Stella Succi
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Enrico David, Ultra Paste, 2007. Installazione 540 x 560 x 300 cm. Courtesy Collection Nicoletta Fiorucci, London
29.4.2019
La sfida al labirinto
Un’intervista a Milovan Farronato, curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2019.
Stella Succi è una storica dell'arte e ricercatrice indipendente. Ha fatto parte delle redazioni di Alfabeta2, Mousse Magazine, The Towner, Prismo e attualmente è coordinatrice del Tascabile. Fa parte di Altalena, collettivo e gruppo di ricerca interdisciplinare nel campo delle arti visive. Dal 2020 cura la ricerca drammaturgica della danzatrice e coreografa Annamaria Ajmone. È ricercatrice presso least [laboratoire écologie et art pour une société en transition].
Con il titolo di Né altra, né questa. La Sfida al labirinto, dichiarata citazione da un saggio di Italo Calvino sul rapporto tra letteratura e società, Milovan Farronato ha scelto di presentare nella sua interpretazione del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia il lavoro di Enrico David, Chiara Fumai e Liliana Moro. David e Moro condividono una carriera trentennale, ma mentre l’opera eterogenea di David ha potuto raggiungere il riconoscimento istituzionale, gli ambienti installativi di Moro sono una produzione ancora da scoprire a livello internazionale. A costituire la “terza via” rispetto ai due diversi approcci, il lavoro di Chiara Fumai, interrotto dalla sua prematura scomparsa nel 2017: un’occasione per il pubblico di entrare nuovamente in dialogo con le sue performance e con un’opera inedita.
Mi racconti il processo che ti ha portato a scegliere i tre artisti del padiglione? È arrivata prima l’idea del labirinto o i nomi degli artisti?
Nelle travagliate giornate che mi hanno condotto a formulare la proposta definitiva sono stato attraversato anche da varie altre possibilità, fino a quando d’un tratto mi si è manifestata come risolutiva la costellazione Enrico David, Chiara Fumai, Liliana Moro: una configurazione da subito, di per sé labirintica, tre ‘vie’ molto diverse seppure a tratti parallele o anche incidenti.Liliana merita il riconoscimento internazionale, Enrico un degno ritorno in patria e Chiara di essere assunta come un significativo momento della storia dell’arte italiana e internazionale.
Il titolo è un riferimento dichiarato a un saggio di Calvino.
Esatto, nel ‘62 Italo Calvino scrisse un testo fondamentale, intitolalo eloquentemente La Sfida al Labirinto, in cui utilizza la metafora del labirinto per raccontare come la letteratura, con le sue linee ingarbugliate e le sue tendenze forse solo in apparenza divergenti, può tracciare un percorso possibile attraverso le complessità del mondo contemporaneo. Calvino propone di andare oltre la semplice descrizione di un’epoca, oltre la mera rappresentazione realista e impersonale di cose e stati d’animo: la cultura può e deve aspirare alla creazione di un’immagine cosmica. Ho affidato all’arte la stessa visione attraverso le opere di Chiara, Enrico e Liliana.
La Sfida al Labirinto parla di due diverse vie con cui affrontare il labirinto esistenziale: una “via razionalista” e una “via viscerale.” Quale artista secondo te rappresenta la via razionalista, e quale la via viscerale?
La “via razionalista”, contraria alle posizioni di rifiuto e di evasione e che in qualche modo riscatta la realtà dal punto di vista estetico e morale, mi ha ricordato l’atteggiamento di Liliana: partendo da tematiche specifiche questa artista crea situazioni apparentemente semplici e riconoscibili, che esternano la loro problematicità con delle decontestualizzazioni e l’utilizzo paradossale dei vari materiali impiegati nel corso della sua carriera. L’essenzialità delle sue manifestazioni si apre a una pluralità di possibili letture, associazioni mai scontate, sempre suscettibili a nuove, infinite aggettivazioni.
La “via viscerale”, Calvino la descrive invece come densa di “rivoluzioni interiori, esistenziali”, più individualista, più incentrata sull’analisi dell’interiorità. Ho sentito di poter connettere questa prospettiva alla ricerca di Enrico, alle sue forme antropomorfe, asessuate, testimoni vigili di memorie e visioni condivisibili. Il viscerale in lui è istinto, intuizione, è abbracciare anche lo scarto dell’esperienza, in un processo di sintesi che a un certo punto travalica i confini personali e diventa un quasi simulacro, una traccia, una parvenza riconoscibile, identificabile. Già allora Calvino sottolineava come queste vie fossero profondamente connesse e non facilmente distinguibili; e quanto i loro continui intrecci generassero altri percorsi. Ecco quindi che la via di Chiara è risultata fondamentale per completare il percorso e superare le logiche binarie: né altra né questa prevede di necessità almeno una terza via!
Mi racconti nel dettaglio il processo di selezione dei lavori?
Durante il lavoro di selezione delle opere sono approdato a individuare delle parole chiave che mi avrebbero fatto da guida, le stesse che poi hanno determinato le scelte fondamentali per i testi del catalogo.
La claustrofilia, nonostante nel nostro percorso non siano contemplate strettoie o luoghi angusti. La condizione esistenziale dell’Appeso, la dodicesima carta degli Arcani Maggiori: una stasi in perenne movimento. La frammentazione e la ripetizione, due precipitati in mutuo soccorso. Il tempo dilatato come omaggio e dono. Il trauma, il silenzio e la via d’uscita. La scelta stessa, che si biforca nelle infinite possibilità di una casa labirinto programmata a propria immagine e somiglianza. La salita tanto quanto lo sprofondamento. La sospensione, il transito e il rischio misto al fascino del mostruoso. Queste parole mi hanno aiutato a individuare e soprattutto a mettere in relazione le opere e sono state poi approfondite nella pubblicazione di Humboldt che accompagna la mostra attraverso testi singoli o polifonici, note e divagazioni nate dalla mia collaborazione con gli artisti e con Stella Bottai e Lavinia Filippi.
Le opere in mostra saranno inedite o hai scelto opere rappresentative del lavoro degli artisti?
Ho voluto fortemente che ci fossero opere inedite di tutti e tre gli artisti. Di Enrico David, autore onnivoro e ipertrofico ho pensato di presentare molti lavori nuovi, sia sculture che pitture, da accostare a qualche importante opera storica, comunque quasi sempre da lui rivisitate per il Padiglione. Di Liliana Moro invece ho voluto proporre uno struggente percorso attraverso tutta la sua carriera, presentare opere realizzate con tutte le tecniche e i materiali di cui l’artista si è avvalsa negli oltre trent’anni di attività. Qualche nuova produzione costellata da una miriade di inedite presenze prelevate dal suo studio e dalla sua storia. Per Chiara Fumai l’inedito non poteva che essere This last line cannot be translated: un’opera murale pensata, ma non esposta, per la mostra collettiva Si Sedes Non Is, da me curata ad Atene nel 2017 presso la galleria The Breeder in concomitanza con l’apertura di Documenta 14. Non sarà l’unica opera di Chiara in mostra ma di certo quella più eloquente.
Mi racconti come stai affrontando l’inclusione del lavoro di Chiara Fumai? Immagino che sia molto complesso, anche a livello emotivo.
La mostra ateniese era uno spazio di attivazione di energie, che sarebbe stato definito dal grande murale perimetrale di Chiara. Nei mesi precedenti all’inaugurazione affrontammo insieme un lento, logorante andirivieni di immagini che mutavano, di realizzazioni grafiche, di ripensamenti e grandi incertezze. In quelle settimane sentii che sarebbe stato meglio abbandonare temporaneamente quel lavoro così faticoso nella sua genesi per la sua autrice, ero convinto che ci sarebbero state altre occasioni per l’emersione di questa lenta, ermetica tribolazione. Venezia ci ha dato questa opportunità. Un lavoro non presentato ad Atene, concluso successivamente, e di cui avevo tutte le istruzioni per una fedele trascrizione (non traduzione, come d’altra parte recita anche il titolo): questo ultimo verso non può essere tradotto.
Trovo che tutti e tre gli artisti che hai scelto esprimano un particolare e personale senso di urgenza del lavoro artistico, e anche una grande libertà – per esempio nell’uso dei materiali e dei formati per Moro e David, nel suo modo di interpretare la performance per Fumai. Stai cercando di dare un messaggio al mondo dell’arte italiana?
Sì, credo che nella passione e nella libertà di Chiara, Enrico e Liliana ci sia un messaggio importante per il mondo dell’arte. Non solo per quella italiana. Tutti e tre non hanno rinunciato a nessuna aspetto della loro creatività, tutti e tre hanno un’attitudine scultorea all’arte, più marcata per Liliana ed Enrico, e più performante nella presenza shakespeariana di Chiara. Credo anche io come sostenuto dal Ministro Bonisoli durante la conferenza stampa del padiglione, che l’arte non abbia passaporto e tuttavia sono convinto che i tre artisti, a modo loro, offrano una valevole campionatura della creatività del nostro paese.
Le performance di Chiara Fumai, il diorama di Enrico David, il lavoro di Liliana Moro, e le quinte di ingresso del padiglione tradiscono un tuo rapporto particolare con il teatro.
Curo in gradevole e gradita compagnia di un artista, ogni anno diverso, un festival nella magica e alchemica cornice di Stromboli da oltre un decennio. L’isola, il vulcano, la montagna sacra è il perfetto sfondale per molte interazioni che spontaneamente hanno avuto una marcata matrice performativa e teatrale. A Stromboli stage e backstage tendono a coincidere; la prova generale è già l’evento pubblico. Arrivo al Padiglione Italia da questo presupposto che contempla rischio e sperimentazione, aspetti a cui non ho voluto rinunciare neppure ora. Sarebbe stato un errore! Nel labirinto sarà il pubblico ad attivare lo spazio e ad avere una presenza performante.
Questa teatralità che a me sembra di intravedere, insieme alla scelta del tema del labirinto, mi fanno pensare al barocco. Hai un rapporto particolare con questo periodo storico-artistico?
Sono effettivamente molto affascinato da vari aspetti dell’estetica barocca, la filosofia del docereet delectare in primis e poi i concavi e convessi; l’estremo dinamismo e l’incontrollabile piacere per l’illusionismo e gli apparati effimeri.
Un’altra parola che mi viene in mente pensando al lavoro degli artisti e al tema del labirinto è la parola “misterioso”: è una categoria che ti interessa?
Il misterioso mi interessa, ma ci tengo a precisare che il nostro labirinto non è un mistero da risolvere né un enigma. Lo ha spiegato eloquentemente Calvino: la Sfida al Labirinto non è quella di trovare l’uscita il prima possibile, ma quella di viverne appieno l’esperienza, assumendo un ruolo attivo di fronte alle continue scelte del mistero dell’esistenza. Il compito che Calvino assegna alla cultura è quello di trovare nuovi punti di vista dai quali indagare il mondo, sostenendo il dialogo con il caos della contemporaneità, assumendosi appieno dubbi e incertezze.Per gli antichi greci il termine mistero indicava i riti d’iniziazione e, per estensione, gli oggetti sacri del rito. Già dal II-III secolo dopo Cristo con “mistero” si indica uno spettacolo, una rappresentazione sacra. Penso anche al Mysterium coniunctionis. Ricerche sulla separazione e composizione degli opposti psichici nell’alchimia condotte da Jung, un libro che un non è altro che un labirintico rizoma di trasmutazioni di un simbolo in un altro. Ai nostri visitatori proponiamo, con il display e attraverso le opere selezionate, un confronto a viso aperto con una realtà misteriosa. Mi richiamo ancora una volta a Calvino, che vede il vero fascino del labirinto nel “rappresentare questa assenza di vie di uscita come la vera condizione dell’uomo.”