I n un periodo di clamorosa indifferenza degli artisti per la politica e le sue nefandezze, è il momento di ricordare Live at the Brixton Academy degli Atari Teenage Riot, uscito nel 1999: un atto di presa di coscienza e di radicalismo che ha ancora da dire.
Negli anni Novanta, i tedeschi Atari Teenage Riot sono stati una bandiera degli squat berlinesi, degli attivisti anti-nazi. I loro testi “da megafono”, prevalentemente anglofoni, erano infarciti di proclami anarco-insurrezionalisti. Uno dei loro primi brani, “Hetzjagd Auf Nazis!“ ovvero Hunt Down the Nazis in tedesco, recitava senza mezzi termini: “The ninth shot went directly through the forehead”. In “Start the Riot” (1995) gridano “Start the riot now! Fight! War! Fire! Violence! Death! Police! Tv! Fuck you!”. D’altronde la band si era costituita per motivi sociali precisi (e ancora oggi di triste attualità): “Gli ATR sono stati una reazione immediata agli sviluppi politici in Germania. Mentre il lumpenbourgeois occidentale rivendicava l’est con promesse di verdi pascoli e sventolando bandiere tedesche, a Rostock e Hoyerswerda i razzisti appiccarono il fuoco ai rifugiati, che, come risultato perverso, ebbero gravi restrizioni legali al diritto di base di asilo. Questi incidenti mi hanno sconvolto profondamente” (da un’intervista ad Alec Empire su Electronic Beats, 2014).
Gli Atari Teenage Riot si scagliano contro la repressione e spingono l’acceleratore su riflessioni apocalittiche e post-mondo come in “The future of War” (the future of war! / come on down to the end of the future / we not gonna make it another day / fighting the fight we have to fight / you not gonna make me run anyway!) o fieramente anticapitaliste come in “Get Up While you Can” (if you’re just here to consume the new hippness – forget it!/ everything is still the same!/ global changes have been made but the enemies stayed! Get up while you can get up!). Entrambi i brani sono del 1997, anno in cui gli ATR sono nel proverbiale stato di grazia e si sentono pronti ad affrontare tutto e tutti senza compromessi.
L’impianto politico dei testi è condito da musiche originalissime, nate per contrastare la deriva nazi della techno tedesca: per fare questo, come in un vero melting pot, mischiano hip hop, campioni Jungle e gabba da videogioco, riff di chitarra rubati agli Slayer, sbrattate Detroit e otto bit e chi più ne ha più ne metta, usando macchine obsolete e a costo zero (appunto, l’Atari 1040) mandando tutto a bpm sui 170 bpm e rotti, influenzati probabilmente dall’uso di anfetamine e derivati (il singolo “Speed” già dal titolo parla chiaro: “Drug abuse to the future”, “the pills are ready to be dropped”).
Insomma la voce di una “generazione zero” che Alec Empire, Carl Crack e Hanin Elias rappresentano appieno. Epocale l’uscita dal vivo durante la manifestazione del primo maggio 1999 a Berlino, documentata in questo video, quando nel bel mezzo delle cariche della polizia incitano la folla tedesca a reagire finché gli sbirri non sono costretti a fuggire. Naturalmente non la passano liscia e vengono arrestati subito dopo l’esibizione, a sottolineare che quanto dichiarato nelle interviste – il bisogno di fare un tipo di musica che inciti alla violenza contro il potere perché non c’è altro modo di contrastarlo – è concreto e tutt’altro che ingenuo. “In The Electronic Revolution (1970), William S. Burroughs descrive come i nastri fatti col cut-up trasformano i suoni in armi politiche. Riassume il suo approccio con un’immagine potente: effetti sonori da sommossa possono provocare una vera sommossa in condizioni di sommossa. Le registrazioni dei fischi della polizia attirano le pattuglie. Le registrazioni di colpi di pistola, fanno uscire le pistole. Gli Atari Teenage Riot si basano su questa idea” (sempre dall’intervista ad Alec Empire su Electronic Beats, 2014).
A differenza di quello che accadeva in Italia coi 99 posse (che spesso nelle interviste sui giornali ricalcavano in maniera palese l’atteggiamento degli ATR, ergendosi a capipopolo musicali che incitano alla rivolta, quasi seguendo a fotocopia i loro colleghi tedeschi ma senza averne a nostro avviso la caratura), gli ATR erano credibili anche nelle loro espressioni più imbarazzanti: nel picco della loro popolarità, proprio nel 1999, potevano far finta di non assumere droghe senza apparire ipocriti, potevano permettersi di andare su MTV a dire “fanculo il capitalismo” senza rendersi troppo ridicoli. Avevano, insomma, stile.
Ma non tutte le ciambelle riescono col buco, e gli ATR finiscono con una major già nel 1993, dopo le prime demo autoprodotte del 1992, anno della fondazione. La Phonogram gli pubblica due singoli: per quello che era l’orientamento politico della band questo evento equivale a un mezzo suicidio. Mezzo, perché i nostri accettano il contratto nella prospettiva segreta di fare soldi per aprire una loro label indipendente, quella che poi diverrà la Digital Hardcore, prendendo un cospicuo anticipo per un album intero di inediti che non consegneranno mai al committente.
Se all’inizio la fondazione della Digital Hardcore rappresenta di fatto la nascita di un genere musicale a sé dal medesimo nome, ovvero la versione aggiornata dell’hardcore punk storico in chiave post rave e elettronica DIY “confrontational” (non disdegnando spruzzi di crossover), quello che segue è al contrario un auto-sabotaggio tanto dichiarato quanto inconscio, il che implica una spirale di contraddizioni che alimentate ottengono solo un risultato paradossale: il successo commerciale. Infatti, dopo l’exploit dei primi dischi su Digital Hardcore – gli ottimi Delete Yourself (1995) e The Future Of War (1997), sostenuti tra l’altro dalla distribuzione dei Beastie Boys e dalla loro Grand Royal – i nostri raggiungono la popolarità durante la pubblicazione dell’album 60 Seconds Wipeout.
Ma la band, forse proprio a negare l’evidenza, comincia a comportarsi come la caricatura di se stessa indugiando appunto in un estremismo esasperato e poco credibile: perfetto solo per adolescenti in vena di contrastare i genitori. Anche gli schemi musicali cominciano a stancare e l’inserimento di un elemento come la misconosciuta noise designer giapponese Nic Endo, dal suggestivo look stile mistress e dalla notevole cattiveria, per quanto inaspettato non riesce a spostare l’attenzione dalla pochezza della proposta. Tanto che anche siti come Allmusic si espressero così sul disco; “ha tutti gli ingredienti che i fan si aspettano dal loro gruppo preferito di elettronica anarco-hardcore”, il che significa aver raggiunto un livello di prevedibilità molto alto. I testi, da oneste e dirette accuse al sistema non prive di introspezione (“Delete Yourself! You got no chance to win! The shit, the shit is gonna make me sick” – Delete Yourself, 1995), si trasformano in slogan quasi vuoti di senso: “it’s time to live and it’s time to die!/ It’s time to live – Revolution Action!” (da Revolution Action, 1999) e i loro concerti una roba da circo di “facinorosi per contratto”.
All’inizio la fondazione della Digital Hardcore rappresenta la nascita di un genere musicale a sé, ma quello che segue è un auto-sabotaggio con un risultato paradossale: il successo commerciale.
Insomma, fare l’estremista negli anni Novanta paga: grazie ai tanti passaggi televisivi gli ATR raggiungono infatti due traguardi importanti per un gruppo indipendente, per giunta tedesco: diciassettesimo posto nella classifica britannica e trentaduesimo posto su Billboard. Ma è proprio nella fase clou della band che accade l’imprevisto che rimette in piedi tutta la baracca e nello stesso tempo la chiude con dentro tutti i burattini (si scioglieranno presto, nel 2001).
Live at Brixton Academy nasce infatti poco dopo il Revolution Action World Tour, il tour promozionale di 60 Seconds Wipeout, come una data ulteriore a supporto dei Nine Inch Nails. Per resistere alle tentazioni del successo e del business, in quel periodo gli ATR tendono a caricare sempre più il concetto di terrorismo e bad life a tutti i costi senza se e senza ma, entrando quindi da una parte in una paranoia autoindotta, e quindi di conseguenza dall’altra in una pantomima scarica. Dal vivo basta vederli: sembrano le persone sbagliate nel posto sbagliato, la Elias fa smorfie del viso finte come una moneta bucata, si agitano e fanno casino come se fossero programmati, costretti dalla routine ad evocare una rivolta quando invece sono stanchi.
A un certo punto però questa rigidità comportamentale del “riottoso a tutti i costi” non tiene più, come un palazzo in cemento durante un terremoto. Il medico consiglia ai ragazzi di smettere immediatamente di fare concerti se vogliono salva la pellaccia, sfiancati come sono dall’abuso di droghe e dal continuo stress dei live: Alec Empire va avanti ad ansiolitici, codeina e antidolorifici, la Elias non fa altro che sputare sangue e vomitare sul palco, Carl Crack tenta addirittura il suicidio cercando di buttarsi dall’uscita d’emergenza di un aereo in decollo, e proprio durante il tour gli viene diagnosticata una psicosi. È evidente che il giocattolo si è rotto a causa del loro titanico masochismo narcisista (basti pensare che i medici avevano proibito proprio dall’inizio di partire per qualsiasi tour, consiglio ovviamente rifiutato fino alle estreme conseguenze di non riuscire a reggersi in piedi). E gli stessi ATR arrivati a questo punto si rendono probabilmente conto di essere diventati parte della società dello spettacolo, così come è chiaro che l’avventura deve concludersi prima di essere ricordata esclusivamente come un prodotto in serie per giovani cresciuti a patatine fritte e MTV.
Arriva dunque il capolinea: l’istinto di sopravvivenza che nasce dalla disperazione di essere al limite fisico psichico, e la visione delle rivolte di Seattle sugli schermi del loro albergo londinese prima del concerto alla Brixton, come raccontato proprio da Empire nel retrocopertina, portano il gruppo alla realizzazione che non si può più andare avanti con il classico show. Quella stessa sera decidono di suonare un set di noise puro. La prestigiosa Brixton Academy, stracolma, attende i loro paladini, nel pieno dell’hype. La gente si aspetta un gruppo capace di farli ballare e gridare con i loro brani più in voga, diciamo una valvola di sfogo per ragazzetti barricati in cameretta. Il concerto inizia proprio come sperato ma improvvisamente succede un macello: la struttura degli ipotetici brani sparisce e diventa tutto una poltiglia di harsh noise pesantissimo, ispirato senza dubbio dagli sfasci sonici di Merzbow, degli Incapacitans, degli Hjokaidan e dalla produzione solista della amazzone Nic Endo.
Sul pubblico si abbatte il crollo nervoso di quattro individui che si sono stufati e si ribellano a se stessi e alla loro immagine ma soprattutto a un pubblico che è percepito come un’orda che si compiace a guardare delle scimmie allo zoo. È un orrore sublime, un cazzotto in pancia a un audience che reagisce inorridita, tanto che molti fan si strapperanno di dosso le magliette degli ATR con disprezzo, calpestandole e tirandogliele sul palco. Una punizione corporale di ventisette minuti, in un caos primordiale e borderline tra sirene furiose, esplosioni sintetiche e urla di macchinari impazziti.
Un gesto politico, forse il più autentico, di una band che non vuole più giocare al gioco del marketing e del culto della personalità del rock. La genesi di questo concerto, illustrata da Empire sempre nelle note di copertina, è infatti la seguente: partire dalla normale fine dei loro concerti e arrivare all’inizio, per sottolineare che non c’è inizio né fine, il tutto riassunto in quel commovente “the time is right to fight”, che giunge sgretolandosi in chiusura dell’esibizione ad annunciare un deserto silenzioso di sopravvissuti sulla terra dopo un attacco nucleare.
Termina in questo modo, con la pelle d’oca, un’opera che è quasi tutta la summa della musica estrema: a parte i rumori bianchi e il disastro sonoro, anche sequenze random senza capo né coda, vuoti sconvolgenti e ingiustificati, assoluta noncuranza per la forma e una qualsiasi costruzione logica, errori di sintetizzatori stanchi di funzionare, batterie elettroniche che nonostante la decostruzione mantengono un ritmo alieno che è quello di un cuore verso l’infarto. Così come Carl Crack si inventa un freestyle vocale infilato nel vocoder che ne annulla l’esperienza umana portando a una scissione emotiva tra volere e potere, e non essere ma esserci per forza, come se il mondo fosse una gabbia.
È un po’ come quando Nono nel 1975, eseguendo in pubblico la sua “Fabbrica illuminata”, si beccò le proteste degli operai: in questo caso la riflessione è sul fatto che bisogna sfruttare la forza politica contraddittoria del sentirsi pieni di rabbia e nello stesso tempo privati di forze sufficienti a combattere (come in pratica si sentiva Nic Endo prima di cominciare il live, in una confessione privata ad Alec Empire riportata nelle note di copertina) anziché creare dei miti e degli eroi che sono una faccia della stessa medaglia che si vuole distruggere.
A livello musicale si traduce in un vero e proprio virus sonoro, che entra nelle crepe di quello che il luogo comune intende per “rivolta” e “sistema”. Bisogna dunque ripulirsi e sfogare il proprio dolore fisico e psichico per poter ripartire verso una lotta più concreta, inedita, di cui non si conosce ancora l’efficacia ma che nel suo muoversi è già azione diretta. E in questo senso l’elemento chiave di questo concerto è proprio la Elias che non essendo assolutamente in grado di salire sul palco a tutti gli effetti non ci salirà, rimanendo in albergo. Il canto del cigno prima di un ultimo singolo, “Rage”, con Tom Morello dei Rage Against The Machine come ospite, nel 2000. La morte di Carl Crack per overdose, l’anno dopo, renderà chiaro che la “rabbia” è davvero terminata.
Gli ATR avranno però la brutta pensata di riformarsi nel 2009 e dare da quel momento alle stampe un paio di album che, con alti e bassi e timidi tentativi di rinnovarsi, saranno comunque schiavi di un modello precostituito che ritorna indietro nel tempo in maniera perniciosa (il fatto di sostituire Carl Crack praticamente con un suo clone, Cx Kidtronik, è un termometro chiarissimo di come stanno le cose).
La critica musicale rispetto a Live at Brixton sarà, più che divisa, quasi assente: alcuni lo ritengono uno scherzo, come Select che gli darà un voto su cinque, altri come Drowned in sound lo definiranno un pallido tentativo di raggiungere le dimensioni ipertrofiche di attacco rumoristico dei noiser giapponesi e per questo piuttosto risibile, altri invece come NME lodano il lavoro con un 11/10 surreale e forzatissimo nonché sospetto, quando dargli un 4 avrebbe probabilmente significato che gli ATR avevano davvero centrato in pieno l’obiettivo. Alec Empire ne darà una visione non solo parziale, ma addirittura megalomane e quasi ridicola dichiarando nelle note di copertina che “nessuno fino ad oggi ha prove che ci sia mai stato un concerto noise di questa scala nella storia della musica”, che sarebbe come dire che i marziani esistono perché nessuno può provare la loro esistenza.
Ma in effetti che prove abbiamo a proposito dell’effettiva importanza di molta musica blasonata nelle nostre vite? Quanti grandiosi act nella storia della musica non hanno avuto il tempo di essere scoperti a dovere perché non sostenuti dal potere costituito proprio perché rilevanti? Nel suo avere pochi eredi (e però i primi Wolf Eyes e Pharmakon la lezione l’hanno imparata bene) il succo di Live at Brixton Academy è questo: riusciamo a sovvertire questo stato di cose solo facendo leva sui limiti, usando le nostre debolezze come un’arma paradossalmente disarmante.
“Nessun paese industrializzato è mai diventato comunista. Se c’è una rivoluzione, è quasi sempre una rivoluzione fascista. Se vanno in qualche direzione, al massimo diventano fascisti”. Lo diceva ancora una volta Burroughs a proposito della situazione politica in America, cartina da tornasole del mondo: quindi forse la chiave di Live at Brixton Academy è saper fare a meno della rivoluzione per sostituirla con una metarivolta, mutante e imprevedibile come i suoni che lo contengono.