E cco l’amante ideale: “In qualsiasi momento tu voglia venire, sappi che sarò più che felice di vederti”, così poi “tu te ne stai calma a letto, e mi lasci parlare della vita ai tropici o di qualsiasi altro tema; e potresti anche tagliarmi i capelli e ne nascerebbero tante piccole talpe…”. L’amante poi si preoccupa della stanchezza dell’amata, e garantisce: “Io sono ai tuoi ordini, come sai. O forse, nella tua invincibile modestia, non lo sai”.
Quale visione del mondo può permettere scambi tanto generosi e articolati fra due amanti?
“Ma io ti adoro – adoro ogni parte del corpo, dalla punta dei piedi alla punta dei capelli. Non ti libererai mai di me, anche volendo. Signore – come vorrei che potessimo aiutarci l’una con l’altra. Ma tu sei lì completamente sola, e io non posso farci niente”.
Per queste due amanti la pratica dell’amore extraconiugale non è vissuta come la cosa più losca e distruttiva della vita. E questa pratica è improntata a sentimenti di amicizia e rispetto. (Altrove: “Eccomi qui, a dover affrontare mio marito di ritorno da Londra in questa serata piovosa, e dovergli confessare che io non sono stata sedotta, ma [il cane] Grizzle sì. Avevo lasciato la porta aperta”). Il premio per aver fatto trionfare desiderio ed emozioni grandi sulle normali gelosie e sullo spirito del possesso è nella chiusa:
Ma se l’essere amata da Virginia vale qualcosa, Virginia ti ama; e ti amerà sempre, e ti prego, credici – e riposa, e curati e non scrivere lettere.
Una raccolta di lettere fra due amanti umane capita a proposito in quest’era binaria in cui da un lato c’è la coppia soffocante e dall’altro il rapporto extraconiugale come aberrazione (e compensazione). Lo scenario contemporaneo è ben riassunto dall’immagine, presa da Battiato, che Francesco Piccolo usa per definire il bisogno del suo personaggio di avere tante donne: “l’animale che mi porto dentro”, quello che mi fa sempre chiedere se ti voglio scopare; sentimento connesso al sentirsi “stocazzo”, altra intuizione di Piccolo.
Questa visione del mondo, che Piccolo racconta nel modo meno ipocrita possibile, è ampiamente condivisa. Tempo fa se ne parlava sul Tascabile, riassumendo la polarità matrimonio/adulterio con la posizione della donna che idealizza il compagno e del maschio che cerca la femme per un mero bisogno di conquista, possesso e godimento. Questa polarità non è sufficiente per vivere bene. Ma è anche inevitabile?
In Scrivi sempre a mezzanotte (Donzelli Editore, a cura di Elena Munafò, traduzioni di Nadia Fusini e Sara De Simone, la relazione extraconiugale tra Virginia Woolf e la poeta e scrittrice Vita Sackville-West è un rapporto dinamico che contribuisce alla crescita spirituale delle due persone coinvolte; non è solamente un piacere colpevole consumato frettolosamente. All’interno del loro dialogo si possono fare sottili bilanci sulla vita: “Carissima… Mi fai sentire un mostro – e non voglio… Sono gelosa – metà, un decimo di me è gelosa, quando ti vedo con le varie Mary e Valery”. Fin qui tutto normale, ma è come prosegue a interessarmi, come VW cala con eleganza, nel solito discorso su possesso e gelosia, una valutazione della propria età e una richiesta di clemenza: “Così facci la tara… Sono felice se tieni a me: perché a volte sembro vecchia, irritabile, querula, difficile (anche se affascinante) e comincio a dubitarne… Ma basta lagne”.
In quasi ogni lettera, Virginia e Vita si affrontano mettendo giù una quantità di frequenze diverse, senza cercare la coerenza. Si amano per anni in una maniera che non è da spose né da losche amanti né da semplici amiche. Nelle loro lettere si passa dalle cose pratiche, alle gelosie, alle speculazioni, alle promesse di sensualità, al gioco di metafore per sedursi o ricordare le notti trascorse. Si scherza. Nadia Fusini, la più grande voce italiana di Virginia Woolf perché – come sa chi la legge e la sente parlare – cerca sempre di riproporci il desiderio che sta sotto la sintassi di VW, scrive nella prefazione che “mai come in queste lettere d’amore a Vita, Virginia si rivela per quello che è, e cioè una femina ludens”, che pratica il gioco come attività umana tra le più nobili: “Virginia plays, e Vita risponde nello stesso tono – anche lei «gioca», trasportando il gioco, play, nella direzione di quello che il gioco è, in inglese – una recita, un teatro. Una finzione per dire la verità, per far esistere la verità dell’amore”.
Così questo amore non ci arriva sulla pagina come la solita scatola nera delle pulsioni – che è ciò che ci aspettiamo quando passione e desiderio squarciano il nostro sogno d’ordine. Il loro amore arriva come un nuovo ordine, quell’ordine che si scopre quando si può guardare in faccia il caos e attraversarlo e vedere cosa c’è dopo. “Ed è intensamente vero e creativo e teatrale”, scrive Fusini, “l’affetto che allaccia le due donne in un legame sentimentale, sessuale, e tra i tanti umori in cui spurga è nella foga espressiva spiritosa, ironica, pudica e sincera delle lettere che si scambiano. È senz’altro amore l’energia erotica chiara e pura…”
Di regola la gelosia, nella nostra cultura, è chiamata come prova decisiva che la questione matrimonio/adulterio, sposa/puttana, sia impossibile da risolvere. Dividiamo il mondo dell’amore in giorno e notte perché altrimenti, lo sappiamo, il risultato sarebbe sempre la cavalleria rusticana, il duello d’onore. Tutto questo giocare e mettere in scena che fanno Vita e Virginia ci offre un’alternativa: il loro è un amore che vede la gelosia come uno dei suoi colori, un’emozione tra altre, e non come il pulsante per l’autodistruzione:
Mia cara Vita,
Sarà un incanto – sei davvero incredibilmente gentile. Martedì pomeriggio ti va bene?…
Disturbo se porto solo la vestaglia?
Disturbo se voglio la colazione a letto?
Quanto ai tuoi misteri, te li lascio finché arrivo, quando avrò tutto l’agio di investigare.
Ti faccio queste domande con l’idea che tu esprima i tuoi desiderata con franchezza.
No, non voglio entrare nella questione di Raymond e della Siria. Ma sta’ attenta – ché tutto questo romantico viaggiare prima o poi finisce per diventare assurdo, ridicolo. Sono gelosa.
E Vita riassume in un periodo la sua posizione beata: “Mi piace farti ingelosire, mio tesoro (e continuerò a farlo), ma è ridicolo che tu sia gelosa”.
Che questo laboratorio su un modo possibile di essere amanti ci venga regalato da due donne non è un caso. Venendo da matrimoni di puro significato sociale, potevano non considerarsi già legate per passione. Ma non ci sposiamo o accasiamo anche noi per ragioni sociali? Non cerchiamo l’amore – per carità, sentito, innamorato, anche sessuale – proprio quando dobbiamo dire in giro che siamo sistemati? Tutta questa manfrina dell’accasarsi sia per amore che per non dispiacere le zie viene presa talmente sul serio, ancora oggi, che ricevere dal passato, da due scrittrici, un abito di parole da indossare per sognarci diversi può essere un buon modo di reinventare, giocando, recitando, come loro due d’altronde, il modo in cui sentiamo l’amore:
“Non sapevo di essere così gelosa di te. Chi è questo dannato tizio col naso aquilino? Ascolta, m’importa davvero. Ma se le cose stanno così, sappi che qui sul tavolo ho una lettera dello stesso genere – a cui non ho risposto. Il tipo di risposta che darò dipende da te. Non sto scherzando, davvero. Se non stai attenta, mi farai finire in una relazione che mi annoierà terribilmente. Se invece sei carina, darò il benservito alla mia corrispondente. Ma non mi faccio prendere in giro. Dico sul serio”.
Per Fusini le continue partenze per l’estero di Vita, “brava moglie di un ambasciatore” (e musa ispiratrice di Orlando) fanno soffrire VW. “Ma l’assenza essendo la figura stessa dell’amore, quale altra? – Virginia aspetta che Vita torni. L’amore non finisce mai per l’assenza dell’amato”. Poi fa però presente che VW vuole un amore esclusivo, non perdona il tradimento. Ma “Vita ha altre amanti, Vita non è, non può, non riesce a essere fedele: non è nella sua natura. Eros la travolge, non può fare a meno di corteggiare le altre donne che incontra”. Virginia, come tutti, “prova a nascondere a se stessa la gelosia, ma la verità è che si sente trascurata, abbandonata: ha scoppi di orgoglio e di furore, quando si sente confusa con le altre amanti; e minaccia di lasciarla”.
Com’è allora che le due continuano a volersi bene fino al suicidio – non certo per amore – di Virginia Woolf nel ’41?
Woolf e il modernismo felice
Sulla scia di quella brevissima anzi beffarda “fine della storia” che fu la belle époque, il modernismo prese la cultura ottocentesca e le fece fare tante giravolte. In letteratura, il romanzo, cioè la serie tv dell’Ottocento, subì un trattamento simile a quello che David Lynch dedicherà nel 1990 alla televisione inventando Twin Peaks: un mezzo che fin lì era stato usato con relativo pragmatismo esplodeva in tante direzioni e sotto lo sguardo di Marx, Freud e Nietzsche ci consegnava diverse interessanti mostruosità. In Europa, i capolavori più rappresentativi del modernismo sono caratterizzati da un certo titanismo: L’uomo senza qualità, Alla ricerca del tempo perduto e Ulisse ci insegnano che per andare a caccia dell’ineffabile in letteratura si devono rifondare mondi scrivendo romanzi mondo (è uno scioglilingua).
Virginia Woolf ha un ruolo cruciale nel modernismo perché nei suoi libri, specie nella trinità Signora Dalloway – Gita al faro – Le onde, partecipa alla sfida opponendo al titanismo un rapporto più ironico e intuitivo con la vita. Dove in Joyce e Proust la cultura e il flusso di coscienza producono vortici nevrotici (sublimi), i carotaggi dell’anima in cui si cimenta VW, i moments of being, presentano la realtà come qualcosa insieme di mistico e di conoscibile. In ciò Woolf rimane nel solco di Tolstoj, e di una letteratura di saggezza (anche se non sapienziale). Insomma dove Joyce ha mostrato di saper rimasticare tutti i registri conosciuti e dove Proust ha inventato le scienze cognitive spiegando come funzionano la memoria e l’immaginazione, Woolf ha ricostruito, con Clarissa Dalloway, l’architettura di un essere umano, combinando le parti frivole e le parti profonde, l’appartenenza di classe e l’appartenenza all’umanità, l’ipocrisia e la verità in una maniera che infonde nel lettore un desiderio di vita e di esperienza. Il tutto servendosi del virtuosismo come di un’ovvietà di cui non vantarsi tanto; sperimentando senza vanità.
Virginia Woolf ha un ruolo cruciale nel modernismo perché nei suoi libri partecipa alla sfida opponendo al titanismo un rapporto più ironico e intuitivo con la vita.
È per questa ragione, mi pare, che in certi circoli di lettrici, spesso femministe, Woolf è trattata come una santa della ragione ironica ed emotiva, della capacità di adattamento alle sfide della vita, della possibilità di combinare, alle esigenze del mondo, un desiderio inesauribile e contraddittorio. In una presentazione newyorkese, l’anno scorso, ho sentito dire a Rachel Cusk che era contenta che la recente ondata di femminismo creasse un contesto per cui lei si sentiva autorizzata a buttare i suoi mostri sacri maschi dalla finestra per un po’. Seguendo il sentimento più che la lettera di questa affermazione mi sono trovato a ragionare su cosa ci dia Woolf di diverso da Proust e Musil.
Per chi come me ha imparato che la vita non ha senso leggendo La prigioniera di Proust, le lettere d’amore e passione tra Virginia e Vita sono la prova che i moments of being di Woolf avevano realmente indovinato un modo fecondo di raccontare e di vivere il proprio desiderio e quello degli altri. L’ultima parola, in queste lettere come nel mondo narrativo di Woolf, non ce l’hanno la paranoia e l’isolamento. E così questo epistolario è un modo ancora più appropriato per invocare VW per avere vite più sensuali, per non farsi sfuggire via gli anni e le ore. In questo libro c’è la gelosia ma non c’è il possesso, c’è la forza della personalità ma non c’è il potere, c’è l’invidia tra scrittrici ma non c’è l’aridità. C’è un campo da gioco che non è quell’aut-aut violento del mondo sentimentale eterosessuale: dove o la passione è l’attimo vergognoso di follia – il “come un pezzo di marmo sono” di Monica Vitti per non prendersi la colpa – o è matrimonio subito desensibilizzato.
Chi si raduna nel nome di VW cerca in lei la predicazione di un desiderio ribelle e reale, e di una letteratura al suo servizio, non capziosa, non titanica. A una presentazione da Tuba, libreria femminista di Roma, ho visto la seguente scena: allestito il palchetto per le relatrici (Fusini, che ha tradotto le lettere di Woolf), Sara De Simone (che ha tradotto quelle di Sackville-West), Elena Munafò (la curatrice); sistemato il pubblico attorno ai tavolini all’aperto, una delle socie della libreria ha detto al microfono (non ricordo le parole precise): “Auguro a tutte di avere almeno una volta nella vita una relazione con una donna, perché è una cosa bellissima”.
Quella cosa detta a chi prendeva l’apertivo nel bar di fronte, prima del tramonto, e davanti a un pubblico affezionato che comprendeva madri con figlie non ancora adolescenti, l’ho trovata esilarante e perfetta per parlare di Woolf, che qui è meno virginale che altrove, si racconta come persona dotata di un corpo.
Questo libro di lettere d’amore e di passione è un campionario di cose che ci si può dire quando la passione crea una comunicazione:
E poi c’erano i funghi: il granchio: il letto: il ciocco nel camino. Sarà tutto messo a tuo credito. Io sono una donna giusta, equanime. Tu sii un bravo delfino, salta, altrimenti troverai le soffici fessure di Virginia foderate di uncini. Ammetterai che sono misteriosa – ancora non mi hai scandagliato a fondo – chissà…
Se la riscoperta dei temi femministi fatta in questi ultimi anni ha lasciato per lo più un senso di vuoto e spaesamento quando ci si è chiesti: e allora che facciamo adesso? E allora non si può più corteggiare? Ma le donne che diavolo vogliono? Se per molti non è possibile cambiare davvero paradigma e le donne stanno solo rompendo i coglioni perché le passioni e il sesso porteranno sempre a una mancanza di comunicazione… il desiderio rimane immobilizzato dalla partner o amante, che è un po’ sempre l’antico puttana o sposa, e allora la verità è che non c’è niente da fare, bisogna accettare la solita sbobba così com’è.
Scrivi sempre a mezzanotte è un vademecum su come due umani di cultura europea borghese possano, nonostante tutto, desiderarsi per decenni, attraverso piccolezze, slanci, gelosie, competizioni professionali, rivalità con terzi. Immergendosi in questo libro facendo delle prove di voce, ci si può immaginare a costruire relazioni esterne alla polarità amante/partner, in cui il desiderio viaggi in modo lontano dalle esigenze diciamo così produttive che caratterizzano la relazione tra amanti (scopami e scappa) e quella tra partner (ordinami la vita ma diventa invisibile).
Vita e Virginia restano umane l’una con l’altra nonostante abbiano a disposizione solo la relazione extraconiugale come formato possibile, per di più nella chiave inaccettabile dell’omosessualità. Ciononostante, quel che fanno continua a integrarsi col mondo, non le costringe a una vita di pazzia e negazione come quella per esempio che troviamo nello struggente diario di John Cheever. Se tra il diario fluidissimo e tormentato di Cheever e la sua fiction malinconica e perfetta c’è una relazione torbida, che sembra non volersi chiarire, il dialogo tra la narrativa di Virginia Woolf e queste lettere di passione è così organico che pare quasi di trovarci in controluce un’utopia.