erano per certi versi estremamente discutibili, e non a caso suscitarono riflessioni, repliche e polemiche talora accese e di lunga durata – ma proprio questa loro capacità di generare delle controversie nell’opinione pubblica nel suo complesso è la testimonianza di un’epoca non così remota in cui la prospettiva dei filosofi sull’attualità aveva un impatto rilevante su come essa veniva percepita dal resto della società e non solo da altri studiosi. Un aspetto fondamentale di questi lavori atipici lasciatici da Arendt e Foucault è che, pur non avendo ovviamente la forma e lo stile dei testi filosofici, leggendoli si percepisce qualcosa che eccede nettamente la dimensione giornalistica: non si tratta semplicemente di cronache o editoriali scritti da pensatori politici, ma di documenti in cui la filosofia politica dimostra di avere un contributo specifico da apportare a tipi di riflessione e di scrittura anche distanti dal suo habitat naturale.
Se la delusione è davvero uno degli inneschi del pensiero filosofico – e se veramente una delle manifestazioni principali di questo sentimento ha una connotazione politica, se deriva sul serio da una sorta di disappunto radicale per l’andamento del mondo –, la filosofia politica dovrebbe oggi probabilmente rivolgere una parte di quella delusione contro se stessa, contro la sua crescente incapacità, al di là di lodevoli eccezioni, di essere qualcosa di più di un discorso iniziatico. Foucault in una celebre intervista parlava della filosofia come di “una specie di giornalismo radicale”, di un’attività che ci aiuti a porre “la questione dell’oggi”. È una strada da tornare a percorrere.
Estratto da Tempo presente. Per una filosofia politica dell’attualità di Franco Palazzi (Ombre corte, 2019).