G li esseri umani hanno sempre avuto un rapporto conflittuale con i gatti domestici. Li amano e li odiano, allo stesso tempo. Li abbiamo addomesticati perché erano un’arma letale contro i roditori che insidiavano i granai e le case, li abbiamo adorati ai tempi dell’antico Egitto, li abbiamo sterminati in epoca medioevale, quando venivano associati col demonio, li abbiamo portati con noi in tutto il mondo, abbiamo ripreso ad adorarli all’epoca dei social media, postando ovunque le loro foto. Il motivo di un sentimento così ambivalente è difficile da stabilire, ma sembra certamente che proiettiamo su di loro emozioni e sensi di colpa: il loro ruolo oramai è ben al di là del semplice cacciatore di topi.
Al momento la popolarità dei gatti, almeno in alcune zone del pianeta, sembra essere in declino: l’Australia per esempio ha dichiarato guerra ai felini lanciando una campagna per eliminare 2 milioni di gatti tra il 2015 e il 2020, stanziando 5 milioni di dollari allo scopo. Nello stato del Queensland c’è addirittura una taglia di 10 dollari australiani (circa 6.30 euro) per ogni “scalpo” di gatto adulto e 5 per ogni pelle di gattino. Già che ci sono, pagano anche 30 dollari per un dingo e 10 per una volpe.
Il motivo dichiarato di questa caccia è l’impatto dei gatti sulla fauna locale. Uccelli, piccoli marsupiali e roditori si sono evoluti sul continente competendo solo con marsupiali carnivori, molto più lenti di un gatto, o con grossi uccelli, oramai quasi tutti estinti anche loro. Secondo quanto scrive il governo australiano, i gatti sono una minaccia diretta per 35 specie di uccelli, 36 di mammiferi, 7 di rettili e 3 di anfibi, e hanno contribuito all’estinzione di un numero imprecisato di mammiferi e di uccelli nelle zone aride. Nello stesso documento – che non cita fonti per verificare questi numeri – si dice anche che i gatti sono stati portati dagli europei in Australia “sin dal Diciassettesimo secolo”. I primi arrivarono però nel Diciottesimo secolo, precisamente nel 1788, a bordo della Prima Flotta, le 11 navi inglesi che diedero il via alla colonizzazione dell’Australia. Servivano, nel viaggio, a occuparsi dei ratti sulle imbarcazioni.
Che i gatti siano un problema nelle piccole isole è un dato di fatto, che siano la minaccia maggiore per gli ecosistemi australiani è invece abbastanza discutibile.
Che i gatti siano un problema nelle piccole isole e in continenti dove le prede non si sono coevolute con loro è però un dato di fatto, incontrovertibile, su cui la letteratura scientifica non ha dubbi. Che i gatti siano la “maggiore singola minaccia per gli ecosistemi australiani” invece è abbastanza più discutibile. La frase è di Gregory Andrews, il Commissario per le Specie a Rischio australiano che ha messo su l’intera crociata anti gatto. Il ruolo di Commissario per le specie a rischio è stato creato specificamente per Andrews da Greg Hunt, ex ministro per l’ambiente, nel 2014. Solo che Andrews non è un esperto di conservazione, e neanche di gatti.
È un ex burocrate ministeriale, ex consigliere di politici di centro-destra, in particolare dell’ex primo ministro Howard, che concluse la sua carriera politica con accuse di razzismo nei confronti degli aborigeni. Con l’aiuto di storie mai dimostrate e messe intenzionalmente in giro da Andrews, Howard commissionò un rapporto su presunti abusi sessuali tra le comunità aborigene. Analisi successive rivelarono come l’intera storia fosse un tentativo di controllo dei territori aborigeni. Di Andrews non abbiamo poi saputo molto altro, fino al giorno in cui ha deciso di eliminare 2 milioni di gatti.
Senza alcuna esperienza in gestione della fauna, l’approccio di Andrews al problema gatti è stato quello dello sterminio. Il sistema è stato criticato anche dagli esperti australiani di conservazione. Non perché i gatti non siano un problema in Australia, ma perché il metodo utilizzato ha degli oggettivi limiti gestionali. Per esempio, all’epoca di attuazione del piano il numero di gatti era stato sovrastimato sino a 18 milioni: contare gatti ferali su un intero continente è veramente difficile, ma senza stime è un azzardo dire quanti gatti andrebbero soppressi. Inoltre il piano non si concentra sulle aree sensibili dove c’è fauna da proteggere, e non offre recinzioni o altri sistemi per la prevenzione a lungo termine, ma colpisce a caso. Ammazzare gatti randagi a Sydney tuttavia non è equivalente ad ammazzare gatti ferali in un parco nazionale, è solo molto più facile. Il piano non conta di eliminare i gatti, ma solo di ridurne i numeri, quindi non è chiaro come si preveda di agire dopo il 2020, quando il numero di felini tornerà pian piano a risalire anche nelle aree protette.
In questi primi quattro anni di programma governativo, il target non sembra esser stato raggiunto. Nel primo anno del progetto il Royal Melbourne Institute of Technology ha stimato l’uccisone di “solo” 211.560 gatti. Una fiorente letteratura sull’argomento dimostra che le taglie sulle specie alloctone non funzionano, e sono semmai controproducenti. È quindi improbabile che quella sulla testa dei gatti australiani possa sortire alcun effetto demografico. Per ovviare al problema, Sally Box, la nuova commissaria per le specie a rischio che ha sostituito Andrews nel 2018, ha messo in atto la fase principale del progetto: uccidere i gatti lanciando dagli aerei salsicce avvelenate su tutto il territorio nazionale. Se la logistica generale era pensata male, la strategia sembra essere pensata peggio e messa in atto in modo ancora peggiore.
Il governo che ha posto in essere la soppressione dei gatti ha anche dato una spinta ulteriore alla perdita di centinaia di migliaia di ettari di foresta l’anno.
Il progetto originale del 2014 prevedeva che le salsicce avvelenate contenessero una tossina chiamata Para-aminopropriofenone, o PAPP, che agisce nel giro di 2 o 3 ore bloccando il legame tra ossigeno ed emoglobina, per cui spesso gli animali semplicemente si addormentano. E invece il governo australiano ha optato per una tossina chiamata 1080, non considerata un sistema accettabile dalla RSPCA (Royal Society for the Prevention of Cruelty to Animals). La morte arriva lentamente, impiegando anche 10 ore, tempo in cui gli animali soffrono, vomitano, hanno convulsioni. Le salsicce vengono preparate con carne di canguro, grasso di pollo, erbe, spezie e una sferetta che si scioglie nello stomaco e contiene il veleno. Il problema è che il 1080 non è selettivo perché blocca una via metabolica fondamentale di tutti gli esseri viventi, il ciclo di Krebs.
Chiunque entri a contatto col 1080 e lo assuma, dai licheni ai canguri, si intossica e probabilmente muore, in base alla dose assunta. Indubbiamente specie differenti reagiscono in modo differente, ma il problema è: quanto 1080 deve assumere un essere umano per morire? La risposta non è nota, perché ovviamente la sostanza non è mai stata somministrata agli esseri umani. Che succede se un bambino inghiotte una delle sferette destinata ai gatti? O magari se la ingoia un bandicoot, o un quoll, o un antechino, o uno qualsiasi dei piccoli (e rari) marsupiali carnivori che si vuol proteggere, o un insetto, un uccello, un erbivoro? Sembrerebbe che il governo australiano abbia deciso che Sansone debba morire con tutti i Filistei, al ritmo di 50 salsicce avvelenate al chilometro quadrato. Oltre al danno, la beffa: le salsicce al veleno sono chiamate ufficialmente “Curiosity” perché è ben noto, come da proverbio, che la curiosità uccise il gatto. I felini poco curiosi, d’altronde, rischiano di finire i loro giorni a fucilate: vale tutto.
Quello che gli ambientalisti e gli esperti di conservazione temono è che più che salsicce per i gatti questi siano specchietti per le allodole. Mentre da un lato il governo è così ansioso di salvare gli uccelletti dalle grinfie feline, dall’altro distrugge l’ecosistema delle specie native a uno dei tassi più alti del pianeta. L’Australia orientale, Queensland in testa, lo stato che ha messo le taglie sui gatti, è una delle dieci aree del mondo col maggior tasso di deforestazione, l’unica in una nazione economicamente sviluppata. Il governo che ha posto in essere la soppressione dei gatti ha anche dato una spinta ulteriore alla perdita di centinaia di migliaia di ettari di foresta l’anno. Per non parlare dei danni agli ecosistemi causati dalle attività minerarie, della proposta di costruire enormi dighe che sconvolgerebbero i bacini fluviali, o di quella di versare un milione di tonnellate di liquami sulla grande barriera corallina.