C osa siamo poi, siamo quello che abbiamo fatto, quello che abbiamo letto, che abbiamo detto? Siamo quello che abbiamo ricevuto in eredità?”, si chiede il giovane Enrico Michelangelo; poco dopo la sua mente corre al padre che ha appena saputo di avere: “Sicuro Antonio Michelangelo c’ha pure una pagina Wikipedia”. Ecco l’associazione fondamentale che attraversa I fratelli Michelangelo di Vanni Santoni, tra quattro figli di tre madri diverse, Enrico, Louis, Cristiana e Rudra, che s’interrogano e cercano diverse vie di realizzazione nel mondo, e il padre Antonio, che si è realizzato in molti campi fino a diventare personaggio pubblico – partigiano, scrittore, regista, dirigente all’Olivetti, riconosciuto guru – e che ora li convoca per una misteriosa adunanza a Vallombrosa in Toscana. Da questo invito inizia la narrazione, incardinata su quattro brevi romanzi nel romanzo dedicati rispettivamente ai quattro fratelli.
Che cosa sarà l’eredità di cui parla Enrico rispetto al padre? Un patrimonio di valori e obiettivi? Un secco passaggio di denaro? Una transizione più astratta e laboriosa? Un’assenza da riempire? Agitando questi interrogativi rispetto a una figura paterna che diventa esemplare di un’intera origine italiana Santoni coglie uno dei temi cruciali della letteratura più recente. Gianluigi Simonetti, in un recente articolo sul Sole 24 Ore, ha ricordato una stagione di romanzi “di allontanamento” scritti da esordienti degli anni Settanta e Ottanta (Tondelli, Busi, De Carlo, Del Giudice) e ha rilevato, recensendo i recenti romanzi di Cristina Marconi e Claudia Durastanti, un ritorno di “sentimenti di estraneità alle radici e volontà di fuga. La migrazione torna a essere un tema narrativo centrale, mente sul piano stilistico maturano nuovi ripensamenti della lingua italiana”. Anche Santoni racconta una generazione di personaggi che – giocoforza – sono emigrati, ma interpreta questo movimento nel verso del ritorno, in una sorta di telemachia al contrario che muove verso un’ideale resa dei conti.
Tra le vite del padre e quelle dei figli, come si capisce nel corso della narrazione, c’è un puntuale contrappunto. Antonio sembra aver ottenuto in scioltezza tutto ciò che i figli hanno finora tentato con fatica e scarso successo di conquistare: amore, benessere economico, riconoscimento artistico, autorevolezza intellettuale. Per esempio Antonio ha avuto molte donne ed è autore studiato nelle scuole per il suo unico romanzo Serpi di Terrabassa, mentre Enrico si presenta come un seduttore sempre scontento, con la mania di contare le proprie ragazze, che a un certo punto ha una vocazione letteraria attingendo alla “libreria piccolo-borghese di materiali esplosivi” allestita dal padre, ma di fatto fa l’insegnante precario in un contesto deprimente. Louis va in India per mettere su un’impresa, investendo denaro paterno ottenuto in circostanze umilianti, ma l’impresa si rivela un imbroglio, il viaggio divaga in incontri grotteschi con guru poco credibili e la più immediata fonte di reddito gli appare lo spaccio di droga. Cristiana cerca di entrare nell’imponderabile mercato dell’arte contemporanea ma è da subito messa in ombra dal successo di una serie di incisioni del padre, e affronta poi un frenetico e frustrante inseguimento della trovata originale per riuscire a vendersi come artista dell’audiovisivo (ancora il magistero del padre, autore di un unico film, ma famoso al primo colpo). La crescita di Rudra è un percorso graduale di disimpegno e di accettazione della normalità, dalla rinuncia alla competizione sportiva fino al matrimonio in Svezia, un percorso in cui la conquista della saggezza sembra corrispondere a una scelta di non conflitto col modello paterno.
Poste queste premesse il lettore s’aspetterebbe che il romanzo di Santoni racconti una tensione, se non un risentimento: Antonio ha incarnato con successo diversi valori archetipi (amore, arte, industria, sapienza) attraversando momenti-chiave della società e della cultura italiana del Novecento (la Resistenza, il Boom economico, la riscoperta dell’Oriente) e mentre era occupato in tutto questo ha del tutto trascurato almeno un paio dei figli. Dal canto loro i figli, precari e sbalestrati per mezzo mondo, alla notizia della convocazione cominciano effettivamente a ragionare di una possibile malattia del padre, con conseguente eredità di denaro.
Antonio sembra aver ottenuto in scioltezza tutto ciò che i figli hanno finora tentato con fatica e scarso successo di conquistare: amore, benessere economico, riconoscimento artistico, autorevolezza intellettuale.
Del resto, ogni nostalgia affettiva è stata spenta dalla figura di Antonio, che quando la mamma di Louis gli chiedeva “solo un po’ di amore […] restava voltato a tre quarti e neanche la guardava”; che è stato sempre scostante e aggressivo-passivo (lite coniugale: “Non ti arrabbi mai”. “Mi sembra un fatto positivo”. “Qua basterebbe prendere una posizione. Fai il padre normale, per una volta […] A volte mi chiedo che valore ha, per te, questa casa. Questa famiglia”. “Già il fatto che me lo chiedi è, se vogliamo, offensivo”. “Se vogliamo… Sai cosa ti dico, invece di questa flemma calcolata, preferirei quasi che ti incazzassi a modino, una volta ogni tanto”); che con i figli è stato mai protettivo, talvolta irresponsabile, come quando porta i piccoli Cristiana e Rudra sull’aliante “ma il brevetto non ce l’ha e l’aliante gli sfugge”. Forse il vecchio sta finalmente morendo? O almeno ci sarà occasione di rinfacciarli i suoi torti, di misurare i suoi limiti?
Il testo qui interseca un’altra serie di precedenti nella letteratura recente (soprattutto di autori maschi), in cui il padre novecentesco è modello eccelso e castrante (da Vita e morte di un ingegnere di Albinati a Leggenda privata di Mari), se non carnefice (La ferocia di Lagioia), una figura che s’insegue per superarla o liberarsene (la serie è in continua crescita: Il fuoco amico dei ricordi di Piperno, Lo spregio di Zaccuri, Il passaggio di Grossi, Il tuo nemico di Vaccari, e così via). Ma una sorpresa del romanzo è che questa tensione si presenta soprattutto sotto forma di interrogativo, in cui raramente affiorano accenti accusatori o angosciosi; il tono è per lo più leggero.
Lo stesso stile è di elaborata levità. Santoni costruisce una struttura di flussi di coscienza che procedono lungo un intreccio di piani temporali, la cui complessità di fondo si risolve in una prosa rapidissima. Anche il mistilinguismo non costituisce ostacolo per il lettore, ma produce un coro di voci straniante in cui, tra dialettismi e lemmi stranieri, la lingua stessa sembra dichiarare una condizione di non appartenenza. In questo tessuto narrativo il padre non è preso di mira come polo di attrazione o repulsione, ma compare piuttosto per associazione di idee, sempre sfuggente e laterale. Ci si chiede se questa sia la messa in scena di una rimozione o piuttosto di un salutare distacco da un’eredità pesante. È qui, a mio avviso, il nodo tematico del romanzo.
Il luogo in cui questo nodo mi pare emergere con la massima pregnanza simbolica è una scena che si trova intorno a pagina 450 (chi voglia evitare gli spoiler salti all’ultimo capoverso). Le traiettorie dei figli convenuti a Vallombrosa, per una serie di circostanze accidentali, convergono verso la villa di Antonio Michelangelo. Enrico si è innamorato di Nicoletta, l’ultima compagna del padre, che lo accoglie spensierata in un rapporto edipico e lo porta proprio in casa di Antonio che dorme. Gli altri sono accorsi sulle tracce di un gruppetto di ladri che vogliono irrompere nella proprietà. Queste premesse, accennate con tocchi rapidi, innescano una scena che scuote la credulità del lettore: una mischia tra i figli e gli invasori combattuta con arnesi di fortuna.
Il romanzo sembra voler rappresentare, nelle vite dei quattro giovani Michelangelo, un diverso modo di sottrarsi al rischio dell’eredità paterna (e dell’origine in genere).
Come accade in molti film in cui i buoni sgominano i cattivi, nessuno si fa male seriamente e i ladri sono messi bonariamente in fuga. Ma i lettori di Santoni – che abbiano letto i suoi romanzi fantasy e La stanza profonda – rileveranno qui un’apertura ipertestuale che invita a riflettere: i figli riuniti al piano di sotto della casa in cui il padre dorme non stanno forse impersonando gli eroi di un gioco di ruolo, come bambini che ancora giocano nel seminterrato? Questa violenza accennata e semiseria contro terzi, che libera la tensione repressa nel momento in cui i figli accedono finalmente allo spazio intimo del padre – la donna, la villa di proprietà –, non è un singolare rovesciamento della loro quest? Invece di una resa dei conti, la difesa del papà che riposa al piano di sopra e che non ha ancora detto o fatto nulla per giustificare le sue mancanze.
La singolarità di questo episodio risalta ancor di più se si segue una delle tante indicazioni metatestuali disseminate nel libro, banalmente il titolo, e si va dai Michelangelo ai Karamazov e da questi al Freud di Dostoesvskij e il parricidio. In breve: non lo si ammazza (simbolicamente) questo Padre? E non è questa la rappresentazione di una resa, di un’incapacità di emanciparsi?
Questa è stata la mia prima impressione del testo, ed è certo una lettura possibile. C’è qualcosa di antieroico che può risultare deludente nei fratelli Michelangelo, soprattutto nelle sezioni su Enrico e Louis, che viaggiano in un altrove geografico-culturale (Israele, India, Indonesia) senza che questo laceri mai il filtro dei loro sguardi italiani, per cui se ne tornano dalle peripezie senza nessun allargamento di orizzonte, con un repertorio affatto immutato. L’India, per esempio, è un’India disincantata, che pure esiste, ma nel racconto di Louis si riduce ai termini ormai macchiettistici di un immaginario consumato, che va dai viaggi ipnotici dei giovani degli anni Settanta ai film con Massimo Boldi e Christian De Sica:
Chissà se il mio, di padre, è passato di qua nel suo giro… Ma no, ce ne saranno mille, di posti simili… Il baba ancora non si vede ma almeno si fuma. Su di un tappeto, si fuma. Ci sono questi due devoti, o mistici di terza fascia, vai a sapere, una ditata di benedizione grigia tra le sopracciglia, spalle avvolte in coperte, che sbudellano sigarette, scaldano pezzi di charas, impastano e impastano. E Carlo c’ha sta cosa: che fuma. Lo puoi far fumare quanto vuoi, lui va a dritto. E questi, non c’è da preoccuparsi, caricano cylum su cylum, anche Ramesh gli passa un pezzotto che si era portato, lo mettono su un legnetto o sulla coda di un fiammifero, ne accendono altri due, assieme, con un movimento per niente occidentale, li mettono sotto, sciolgono, impastano, caricano, sparano. Carletto ciuccia da quei tubi manco avesse sei polmoni. Io al secondo tiro fatto bene svariono duro, eccomi infatti (quando mi sono alzato? pure il tempo è diventato capriccioso) che cammino su un sentiero lastricato di tegole e piastrelle da bagno spaccate mentre screpuscola, siamo al vedersi da fuori, madonna, e questo – aspetta – che cazzo è, bom, un elefante, così nel muso. Scenette che manco in Natale in India mischiato con Cheech & Chong… Ce la farò a raggiungere il cesso? Che poi: veramente volevo andare al cesso? E chi lo sa… Chissà se veramente volevo venire qua, poi…
“Ciò che hai ereditato dai padri/Riconquistalo, se vuoi possederlo davvero”, esclamava Faust insonne nel suo studio. E invece no, si fuma e si torna uguali a prima. A tratti ho provato disagio per l’inconcludenza dei protagonisti.
Poi mi sono chiesto non sia un obiettivo dell’autore frustrare l’aspettativa che quella tensione verso il padre trovi un esito glorioso. In effetti con l’andare avanti del libro, anche per l’entrata in primo piano di Cristiana e Rudra (l’artista che non rinuncia alla sua ricerca e il saggio che si libera dagli investimenti), s’impone un’altra chiave di lettura. Santoni, scegliendo la via della commedia, sembra voler neutralizzare la domanda sul padre, come rispondendo: “no, il padre non è stato (simbolicamente) ucciso, ma questa non è una resa“. Conclusione che suona ancora più spiazzante quando Antonio Michelangelo finalmente prende la parola e si rivela un personaggio la cui autorevolezza è discutibile (“sei un bluff, lo capisci? Un bluff!”, gli griderà la moglie), per certi versi un impostore, certo un uomo che si scrolla di dosso ogni carico di responsabilità e ogni ruolo di guida. La mente corre all’orda dei primitivi di Totem e tabù, che ritualmente uccidono il padre e istituiscono una nuova società: “Un certo giorno i fratelli scacciati si riunirono, abbatterono il padre e lo divorarono”. Ma la scena del parricidio, quando infine arriverà, sarà presentata sotto forma di farsa.
Gilda Policastro, scrivendo dei Fratelli Michelangelo su “Il dubbio”, ha parlato di “postmodernismo”. Questa indicazione suggerisce un modo di definire i due sguardi sul testo che si sono succeduti nella mia lettura: il primo sguardo, carico di tensione e poi deluso, è moderno, freudiano; il secondo sguardo, leggero e disimpegnato dagli investimenti, è postmoderno, fronteggia i miti freudiani e kafkiani del Novecento smarcandosi con l’arma dell’ironia. Al lettore la scelta. La regia che si nasconde dietro le tante voci narranti privilegia il secondo sguardo. Io, più solidale con lo sguardo moderno, mi sono sentito tagliare in due.
Il romanzo sembra voler rappresentare, nelle vite dei quattro giovani Michelangelo, un diverso modo di sottrarsi al rischio dell’eredità paterna (e dell’origine in genere): non un attacco, ma una mossa di judo con cui il Padre viene assecondato e quindi messo in condizione di non offendere.
Se non vi è conflitto non vi è neanche senso di colpa, e i fratelli Michelangelo – come suggerisce l’epilogo – continueranno le proprie traiettorie di vita senza che per ciascuna loro scelta s’imponga il confronto animoso con i meriti e demeriti di Antonio. Piuttosto tutto questo diventa materiale che si può rifunzionalizzare con disinvoltura, come fa Cristiana, che proprio riprendendo la storia di questo incontro padri-figli porta avanti il suo percorso artistico e “raccoglie il primo frutto di tanto lavoro”. I Fratelli Michelangelo è il racconto di questo movimento di distacco dalle passioni e di continuazione impassibile dell’azione, che molto ricorda le dottrine della Bhagavadgītā, presenza costante nel testo e dietro al testo: una liberazione che si ottiene con un atto immaginario, senza intaccare la trama della realtà.