F erdinando Retencio è un impiegato né giovane né vecchio, ambizioso e un po’ frustrato. Lavora in una megaditta di nome Soluzioni, dove i dipendenti, tutti i giorni, devono aiutare i clienti a risolvere ogni tipo di problema: c’è il boxeur convertito allo Zen che non vuole più combattere, l’imprenditore roso dai sensi di colpa, lo scrittore determinato a scrivere il suo capolavoro. Retencio trova soluzioni per tutti, tra messinscene improvvisate e incursioni al limite della legalità. Ha un solo obiettivo: conquistare la cintura nera.
Ferdinando Retencio è il protagonista di Cintura nera (edizioni Sur, 2019, traduzione di Giulia Zavagna), il primo romanzo pubblicato in Italia dal messicano Eduardo Rabasa, traduttore ed editore della casa editrice Sexto Piso a Città del Messico. Nell’azienda ideata da Rabasa, i dipendenti lavorano in funzione della cintura nera che è un traguardo, un modo di essere, una forma di pensiero. Per ottenere l’ambìto premio, i dipendenti devono scalzarsi a vicenda nella classifica indicata sul tabellone: un’entità metafisica che si incarna in una sequenza di numeri in costante aggiornamento, frutto di calcoli, funzioni e algoritmi che indicano il valore di una persona: “in un numero definito dalla sua perpetua metamorfosi si condensavano le attitudini, la determinazione, i desideri, i fallimenti, il passato e il futuro, quello che sarebbe potuto accadere e quello che invece no: si trattava dell’approssimazione più precisa di quell’astrazione chiamata personalità”.
Cintura nera esaspera i meccanismi delle grandi multinazionali, le rivalità, le frustrazioni, le inquietudini innescate da sistemi che pretendono di classificare l’essere umano. “Ho passato due, tre anni a pensare al libro” racconta Rabasa. “La scrittura vera e propria è durata un anno e mezzo circa, per fortuna. È stato molto intenso. Ero ossessionato, lo sognavo di notte quel mondo”.
Nel tuo romanzo si legge l’influenza di Orwell, a tratti è grottesco come Kafka e ha un’atmosfera che fa pensare inevitabilmente a Black Mirror. A cosa ti sei ispirato?
Poi per me parlare di influenza è sempre un po’ problematico, mi sembra presuntuoso citare questi grandi scrittori quando non sai mai il tuo risultato qual è. Però sono dei modelli a cui mi sono ispirato, ho provato a vedere se alcune strategie e procedimenti che loro utilizzavano potevano essere applicate a quello che mi interessava scrivere. Nel caso di Orwell è sicuramente così.
Sono modelli abbastanza cupi. Il tuo libro invece fa ridere. L’hai concepito come un romanzo comico?
Nei due libri che ho scritto, quello che faccio è ridere, prendere in giro il protagonista – soprattutto in questo caso che è un personaggio tremendo e di per sé comico. Ovviamente non parlerei mai in modo umoristico di persone maltrattate, donne picchiate o migranti. In Messico, però, l’umorismo mi sembra molto radicato a livello sociale: è un modo non tanto per riequilibrare le disuguaglianze, perché restano sempre quelle che sono, ma per affrontarle e prendersene gioco. Per esempio c’è un ex presidente, Carlos Salinas, che viene considerato il cattivo nazionale per eccellenza e di cui si fanno maschere per carnevale, oppure ci sono le piñata con la faccia di Trump da colpire. È come se ridere di queste situazioni fosse l’ultima arma che ci è rimasta per combatterle.
I personaggi sembrano degli archetipi, quasi delle maschere. Come li hai costruiti?
I miei sono, in effetti, dei personaggi archetipici. Retencio, il protagonista, più che l’archetipo di una persona ritrae un atteggiamento, un contesto, che lo spinge a comportarsi come si comporta: fa delle scelte orribili, considera le donne come oggetto… Mi sembra lo stesso atteggiamento che si ritrova nella mentalità di soggetti che nella contemporaneità stanno determinando il destino della società anche più dei politici.
Retencio, appunto, è un personaggio a metà tra il tragico e il comico. È vile e aggressivo, ma vittima di una sorta di dittatura del pensiero, è parte di un meccanismo di controllo diffuso che arriva dall’alto ma esiste anche tra pari, diventa quasi volontario.
Un altro pensatore che mi ha influenzato è stato Mark Fisher con il suo realismo capitalista. Viviamo come se il capitalsimo fosse l’unica opzione possibile: conviene adattarsi perché tanto alternative non ce ne sono. È una narrazione estremamente contemporanea, è pervasiva, ci viene imposta costantemente. La facciamo nostra e viviamo secondo questi postulati. È anche per questo che il direttore dell’azienda, il Signor Sorriso, parla in modo incomprensibile: quando dà ordini di fatto non dice nulla, però ogni impiegato crede di saperli interpretare e reagisce di conseguenza. È un po’ questa l’allegoria dietro a quel personaggio.
In effetti c’è molto fatalismo nel libro.
Gregory Bateson, in un suo libro meraviglioso che parla tra le altre cose di alcolismo e teoria cibernetica, teorizza che gli alcolisti, di fatto, hanno ragione a ubriacarsi: sono in preda a un’angoscia di vivere e quindi la loro reazione è normale. Per smettere di bere, dovrebbero cambiare completamente il loro sistema interno di convinzioni, altrimenti non possono uscire da questo circolo di dipendenza. Lo stesso vale per Retencio: se il suo punto di partenza è questo sistema, con queste impostazioni, è naturale che si comporti così. Dovrebbe cambiare il suo sistema interno di convinzioni e assuefazioni per modificare il suo comportamento.
Come se ne esce? La letteratura può offrire narrazioni alternative?
La letteratura senz’altro può fare qualcosa, perché rimane comunque il modo migliore che io conosca per entrare nella testa di un altro. Però ha meccanismi che non sono per niente massivi. Penso al Messico, per esempio: se un libro va benissimo lo leggono 100.000 persone, ma sono tipo lo 0,1% della popolazione e quindi ci muoviamo sempre su numeri piccoli. Tra le teorie di Fisher c’è l’idea che la società debba arrivare a un collasso perché possa effettivamente esserci un cambiamento – com’è successo con il feudalesimo, così deve accadere con il capitalismo. Quindi più le cose peggiorano, meglio è: si tratta di un’accelerazione verso il cambiamento. Diciamo che nella teoria io sono abbastanza d’accordo, mentre nella pratica mi sembra terribile perché implica la sofferenza di molte persone. L’abbiamo visto con Trump: qualcuno era contento che fosse stato eletto, per farla finita con questa fase politica e passare ad altro. Però la verità è che ci sono bambini chiusi in gabbia al confine con il Messico e altre atrocità, quindi nella pratica non sono poi così d’accordo.