D ue begli uccelli, l’un l’altro compagno, abitano assieme sul medesimo albero. L’uno si ciba del dolce frutto, l’altro, senza mangiare, con lo sguardo tutto abbraccia”. Questo celebre frammento della Muṇḍaka Upaniṣad (uno dei libri dell’Atharvaveda) è stato oggetto d’ininterrotta disamina. In Attesa di Dio, Simone Weil ne fa la parabola della rinuncia che precede il congedarsi dall’Io: per partecipare veramente alla creazione occorre de-creare sé stessi, contrarsi alla maniera di Dio quando si è ritirato per permettere l’accadere del mondo (come nel “Tzimtzum” ebraico, la “primordiale contrazione”). “Se Eva causò la rovina dell’umanità mangiando il frutto”, scrive Weil, “l’attitudine opposta, guardarlo senza mangiarlo, potrebbe essere quanto occorre per salvarla”. Nell’ultimo tratto della sua vita la filosofa, affetta da tubercolosi, rifiutò quasi completamente il cibo – non riusciva più ad inghiottire – se non un tuorlo d’uovo con un po’ di zucchero, o un pugno di ciliegie. Morirà nell’agosto del 1943, a 34 anni.
La vicenda di Weil solleva ancora reazioni perplesse, come sempre destano perplessità quelle questioni che non possono essere risolte soltanto attraverso un frettoloso ricorso allo spettro dei disordini patologici. Individuare nel digiuno della Weil qualcosa di altro – ovvero gli elementi di una moderna pratica mistica – presuppone un’interrogazione sul passaggio cruciale dall’ “Anorexia Mirabilis” alla “Anorexia Nervosa”, cioè dal fenomeno (prevalentemente femminile) del digiuno medievale a quello odierno dell’anoressia come disturbo del comportamento alimentare. Ma la singolarità di questo studio impone pure una seconda domanda, ancora più fondamentale e universale: è lecito o no disporre del proprio corpo sino all’autoannientamento?
Il discorso sulla “liceità” dell’uso dei corpi è legato inevitabilmente al nostro paradigma in cui, come scrive Giorgio Agamben in Homo sacer (recentemente ripubblicato), “il dato biologico è, come tale, immediatamente politico e viceversa”. Un regime biopolitico che esprime urgenza di risposte se si guarda al complesso orizzonte critico sollevato dai ricorrenti dibattiti sulla maternità surrogata e sull’eutanasia. E tuttavia, per comprendere le ragioni (e l’attualità) di questo tema, occorre risalire all’intrico di radici e sopravvivenze delle pratiche antiche, domandandosi non solo se “Anorexia mirabilis” e “Anorexia nervosa”, anche visti a posteriori, siano il medesimo “disturbo”, ma soprattutto se il nostro rapporto con il corpo sia più libero oggi di quanto lo fosse nel tanto vituperato medioevo.
Per comprendere l’attualità di questo tema, occorre risalire all’intrico di sopravvivenze delle pratiche antiche, domandandosi se il nostro rapporto con il corpo sia più libero oggi di quanto lo fosse nel medioevo.
Per quanto riguarda la prima questione, ci viene in aiuto un saggio di Caroline W. Bynum del 2001, Sacro convivio, sacro digiuno. Uno studio che rifiuta di guardare al fenomeno del misticismo femminile con gli strumenti grevi della medicina retrospettiva. Per comprendere il digiuno di figure come Santa Caterina da Siena, Angela da Foligno, Margherita da Cortona o Agnese da Montepulciano, bisogna innanzitutto tenere in considerazione il significato religioso del cibo per le donne del Medioevo, come recita il sottotitolo del libro. Confondere l’insieme delle pratiche ascetiche con la nozione di inferiorità e misoginia interiorizzata, o ancora includerle soltanto nell’indice della patologia, ci costringerebbe a ignorare l’ostinato sforzo di queste donne di fare di sé stesse, “sempre più meravigliosamente e orrendamente”, quel corpo che era stato crocifisso. È soltanto nel tardo medioevo, infatti, che il rito eucaristico diviene una componente fondante dell’universo cristiano, momento centrale della liturgia e vero e proprio banchetto mistico che corrisponde, per molte donne, all’espressione di una nuova religiosità volta all’imitatio christi e, dunque, delle sue sofferenze.
Se l’atto di ricevere l’eucarestia era bramato ardentemente – e allo stesso tempo sentitamente temuto – è perché esso non era considerato operazione allusiva, ma piuttosto manifestazione della presenza divina. A tal proposito, la Bynum riporta testimonianze di sante che affermavano di ricevere l’ostia direttamente dal Cristo, o che soltanto dell’ostia si cibavano (Ruggero Bacone racconta di una donna della diocesi di Norwich che visse così per vent’anni), o che erano capaci di distinguere l’ostia consacrata da quella non consacrata, rigettandola puntualmente.
Inquisire oggi la veridicità di queste azioni è superfluo: il miracolo non consiste nel fatto. Già il mistico Florenskij, in uno scritto giovanile, chiariva che “non essendo possibile un deismo puro, accanto alla sua interpretazione scientifica ogni fenomeno può essere recepito anche sotto forma di miracolo”. Piuttosto, quanto ci riguarda di questa febbre eucaristica è il suo aspetto di “comunione oculare”, di viva e quasi “nuziale” partecipazione: per le donne del Medioevo ricevere l’ostia è donarsi, divenire cibo sacro, sondando appieno la carnalità del corpo e facendone così una regione di mutamenti senza mediazioni e fuori dallo stringente controllo ecclesiastico, per cui la morigeratezza rimarrà sempre una virtù inabolibile (i passati eccessi dell’anacoretismo, a cui molte mistiche si rivolgono, erano guardati con sospetto dalle autorità religiose).
Il misticismo rappresentava la possibilità di rompere con l’insieme organico, permettendo l’invenzione di una radicale alterità.
L’urgenza del desiderio coincide con la frantumazione dell’organismo, come se il misticismo fosse la possibilità di rompere con l’insieme organico, permettendo l’invenzione di una radicale alterità: per Caterina da Genova, ad esempio, l’Ego dovrebbe essere distrutto a tal punto che il pronome di prima persona singolare sparirebbe anch’esso dal discorso. Nel digiuno come nelle altre pratiche ascetiche è la carne stessa a divenire reliquia d’amore, metonimia di un corpo già donato all’Altro e di cui si smarriscono i legami puramente anatomici: un corpo “forsennato”, un corpo “fuori di sé” proprio perché rivoltato dall’interno della sua insondabile nudità.
Questo eccesso non ancora ammaestrato nelle cliniche di cura, questa linfa di corpi come “vasi rotti” la ritroviamo, dopo il Medioevo, in un’altra figura imprescindibile del secolo scorso, il gesuita Michel de Certeau, che come si legge in Fabula mistica ha dedicato un lungo studio al “teatro di sofferenza” della carne. Va aggiunto che la passata mescolanza dei mali comportava dolori rabbiosi che non era quasi possibile alleviare, e che dunque richiedevano di essere tollerati, se non abbracciati. Un rapporto con il dolore in cui la sperimentazione prevale sulla legge del controllo, che torna a sconcertarci quando riappare nella forma della “body art” o del nuovo primitivismo, ma anche osservando la grande pittura a tema religioso è difficile ignorare l’insieme delle figure staccate dalla rappresentazione e lasciate soltanto al flusso celeste della sensazione.
La lettura retrospettiva e patologizzante di queste esperienze non trascura soltanto la pluralità delle diverse esperienze ma anche il valore propriamente teologico della pratica ascetica, il preciso desiderio di aprire nel corpo la ferita dell’alterità e della rinuncia, come accade per Simone Weil. Travolte dalla bufera secolare e storicista, le “sante anoressiche” finiscono per somigliare alle isteriche che Jean-Martin Charcot – il neurologo francese del Diciannovesimo secolo – voleva fossilizzate in un atlante onnicomprensivo, ma soltanto per tessere tra di loro una continuità clinica che dominasse “le differenze del sintomo”. Georges Didi-Huberman, che di Charcot si è occupato in diverse opere, ne scrive così nel suo saggio L’immagine insepolta:
Tutto l’uso delle figure, in Charcot, fa in effetti parte di un’operazione volta a ridurre il carattere essenzialmente proteiforme, labile e metamorfico, del sintomo isterico – questo groviglio di serpenti in movimento attraverso i corpi – al semplice statuto di un quadro regolare (…) in cui i corpi reali – sofferenti – venivano scongiurati di farsi a immagine delle figure raccolte negli atlanti come altrettante prove di un quadro clinico stabilito una volta per tutte.
In questo, si può dire che quello che l’Anorexia Mirabilis condivide con quella Nervosa è il comune mito di un’analisi retrospettiva, un piegare i sintomi alle cause e viceversa.
Resta però da osservare l’altro orizzonte della questione, e cioè il cibo come esperienza “politica” della quotidianità femminile. L’anoressia nervosa si stringe attorno al corpo nella sua morfologia di carne-laboratorio, di carne-manichino. La deriva salutista, ipocondriaca e opportunista, però, che sembrerebbe il suo opposto, è una monomania non meno allarmante di quella del tardo medioevo, dove la donna era soprattutto madre, ovvero dispensatrice di “nutrimento”, oppure preparatrice di pietanze. Il rifiuto di attenersi a questi ruoli poteva dunque trovare fiera espressione nel rigetto del cibo come elemento di addomesticazione dello spirito: matrimoni indesiderati, faccende della casa e maternità imposte potevano essere evitate in questo modo. Santa Rita da Cascia riuscì addirittura a convertire il marito violento ai medesimi valori, mentre si tramanda che Santa Caterina da Siena e Colomba da Rieti, rapite dall’estasi, fecero scivolare bambini nel fuoco, rendendosi così evidentemente inadatte ai compiti domestici.
Esclusa dall’ambiente ecclesiastico, la religiosità diretta delle donne ci permette di riscoprire una libertà più grande di quella d’impronta maschile, oberata dai lacci clericali. Una religiosità ugualmente lontana da qualsiasi “risvolto consolatorio” come risposta passiva all’ambiente, dal dualismo e dalla “misoginia interiorizzata” che abbiamo già scacciato precedentemente, e che ritorna invece oggi tra i motivi ricorrenti associati all’anoressia. Lasciamo allora che questo “santo digiuno” disturbi silenziosamente l’immagine della nostra modernità: se non ci è stato possibile trovare una “radice” unilaterale è perché esistono diverse anoressie, e di conseguenza una pluralità di approcci e genealogie che spesso finiscono nello stesso tritatutto patologico, quanto meno per il senso comune.
Se dunque l’Anorexia Nervosa differisce da quella Mirabilis, cosa è rimasto di quest’ultima nella prima? Rivoltata nuovamente, l’interrogazione iniziale (“è lecito o no disporre del proprio corpo sino all’autoannientamento?”) diventa ora: “è possibile o no disporre oggi del proprio corpo sino all’autoannientamento?”
Esistono diverse anoressie, e di conseguenza una pluralità di approcci e genealogie che spesso finiscono nello stesso tritatutto patologico.
Abbiamo già osservato la vicenda di Simone Weil, ma a (tentare di) chiudere questa riflessione sarà un racconto di Kafka intitolato “Un artista del digiuno”, che già Ermanno Cavazzoni (nella sua postfazione al volume di Quodlibet) paragona alla pratica ascetica dei santi passata per il setaccio del secolarismo. Il racconto narra di un digiunatore per amor dell’arte che, insieme al suo impresario, viaggia per tutta l’Europa acclamato da uno stormo chiassoso di grandi folle eppure dedito soltanto alla coltivazione della sua opera di astinenza fino a che, col passare degli anni, l’interesse per il suo spettacolo diminuisce, e la sua arte si fa acerba e funesta. Scrive Kafka:
Come per un segreto accordo, si era sviluppata ovunque un’avversione per il digiuno inteso come spettacolo. Certo, non era possibile che si fosse arrivati a una situazione del genere così, di punto in bianco, e adesso, a posteriori, tornavano alla mente molti segnali premonitori di cui all’epoca, nell’euforia del successo, non si era tenuto abbastanza conto e a cui non era stato posto prontamente rimedio, ma ormai era troppo tardi per prendere delle contromisure. Prima o poi anche il digiuno sarebbe sicuramente tornato di moda, ma sul momento non si trattava di una grande consolazione.
L’artista si lascia ingaggiare allora da un grande circo, dove la sua gabbia viene relegata vicino alle stalle, come il trascurabile intervallo tra due epoche “spettacolari”. Nessuno presta più attenzione al calendario, e l’artista viene lasciato al suo digiuno come il muto miniatore di un destino oramai privato: “Prova a spiegare a qualcuno l’arte del digiuno! (…) Perché io devo digiunare, non posso fare altrimenti.” Sarà il guardiano del circo a pronunciare le ultime parole che sigillano il racconto, appena prima di far seppellire il corpo morto dell’artista, ormai confuso con la paglia marcia della sua gabbia: “Adesso però mettete in ordine”.