I n un testo in cui il ritratto viene definito “tra tutte le arti umane, ancora più della musica, la più filosofica, ovvero la più ostinata nella ricerca della verità”, Emanuele Trevi cerca il vero con lo strumento che meglio può aiutare a trovarlo, allora, offrendoci il ritratto di Arturo Patten, fotografo statunitense del Novecento, di Amelia Rosselli, poetessa e del critico letterario Cesare Garboli.
In Sogni e Favole Trevi ricorda Ivan Il’ič del racconto di Tolstoj: “Ivan Il’ič ragiona sull’abissale differenza tra imparare a scuola che tutti gli uomini sono mortali e capire che, in quel dato momento, a tirare le cuoia è proprio lui e non c’è più niente come ‘tutti gli uomini’”. Così l’autore dà al lettore la sensazione che non ci sia “più niente come tutti gli uomini”, e per questo ciò che sta scrivendo ha il gusto della confidenza, di un ideale dialogo tra lui e te, che lo stai leggendo. Forse ciò avviene perché, come ci dice all’inizio dell’intervista, quella attraverso la scrittura, diversamente dalla filosofia o dalla scienza, è una ricerca della verità pigra, che non tende all’universale, ma si concentra sul particolare, sulla singolarità.
Nel tuo libro scrivi: “nella sua essenza più profonda, la poesia è la forma suprema della biografia. Al contrario, le epoche di mediocrità letteraria sono caratterizzate da una generale estraneità delle opere all’esistenza che le produce”. Perché definisci la poesia come la forma suprema della biografia?
Al contempo, però, la nostra è un’epoca letteraria in cui l’autobiografia trova ampio spazio.
Si potrebbe pensare che si tratti di una conseguenza della trasformazione del ruolo dell’artista, la cui vita ora, come scrivi, è “un pettegolezzo, una delle tante variabili mercantili della celebrità, un’attraente carriera mondana”. Credi che questo cambiamento intervenuto nel modo di essere un artista si sia verificato a causa dell’avvento del neoliberismo, o perché gli artisti del Novecento erano più grandi, il loro spirito più potente?
Intendi dire che la fine della concezione dell’opera come compimento supremo della vita dell’artista fu conseguenza dell’uccisione simbolica dell’autore, anche da parte di critici e filosofi come Roland Barthes e Michel Foucault?
E la tua in Sogni e favole è una autobiografia allo specchio, creata attraverso una carrellata di ritratti altrui?
La mia mancanza di vitalità è diventata l’elemento centrale della mia narrativa, in particolare perché so amare ciò che mi è complementare. Questo aspetto lo si trova nel personaggio della bambina in Il libro della gioia perpetua, ispirato a Chiara Gamberale che era mia moglie a quel tempo, oppure in I cani del nulla. È rappresentato, appunto, da Arturo Patten in questo romanzo.
L’amore per la vita io l’ho vissuto di riflesso, ma non si tratta solo di un problema esistenziale, è una questione tecnica, perché a partire da questa distanza imposto la mia voce narrativa. Altre voci narrative, invece, sono fondate sulla affinità, come la biografia di Sof’ja (Sonečka) Gollidej scritta da Marina Cvetaeva.
Studio costantemente libri che raccontano di persone reali, chiedendomi quale punto di vista è stato scelto: lo stile di scrittura che permette di riconoscere l’unicità del personaggio è quello in cui l’autore riesce a trovare la distanza giusta e ciò può avvenire a partire da diversi punti di vista, adeguatamente vicini o lontani.
“Sogni, e favole io fingo”: il sonetto di Metastasio fa da contrappunto al tuo romanzo, guidandoti nella stesura del testo. Da una parte esprime come la finzione dell’Arte sia sullo stesso livello della menzogna della realtà, dall’altra i versi del poeta raccontano una visione specifica dell’esistenza terrena. Trattasi di ateismo radicato o dichiarato misticismo?
Più si invecchia e più si oscilla. Nella vita si perde tanto: funziona come una clessidra, una parte si vuota e l’altra si riempie. Di cosa? Di desideri, di rimpianti, di ciò che non c’è più, ecco perché invecchiando si diventa più propensi a credere a un aldilà, a una dimensione ulteriore delle cose: semplicemente perché sarebbe bello che ci fosse. La vita ci spoglia di tutto. Se dopo la morte potessi riabbracciare le persone care e vivere tranquillo, certo non direi: “eh, no, non ci sto, perché io sono ateo!”.
Da giovane ero più sicuro che tutto fosse materia e sarebbe tornato alla materia, ora so che l’unica cosa certa è che non sappiamo niente; però mi risulta difficile capire perché, se esiste una divinità onnipotente, essa ci debba provare così tanto, col dolore, con la sofferenza, con le catastrofi. Perché non ci rende le cose semplici? Mi è estraneo da sempre, infatti, il concetto di Provvidenza.
Scrivi che “questa è la vita umana, un nome e un lavoro incorniciati da due date, è questo che si prende la morte”; ma anche “noi scivoliamo continuamente, senza accorgercene, nella nostra unicità”. In che modo la pochezza della vita umana e la gloriosa unicità di ognuno non sono in contraddizione?
Di Metastasio scrivi che ricordava come “cosa più importante della vita” la lontananza dalle origini, dalla povertà di via dei Cappellari, a Roma. Si tratta esattamente del contrario dell’ossessione del ritorno che caratterizza Odisseo e su cui si fonda il mito della nostalgia della patria.
“Il luogo più importante della Zona, nel film di Tarkovskij, è la stanza dei desideri. Anche il migliore degli stalker, il più esperto e coraggioso, teme questo portento […] Noi viviamo all’ombra di desideri che non si realizzano, la frustrazione protegge la specie e l’individuo […] Un luogo dove si realizzassero le nostre paure più profonde non sarebbe così pericoloso”. Perché la stanza dei desideri sarebbe tanto pericolosa da esserle preferibile quella delle nostre paure?
Dove sono le stanze dei desideri di una città come Roma, “imbrattata di tempo”?
Poi, visto che Roma è la calcificazione del tempo, non può che essere piena di stanze dei desideri anche alla maniera di Tarkovskij, luoghi terribili dove non bisogna finire perché là si realizzerebbe ciò che si vuole nel profondo.