C’
è un mondo tutto oscuro fatto di fortezze, torri, rovine, grovigli di stalattiti, cunicoli, fossi, trappole, foreste velenose. In questo mondo, dove tutte queste cose si spalmano alla rinfusa su di una fetta biscottata di follia, autismo horror e humour nero, si manifestano degli incredibili personaggi che sembrano il frutto della psicosi di qualche lodevole internato che ha leccato la muffa sbagliata nel sottoscala del manicomio.
C’è Skeleton Jelly, uno scheletro gelatinoso che non fa che ripetersi chi è e cosa non è, come farebbe un pesciolino rosso dentro una boccia di LSD; ci sono due gnomi senza nome e quasi senza volto che si muovono tra diversi cantoni in cerca di non si sa bene cosa; c’è Lan Zang, che è un maestro a cavalcare i draghi volanti; c’è Battle Max Ace, che è il più nefasto bastardo che ti può capitare di incontrare e che sarebbe bello vedere in un Celebrity Death Match con Cannibal Fuckface di Prison Pit, c’è Pombo un animale tenero e mansueto che si fa predare come il migliore degli agnelli sacrificali; ci sono giganti che si drogano divorando ciambelle che crescono tra le stalagmiti; c’è una torma di bulli e di mercenari che abitano un posto che si chiama Citadel City, degni della mia collezione di exogini che tenevo dentro una scatola di metallo sotto il letto nel 1989.
Ci sono episodi assurdi, luoghi fantasma, livelli nascosti, bonus, entr’acte, intervalli, easter egg, mostri da sconfiggere, vicoli ciechi. Tutto pare il prodotto di un miscuglio di televisioni che trasmettono Spongebob e Videodrome uno dopo l’altro, uno sopra l’altro, uno dentro l’altro. C’è la sensazione che un DVD si sia rotto e che le clip video saltino fuori a caso, imbizzarrite. C’è anche l’idea che qualcuno stia suonando della roba inascoltabile, una distorsione continua, dentro un pozzo e, mentre tutte le larvali vicende della storia si susseguono, questa musica rimanga alla stessa distanza, allo stesso volume, costante e immancabile, un suono infernale sì, ma dopo un po’ hai come il sospetto che a suonare quella roba sia un qualche angelo che ha attaccato un big muff o qualche altro distorsore faustiano alle chitarre, ai liuti e alle lire divinamente tornite del Regno dei Cieli. È come se un dio ti abbia messo su una bmx e abbandonato sull’Himalaya con le gambe segate, non morirai mai perché sei benedetto, ma la tua esistenza è diventata davvero tanto tanto tanto difficile.
Da dove esce tutta questa roba? Come al solito, dalla mente, di una sola, singola persona.
Mat Brinkman nasce ad Austin, in Texas nel 1973, si trasferisce a Providence negli anni novanta, e attualmente vive in Colorado, sui monti, tra orsi e procioni. Questa triangolazione è sufficiente per farci un’idea di che tipo sia l’autore di Multiforce. Oggi lui ha 46 anni e la prima pagina di Multiforce 19 e passa. È infatti nel 2000, a 27 anni, che dà la stura alle sue chimere interiori, che avrebbero radicalmente innovato il modo di fare i fumetti negli USA e, di conseguenza, nel resto del mondo.
Tra il 1995 e il 2001 a Providence un gruppetto di masnadieri con idee eccentriche trasformò una vecchia industria tessile in uno spazio creativo, che venne ribattezzato Fort Thunder.
A Providence, come oramai ogni esperto di fumetto sotterraneo sa bene, tra il 1995 e il 2001 successe qualcosa di grosso: un gruppetto di masnadieri con idee eccentriche trasformò una vecchia industria tessile in uno spazio creativo, che venne ribattezzato Fort Thunder (il nome era già tutto un programma). In quegli spazi liberi e supercolorati, distopici e accoglienti assieme, si faceva di tutto. Dosi massicce di attività ludiche, che a posteriori sarà chiamata arte, ma che principalmente all’epoca era solo quello che quei ragazzi desideravano fare per non annoiarsi. E quindi: concerti bestiali, sperimentazioni d’ogni genere, performance incontenibili, maschere, poster art, installazioni, feste di Halloween, labirinti di cartone, combattimenti di wrestling. Mat Brinkman (assieme al musicista/fumettista Brian Chippendale, altro pezzo da novanta di Providence) faceva parte dei pionieri di Fort Thunder, dei primissimi occupanti che per sei anni dal 1995 avrebbero trasformato un anonimo edificio in rovina nella frontiera creativa degli Stati Uniti.
Quasi tutti a Fort Thunder facevano fumetti. Si facevano ovviamente fumetti diversi dal solito, direi autoctoni; in generale, nel bene o nel male, fumetti mai visti prima. Fumetti, che a rigore di logica dovremmo definire alternativi e che, invece, come dice bene Valerio Mattioli in un reportage del 2012 su clan di Brinkman e compagni, hanno legami “con la tradizione fumettistica sia underground (Jim Woodring, Gary Panter) che non (i supereroi Marvel)”. I fumettisti di Fort Thunder assecondarono la solida consuetudine americana nel fumetto per parodiarla, circuirla ed infine spingerla oltre sé stessa e farla incontrare con altre cose: board game, videogiochi, giochi di ruolo, epopee fantasy alla Tolkien e simili, cartoni animati, droga di ogni genere e grado. In questa ottica Multiforce è un fumetto germinale ed innovativo perché ha indicato una strada, un modo di fare le cose anzi, un po’ come il primo disco dei Velvet Underground, che, a detta di Brian Eno, vendette appena diecimila copie ma che fece decidere a chiunque ci mise i timpani di fondare una band.
Il meticoloso, infernale universoide di Mat Brinkman iniziò ad apparire a paginate giganti su Paper Rodeo, l’organo di stampa di quel gruppo di artisti (mi viene l’orticaria a chiamarli così, però) che a Providence avevano trovato il paradiso. Era il 2000, ma già l’anno dopo l’epopea di Fort Thunder si sarebbe malamente arrestata: l’ex impianto tessile che ospitava lo strambo fungo creativo di Providence venne raso al suolo per fare posto a due supermercati, che, mi pare di aver capito, chiusero poco dopo. Per fortuna il più era fatto e alla fine, tirando le somme, in qualche maniera, tutta la nuova ondata di fumettisti sotterranei americani era passata per quei lidi: Christopher Forgues, Johnny Ryan, Matthew Thurber, Jesse Moynihan, Brian Ralph, Ron Rege Jr, Ben Jones, Edie Fake, Theo Ellsworth, Paper Rad, Frank Santoro, Michael Deforge, Matt Furie e l’elenco è ancora lungo. La città, che fino al 1994 era conosciuta principalmente per aver dato i natali al benamato Howard Philip Lovecraft, l’arcinoto scrittore di romanzi dell’orrore cosmico, era diventata la capitale di qualcosa di incontrollabile, che, proprio come un Cthulhu silenzioso, si muoveva dai bassifondi per conquistare il mondo. Oggigiorno blasonate case editrici come Fantagraphics e Drawn & Quarterly e in particolare la PictureBox di New York, pubblicano e continuano a vendere i materiali dei tanti fumettisti nati artisticamente in quei sei anni pazzi.
Multiforce è un fumetto incontrollabile, dove accade di tutto proprio in base al fatto che non ha confini definiti.
Paper Rodeo ha ormai concluso il suo ciclo da tempo e le copie se le godono pochi scaltri collezionisti o qualche fortunato sbandato. Noi le possiamo ammirare nelle tante mostre che dal 2001 ricordano e promuovono l’eccesso visionario degli autori cresciuti nel fumogeno psichedelico, passeggero ed effimero, del fortino tempestoso. Come è successo anche nel nostro Paese, durante il BilBolBul dello scorso novembre, quando Mat Brinkman in persona è sbarcato a Bologna per presiedere a The Dungeon Master, poderosa mostra dedicata ai suoi lavori, grazie alla quale è stato concesso anche all’Italia di mettersi in linea con il resto del fumetto mondiale, facendo scoprire al grande pubblico le visioni scoordinate ma affascinati di uno dei più seminali fumettisti degli ultimi decenni. Certo il ritardo di ben 18 anni pesa un po’ e fa riflettere sulla capacità del fumetto italiano di essere davvero contemporaneo nel mondo.
Già dai primi anni 2000 la comunità italiana degli appassionati di fumetti strani – chi li faceva stava gomito a gomito con chi li leggeva – si era attivata e Multiforce iniziò ad arrivare in Italia e più tardi a navigare in versione PDF tra un account e l’altro di posta elettronica. Io ero uno di quelli che lo recuperò in PDF con grande ritardo, circa nel 2012, ma la differenza tra vederlo su schermo in lingua e leggerlo su carta in italiano, devo essere sincero, è incolmabile, dato che questo fumetto è un’esperienza fisica oltre che intellettuale. È grosso, difficile da leggere al cesso o prima di andare a dormire, non è scomodo ma pretende di essere letto alla scrivania e comunque in un momento di grazia. Ci si perde in un pellegrinaggio sinusoidale che se non si è pronti ci stona, ci confonde. In questo mondo nerissimo, in cui il master si è fatto di acidi, Mat Brinkman ha infilato egregiamente i calzoni ed è arrivato a dare la forma a una materia gestibile davvero da pochissimi altri. Multiforce è un fumetto incontrollabile, dove accade di tutto proprio in base al fatto che non ha confini definiti. Le storie si incastrano in maniera imprevedibile, come i cristalli di quarzo dentro un geode impazzito riemerso dal pleistocene. Una micronizzazione che sarebbe stata gradita ad Adolf Wolfli e al suo dottore Walter Morgenthaler, un horror vacui manicomiale che spande su 21 enormi fogli 27×40 episodi, oggetti, battute, balloon illeggibili e piccoli gustosissimi quadretti che trasudano altre decine e decine di mondi, storie, segreti, retroscena. E di segreti questo libro è davvero colmo, vi basterà sbirciare la sezione originali in coda al volume per capire quanto sia ultraterreno il metodo di lavoro del bizzarro autore di Austin.
Dunque finalmente arriva in Italia questa bestia mitologica, questo oggetto irraggiungibile, questo fenomeno godibilissimo del fumetto underground made in USA. Non a caso ho sfogliato questa opera in una feticistica museum edition ideata e messa a punto da Hollow Press, realtà italiana a cui si guarda con grande speranza, essendo una delle poche ad avere coraggio ed energia: è una grande priorità curare lo snervato panorama italiano.