S ulla copertina del libro, impreziosita da una cornice di sottili linee blu e rosse, vediamo un disegno che raffigura il tennista americano Jack Kramer, sorriso bianchissimo e taglio di capelli militare, che spensieratamente esegue una volée di rovescio. Vite brevi di tennisti eminenti di Matteo Codignola (Adelphi, 2018) è pervaso dalla presenza dell’atleta statunitense come da un deus ex machina, se non un’eminenza grigia. L’autore ci racconta di aver scritto il libro dopo aver ricevuto in dono da un amico una valigia piena di fotografie di tennisti del secondo dopoguerra, volti noti e sconosciuti in azione in tornei maggiori e minori. Siamo nell’epoca in cui il tennis, come racconta Codignola, “era diviso in due mondi paralleli, e lo sarebbe rimasto fino al 1968”. I cosiddetti dilettanti erano i prodi che giocavano i grandi tornei che ancora oggi ammiriamo, mentre i professionisti erano i reietti che se ne andavano in giro a giocare le esibizioni come un circo ambulante. I dilettanti pur alzando i trofei nobili guadagnavano poco più che un rimborso, ragion per cui nacquero i professionisti, imprenditori di sé stessi che decidevano il prezzo del biglietto, anche se costò loro la radiazione dalla gloria del dilettantismo. Kramer fu il grande artefice del professionismo nel tennis, e uno dei promotori della riunificazione dei due mondi a partire dal 1968, anno in cui nasce l’era Open, o il tennis come lo conosciamo oggi.
Da quella vecchia valigia Codignola ha ricavato una galleria di ritratti, frammenti di vite o singoli momenti presi da quell’era di mezzo che precede la trasformazione dello sport nello spettacolo globale, nella gestione manageriale degli atleti per la massimizzazione del profitto del nostro tempo. Capitoli a volte lunghi a volte brevissimi, ognuno di questi è introdotto da una delle fotografie ritrovate, che non si riferiscono strettamente a quello che Codignola racconta, evocandolo come uno specchio magico che intreccia ricordi distanti. La prima immagine che vediamo ritrae un gruppo in posa con giacche a righe, nelle mani racchette di legno dal piccolo telaio, e ci introduce alla nascita del tennis moderno, un’altra storia che parte da una valigia. Quella messa in commercio dal maggiore Walter Clopton Wingfield nel 1874 e che conteneva rete, racchette e palline, per svecchiare e dinamizzare il gioco del Real Tennis, ovvero la pallacorda che rimaneva confinata alle regali corti al coperto. Wingfield decise di chiamare il nuovo gioco Sphairistiké, nome di “un suo dubbio antenato greco” scelto per distinguerlo dal tennis precedente, ma il nome non convinceva. Prese il nome di lawn tennis, ma anche “un vezzeggiativo che a pensarci bene avrebbe meritato maggiore fortuna, sia di pubblico che di critica: Sticky.”
E sticky il tennis è sempre stato per Codignola, appiccicoso come qualcosa da cui non ci si riesce a liberare: “Ho cominciato a giocare a sette anni, poco dopo ho cominciato a guardare partite, sia in televisione che dal vivo, e pur sostenendo di poterlo fare in qualsiasi momento non ho più smesso”, confessa l’autore.
Durante gli ultimi Australian Open dormivo con il computer sul letto, e a ogni risveglio notturno anziché girarmi dall’altra parte aprivo il multiplayer per seguire l’andamento dei match, anche (scusate, soprattutto) se si trattava di primi turni su campi minori. Il sabato di mezzo mi sono alzato alle sei. Gli incontri sarebbero proseguiti fino alle quattro del pomeriggio circa, ma la giornata era in qualche modo guastata dalla consapevolezza di dover uscire alle due meno un quarto: per andare a giocare.
Sono tormenti familiari all’appassionato, afflitto da una patologia “a cui manca del tutto il concetto di overdose”. Quello che è davvero prezioso in Vite brevi è però non l’invito alla solidarietà tra malati, piuttosto l’onestà e la grazia con cui l’autore si muove tra l’ossessione personale e il tratteggio di personaggi così ricchi e imprevedibili da sembrare inventati.
Poche pagine e leggiamo del barone Gottfried Von Cramm, leggendario campione tedesco a cui mancò la vittoria a Wimbledon, forse a causa dei suoi “larghi gesti europei”, come li avrebbe descritti il pragmatico Kramer. Si racconta che Von Cramm abbia ricevuto una telefonata da Hitler subito prima di giocare una finale di Coppa Davis contro gli Stati Uniti nel 1937, e fu poi incarcerato nel 1939 per omosessualità, “l’ultimo sopravvissuto di un’epoca in parte immaginaria in cui i risultati contavano molto meno della pura bellezza di un colpo”. Codignola poi lo abbandona per la storia del tennista che posa in foto accanto a Von Cramm, uno svedese con la passione per la musica e un cognome a posteriori importante, Torben Ulrich, padre del Lars fondatore dei Metallica. Di Torben leggiamo mentre suona il clarinetto nei locali la sera prima delle partite, o di quella volta che fu convocato in albergo dal trombettista Sidney Bechet per ricevere qualche consiglio dopo il match appena giocato, oppure leggiamo delle sue meditazioni sulla cattiva acustica di uno stadio:
Il brusio costante del pubblico, il ronzio dell’impianto di aerazione, la superficie morbida, attutiscono il suono drammatico del tennis. Sono sicuro che gli spettatori perdono moltissimo. Una scena senza sonoro non ti coinvolge. È come guardare due persone che fanno l’amore da dietro un vetro.
Da qui in poi una carrellata di epopee pubbliche e private, tennisti invincibili e tennisti fragilissimi, tennisti esteti (“Ma lo sai che il tuo modo di giocare ha un equilibrio che mi ricorda Bach? Stessa simmetria, stesso controllo assoluto”, avrebbe detto un ammirato Jeff Borowiak, giovane oriundo polacco, al campione australiano Ken Rosewall), tennisti avvocati e perfino tennisti sovrani come Luigi X di Francia, morto per il troppo vino freddo bevuto dopo un incontro. E poi campionesse come “Little Mo” Maureen Connolly, fermata a soli 19 anni da una caduta da cavallo, oppure Gussie Moran, la cui carriera fu stravolta altrettanto all’improvviso, ma a causa di un audace completo da gioco che le riversò addosso le ire delle autorità di Wimbledon, al punto da farla scappare con la ciurma dei professionisti.
La narrazione procede spesso per divagazioni, la scrittura ha la densità e l’eleganza che può venire da una vita immersa nella letteratura come quella di Codignola, editor e traduttore. I lunghi periodi ricchi di subordinate e la desuetudine di molti termini (“scalmane”, “gavazzare”, “passiera”, “onusto”, “dimafono”) risuonano con l’anacronismo delle vite raccontate da Codignola, residui del passato schiacciati dall’atleta totale del tempo moderno, quanto la sua semantica è dimenticata a favore del linguaggio povero di tanti racconti sportivi di oggi. Ma cosa si potrebbe raccontare oggi del tennis? Si tratta davvero dello stesso sport di cui ci parla Codignola in Vite brevi? Vanni Canepele, l’avvocato tennista autore anche di un manuale di tennis
sosteneva che lo stile non è mai esistito nel tennis, sono esistiti modi di giocare più o meno belli a vedersi, peraltro quasi sempre sconfitti da modi di giocare più redditizi. E tutto questo, comunque, apparteneva a un passato ormai remoto, dove in campo contavano precisione e regolarità, mentre il futuro apparteneva per intero alla violenza, e alla velocità.
Parole del 1952, ma che sembrano descrivere la muscolarità e l’ipercinesi del tennis moderno che tanto hanno tolto al tocco, alla variazione, ai gesti bianchi cantati da Gianni Clerici. Lo Scriba è appena citato giusto in chiusura di libro da Codignola, ma perché i suoi testi per l’autore “sono libri che conosco a memoria, ma nella circostanza non li ho riaperti. Per una ragione semplicissima: se lo avessi fatto, mi sarebbe passata la voglia di tornare su queste storie.” Codignola scrive da esploratore di un mondo passato, laddove Clerici ce lo ha restituito come un testimone poeta. Ma inspiegabilmente scrivere di tennis sembra sempre accompagnarsi con un qualche senso di perdita, con l’immagine di una bellezza svanita. Succede anche in Vite brevi, a eccezione dei pochi momenti in cui l’autore evoca Roger Federer, oggi forse l’unico tennista a tenere un legame tra il passato e il presente. Si può discutere all’infinito sui minimi cambiamenti che il Maestro apporta al suo gioco, e di certo quando lo si vede perdere da un avversario minore, come l’estate scorsa a New York, sudato e soffocato dall’umidità, la scena è “inopinata, catastrofica, straziante”.
Resta poi l’altro volto del tennis, quello giocato da noi comuni mortali, nella drammatica scissione tra ciò che sentiamo e ciò che produciamo su un campo. Codignola ci accompagna anche in questi pensieri, come se giocando ci fosse modo di riafferrare quella dispersione, quell’elusività che il tennis cela in sé. “Un nocciolo di follia e di mistero per certi versi tenuti a bada, per altri direttamente espressi, da un sistema di regole e da un punteggio pensati per tenere alla larga il cosiddetto mondo reale”, lo definisce quasi misticamente a un certo punto. Ma altrove la disciplina diventa “un’attività solitaria e vagamente insensata, che attiva ghiandole sudoripare nei punti sbagliati e si svolge, nella maggior parte dei casi, sotto gli occhi di un pensionato aggrappato alla recinzione”, riportando gli amanti della racchetta alla dura realtà dei sabato mattina sul campo, così spesso iniziati pieni di gioia e di scopo, poi affogati nella frustrazione della nostra scadente biomeccanica.
Il che non toglie che in questa attività dura e disadorna uno riversi comunque tutta la preveggenza, il calcolo e l’acume di cui dispone.