L’ Avenida Paulista è un luogo inclassificabile: uno spazio luminoso di grattacieli di uffici e altri esperimenti modernisti, dove ragazze pattinano tra palchi di concerti improvvisati, a pochi passi dal parco pubblico dal microclima pluviale che sa di Amazzonia. Non a caso il grande antropologo Claude Lévi-Strauss, che arrivò qui dalla Francia nel 1934 e si fermò diversi anni alla neonata università, apre le sue considerazioni critiche sull’immaginario esotico dei viaggiatori con un’autocritica suscitatagli dal suo impatto con San Paolo: “Il Brasile si configurava nella mia immaginazione sotto forma di palmizi contorti, dissimulanti bizzarre architetture, il tutto intriso di un aroma da bruciaprofumi”. Venuto qui in cerca degli indios, gli fu detto che erano praticamente scomparsi, e lui stesso faceva parte dell’enorme massa di emigranti europei che hanno fatto deflagrare la cittadina dell’Ottocento nella megalopoli di oggi, la cui popolazione si aggira intorno ai 20 milioni di abitanti. Tolto l’esotismo di cartapesta che ancora influenzava Lévi-Strauss, il tentativo di definire un’identità brasiliana non offre immediate scappatoie, chiamando in causa tensioni e stratificazioni storiche e sociali.
Oltre l’esotismo
La città è stata caso esemplare dello sviluppo del Brasile, come ricorda Bruno Barba nel suo San Paolo. Ritratto di una città: qui sono affluiti molti degli europei che hanno lasciato l’Europa povera e avviata alle dittature, oltre 50 milioni, di cui il 38 per cento italiani. Nel 2017, degli oltre 200 milioni di abitanti del Brasile, sarebbero 25 milioni i discendenti di italiani: San Paolo era ed è la più grande città italiana al di fuori dell’Italia. Ma gran parte di questi “italiani” ha perduto lingue e tradizioni, fondendosi con nordeuropei, giapponesi, discendenti degli indios e degli schiavi africani, dando luogo a una delle giovani nazionalità più complesse del pianeta. Così in Brasile sono fortissimi il razzismo dei bianchi e le disuguaglianze consolidate dai confini delle favelas, ma al tempo stesso il paese è culturalmente mestizo, dalla samba al calcio ai rituali afroamericani della Umbanda e del Candomblé, che sono l’obiettivo finale del mio viaggio. San Paolo, sede di studio sull’identità meticcia – da Lévi-Strauss a Reginaldo Prandi – e luogo delle manifestazioni che hanno recentemente diviso il paese, è un luogo adatto per educare lo sguardo alla realtà brasiliana.
Al momento del mio viaggio il vecchio presidente Lula è in carcere, i cortei politici si susseguono come una scia sismica, tra qualche settimana si eleggerà il nuovo presidente Bolsonaro. Ma nonostante questa crisi istituzionale sull’Avenida Paulista si balla. Sullo sfondo del cemento e dei pilastri scarlatti del Museo d’Arte, una schiera di persone dall’aria dimessa improvvisa una coreografia, mentre le casse diffondono una versione in spagnolo di Celebration: “vamos a celebrar cantar y amar”. Più avanti su un palco è in corso la performance rock di una cantante queer con l’abito extralarge di paillettes e le ali di piume rossonere. L’entusiasmo del pubblico è travolgente. Tra pochi mesi, su questa stessa strada, migliaia di persone scenderanno a festeggiare l’elezione del Presidente che ha dichiarato “meglio un figlio morto che uno gay”.
“Stai attento a andare in giro a piedi”, mi ammonisce un amico, e “non andrei a Rio, è un brutto momento”. Salvador de Bahia? “Meglio di no, comunque mai a piedi”. Raccomandazioni che mi saranno ripetute ovunque, a San Paolo e altrove, rivolte al viaggiatore ignaro e incauto che valica confini invisibili. Gli aneddoti mi raggiungono pure dall’Italia – il prof. di antichistica, grande esperto di Aristotele, che è sceso a fare una passeggiata a Copacabana con la moglie e si è ritrovato una pistola in bocca – ed è difficile dire dove finisca la prudenza e dove inizi la paranoia.
Viene in mente quel disturbante film di alcuni anni fa, Tropa de Elite – Gli squadroni della morte (2007), sulle milizie speciali nelle favelas di Rio. L’azione è innescata dalla volontà scellerata del papa di risiedere in un vescovado, a due passi da una favela. Le squadre speciali hanno il compito di bonificare la zona per evitare incidenti. Matias, un giovane poliziotto nero e idealista, porta avanti gli studi universitari legandosi ai colleghi bianchi che collaborano con le ONG e abbracciano le teorie di Foucault sui meccanismi del potere che sorvegliano e opprimono, ma alla fine si rende conto che anche gli studenti che si fanno le canne contribuiscono al narcotraffico: ogni mediazione fallisce, Matias supera il brutale addestramento per entrare nei corpi speciali, finendo con l’accettare il punto di vista dello spietato capitano Nascimento, e via a torture, sparatorie, stragi, fine della storia. Il film, in fin dei conti, presenta la violenza come unica cura ai problemi di un sistema profondamente corrotto. Nonostante abbia ricevuto diverse critiche è stato un enorme successo a San Paolo e in tutto il Brasile. Più di dieci anni dopo, appena un mese prima del mio arrivo, il presidente Temer ha effettivamente inviato l’esercito a Rio per stabilire l’ordine nelle favelas: un provvedimento che ha suscitato reazioni controverse, ma pare sia approvato dalla maggioranza della popolazione.
Un simile conflitto attraversa tutto l’immaginario paulista – e brasiliano – fin dai tempi della dittatura. Nel suo capolavoro Un bicchiere di rabbia (1978), lo scrittore Raduan Nassar mette in scena la lite feroce tra due amanti scatenata da un incidente banale: al risveglio dopo una notte d’amore, lui si accorge che delle formiche particolarmente dannose sono entrate nel suo terreno, s’imbestialisce, versa veleno, aggredisce i domestici; lei, giornalista di idee liberali, lo redarguisce: “innalza presto un muro, costruisci una fortezza, proteggi ciò che è tuo nello spessore di una muraglia”. Lui reagisce bruscamente, accusa lei d’ipocrisia borghese: “i privilegiati come te, mascherati da gente del popolo, mi sembrano in generale come i travestiti del carnevale”, per poi affermare che “la forza bruta dell’autorità è necessariamente alla base di ogni ‘ordine’”. Lo scambio di battute s’intensifica e trascende: il conflitto diventa al tempo stesso astratto e carnale, teorico e violento, lui la schiaffeggia, la scaccia, resta da solo a piangere come un bambino; ma l’amore tra i due, alla fine del racconto, sembra pronto a riaccendersi.
Per un paio di giorni mi muovo poco da Hygienópolis, quartiere centrale dal nome eloquente, tutto palazzine recintate e villette con guardiani. Vado in auto all’università Federale per un seminario, passando anche per una favela: finestrini inondati di pioggia, strade rotte, il mio amico alla guida che accelera. Infine prevale il bisogno di muovermi liberamente, perciò decido di andare a Rio de Janeiro e di girare la città esclusivamente a piedi. La vegetazione incombe su Rio, si riversa a ondate sulle strade, le colline di roccia spuntano ripide a interrompere i quartieri e separare le baie. Questo corpo a corpo tra città e foresta ha sempre affascinato i visitatori. Come una macchia di Rorschach la topografia di Rio si può leggere in diversi modi: la vittoria della modernità sulla natura che giganteggia nei resoconti dei primi esploratori europei, o la tensione della natura che attende di riprendersi tutto cominciando ad affondare radici sotto l’asfalto, o ancora il presagio utopico di un equilibrio tra queste forze.
Leggo che esistono sentieri nella foresta che salgono fino al Cristo Redentore, ma “non si può salire a piedi!”, ripetono tutti allarmati. Il percorso di ascesa è interamente obbligato, recintato e costeggiato da negozi di souvenir, finché per ostinazione non finisco col mostrare alle guardie forestali la segnaletica che indica l’inizio dei sentieri. Per salire si parte nella zona del meraviglioso Giardino botanico, per una pista stretta e ripida che supera diverse cascate. Pare ci siano state rapine, non c’è sorveglianza, ma non succede niente. Sbrigata la visione periscopica delle baie e soprattutto dei turisti che scattano selfie sotto la statua del Cristo, i guardiani mi impediscono di inoltrarmi per la sentieristica del monte, perciò comincio a scendere. Non incontro quasi nessuno e fa buio quando esco nel complesso del Parque Lage, la splendida ex-residenza di un industriale che oggi ospita una scuola di arti visive. Dal cortile neoclassico, in cui è allestita una mostra di fotografie, la figura illuminata di Cristo in cima al monte è una fumante apparizione bianca.
Camminando lungo la Laguna Rodrigo de Freitas s’incontrano bar semideserti con i pappagalli, e una serie di insegne che ricordano le giovani vittime della guerra nelle favelas. Poi le luci di Leblon, i centri commerciali frigoriferi, la gente in bikini e infradito con le buste piene di vestiti, i ragazzi magrissimi che accettano volentieri un panino o un frullato viola di acaì, e infine lo splendore accecante di Ipanema, Copacabana, Flamengo, la folla di bagnanti, le inevitabili partite di calcio e beach volley. Verso il centro aumenta il traffico, iniziano gli splendidi edifici coloniali, i musicisti portano gli strumenti nei locali dove si suonerà fino a notte. Costeggio il Conservatorio, pieno di ragazzi, arrivo alla piazza del Teatro Municipale con le sue cupole turchese e oro. Il tentativo architettonico di fondere immaginario folklorico e modernismo parigino mi ricorda le composizioni del grande Heitor Villa-Lobos, il cui busto sta accanto al teatro: l’esuberante sperimentazione e la malinconia dei Choros, delle Cirandas, delle Bachianas Brasileiras. Ma si sente il grido di una voce al megafono, mi accorgo di uno schieramento di polizia: il dramma politico interrompe l’idillio estetico con Rio.
Politica e antipolitica
Fin dai primi chilometri di camminata lungo il mare, dalle parti di Copacabana, mi ero imbattuto nei manifesti col viso di Marielle Franco, l’attivista originaria delle favelas che è stata assassinata il mese scorso insieme al suo autista: “quanto durerà questa lotta ai poveri?”, recitano. Franco era stata eletta nel consiglio municipale nel 2016 ed era famosa a Rio per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne, delle lesbiche, e per la denuncia delle violenze della polizia nelle favelas, particolarmente accese dopo la decisione del presidente Temer di inviare l’esercito. I sicari l’anno colpita nella sua auto in pieno centro. All’inizio del 2019 saranno arrestati per l’omicidio Paulo Alves Pereira e Adriano Magalhães da Nóbrega, un ex-capitano e un maggiore della polizia militare (gli “squadroni della morte” del Bope, proprio il corpo speciale di cui parla il film Tropa de elite), due personaggi legati al figlio di Bolsonaro. Si discute della possibilità che Marielle non sia stata assassinata per le sue idee politiche, o comunque non solo per quelle, ma perché aveva scoperto dettagli nella rete di corruzione che lega polizia e politica. “Corruzione” è un termine che ricorre in tutta la storia recente del Brasile e riguarda anche la scena che trovo nella piazza del teatro.
C’è un presidio di sostenitori dell’ex presidente Lula, che in questi giorni attende il giudizio della corte suprema sulla sua richiesta di scarcerazione. Gli striscioni sono chiari: “Giustizia per Lula, libero e innocente! Giustizia e onore per Dilma! I più grandi guerrieri del popolo brasiliano”. “Abbasso l’intervento militare a Rio!”. Sugli schermi di tutti i locali assisterò insieme ai brasiliani alla drammatica votazione del massimo organo giudiziario del paese, atto simbolico culminante di un dramma che va avanti da anni, dopo un prologo felice. Durante la presidenza di Lula (2003-2010) si era parlato di abolizione della fame, e ci fu effettivamente un’enorme crescita e una storica diminuzione di disoccupazione e disuguaglianza. Un famoso video mostrava il Brasile come un gigante che si sveglia e comincia a camminare. Ma con la presidenza di Dilma Rousseff (2011-2016), seguace di Lula, l’atmosfera è cambiata di colpo. La crisi economica mondiale, gestita malissimo, ha dato luogo a un’ondata di proteste di ogni colore, cui la Rousseff ha risposto mandando la polizia. Le enormi spese per i Mondiali di calcio, peraltro terminati con l’umiliante disfatta per 7 a 1 della Seleçao verdeoro contro la Germania, hanno prodotto altri incidenti e deteriorato ulteriormente il clima sociale.
Ma è stato l’inizio dell’inchiesta Carwash sulla corruzione di politici e costruttori a produrre una crisi istituzionale senza precedenti, che ha coinvolto in pochi anni tre presidenti – e qui le analogie con quello che è avvenuto in Italia negli ultimi decenni sono impressionanti. Rousseff è stata indagata e costretta a dimettersi dal Parlamento, lo stesso Lula è stato arrestato con l’accusa di aver ricevuto denaro sotto forma di lavori di ristrutturazione della sua villa, un’accusa che l’ex presidente presenta come un pretesto per tagliarlo fuori dalla politica. Al posto di Rousseff le forze dell’opposizione hanno sostenuto la presidenza di Temer, ma in poco tempo anche Temer è stato travolto dalle accuse di corruzione, mentre milioni di persone protestavano in tutto il Brasile. Cavalcando l’onda di antipolitica i militari si sono schierati contro la scarcerazione di Lula, che alla fine vedrà respinto il suo appello per un solo voto, restando escluso dalla corsa presidenziale. Eroe dell’antipolitica è Sergio Moro, un magistrato che si è ispirato esplicitamente ai giudici italiani di Mani Pulite, e di recente ha usato mezzi anche illegali, come la pubblicazione di intercettazioni telefoniche, per abbattere un’intera classe dirigente colpevole di corruzione.
E arriviamo alla nuova campagna presidenziale, all’ascesa del “Capitano” Bolsonaro, l’ex paracadutista che si presenta come uomo nuovo ma è in parlamento da oltre vent’anni, quello che saluta i sostenitori col gesto di una mitraglia, che ha sempre pubblicamente sostenuto il valore della dittatura. “Sono favorevole alla tortura”, ha dichiarato: “le cose cambieranno solo se ci sarà una guerra civile e faremo il lavoro che la dittatura militare non ha fatto, ucciderne 30000”. Omofobo, misogino (in un video minaccia una collega parlamentare dicendole: “non ti stupro perché non te lo meriti”), razzista, contrario alla concessione di terre ai nativi della foresta amazzonica e all’idea che esista un problema climatico, favorevole alla diffusione delle armi, in campagna elettorale accusa l’avversario Haddad di promuovere un libro per le scuole che incoraggia la pedofilia (che si rivela un falso), promette di bandire i criminali rossi, non partecipa ai dibattiti politici. Promette un Brasile per i Brasiliani, anche se intende vendere concessioni alle multinazionali in Amazzonia, e quando si tratta di definire chi sarebbero i Brasiliani rivendica le radici “giudaico-cristiane” del paese.
“Non siamo loro. Non siamo la sinistra”, insiste Bolsonaro nei suoi video, ma a dispetto delle sue posizioni – come ha osservato in un’intervista l’ex-presidente Cardoso – il suo successo non è solo un fenomeno di “estrema destra” parlamentare. In un paese che ha avuto una dittatura militare per 20 anni, la reazione antipolitica corrisponde a un attacco alle stesse istituzioni democratiche. Nove membri del governo che Bolsonaro formerà, dopo la sua elezione nell’ottobre del 2018, provengono dalle forze armate. Il giudice Sergio Moro, che ha eliminato Lula e Rousseff, diventa ministro della giustizia.
Salvador, nel nordest, è il luogo in cui vado per assistere alle cerimonie dei culti afroamericani tipici della regione di Bahia. Comincio a camminare per la città partendo dai quartieri del lungomare di Ondina e Barra. Dal Faro di Barra una brusca salita porta verso il centro lungo l’Avenida Sete de Setembro, quasi cinque chilometri tra grattacieli nascosti dagli enormi alberi tropicali, vecchi edifici d’epoca coloniale e bancarelle della frutta, fino al centro storico con la famosa zona del Pelourinho. Inizia qui il sito UNESCO, visitatissimo e fotografatissimo dai turisti: tra vicoli e ripidi dislivelli s’incastrano come gessetti colorati i palazzi portoghesi ridipinti di fresco. Lo sguardo di Medusa del restauro e della “riqualificazione” – parola orrenda ma appropriata – ha comportato, negli anni ’90, il trasloco di migliaia di residenti afroamericani, col risultato di devitalizzare il quartiere: le scuole di musica, a partire da quella dei famosi Olodum, sono spazi semivuoti con l’occasionale turista bianco alla prima lezione di percussioni che va fuori tempo; tutt’intorno gli edifici ospitano bed and breakfast, ristoranti di pesce e negozietti, mentre le stradine sono una passerella di concerti itineranti, esibizioni di capoeira e camerieri che servono bicchieri di caipirinha al lime e maracuja. Dall’alto si vede il Mercato Modelo, originariamente dedicato alla fustigazione degli schiavi, oggi famoso per l’assortimento di artigianato. In una delle piazze del Pelourinho Michael Jackson ha girato il video di They don’t care about us, con l’accompagnamento degli stessi Olodum e grande partecipazione popolare. Il suo ritratto è appeso sul balcone: braccio fasciato, sospensorio dorato e brillantina su sfondo celeste, in tinta con l’intonaco. Sotto gli occhiali da sole di Michael si aggirano sedicenti maestri di chitarra e turisti in passeggiata digestiva che fotografano la prospettiva scenografica di palazzi acquarello che declina fino al quartiere del Carmine.
Le radici religiose
Salvador è oggi la quarta città brasiliana e una di quelle con il più alto tasso di omicidi. Dalle parti del centro ci sono poliziotti con mitra e giubbotto antiproiettile a ogni angolo di strada. Scendendo verso Barra la sorveglianza si dirada e scompare. L’illuminazione è debole, qualcuno dorme sui marciapiedi. Nella strada semideserta e bagnata passa un gruppo di ciclisti in divisa colorata. Quando ricompare il lungomare c’è solo un residuo dell’odore di pesce fritto, qualche isolato colpo di percussioni, una partita di calcetto, la calma della risacca. A Salvador, che è stata la prima capitale del Brasile coloniale, abbondano le chiese portoghesi e i terreiros, i cortili dell’umbanda e del candomblé, le religioni sincretiche in cui rivivono i culti degli schiavi, con le loro cerimonie terapeutiche e festose. Mi incuriosisce questa convivenza religiosa ancora attuale. Entro nel complesso della Chiesa e del convento di San Francesco, famoso per gli interni interamente ricoperti di maioliche dipinte e di quella che sembra una glassa dorata, da cui s’affacciano angeli, santi e madonne dalla pelle bianca e nera. Chiedo a Don Julio se i cristiani possono partecipare alle cerimonie popolari dell’umbanda, dove queste figure si sovrappongono alle divinità africane e amerindie; lui mi risponde mitemente: “Gli umbandisti sono benvenuti in chiesa, ma un cristiano non dovrebbe andare a quelle cerimonie”.
Nella Settimana santa, per rispetto verso la Chiesa, i terreiros restano chiusi. Contatto Kamila, la figlia di una mãe-de-santo, sacerdotessa dell’umbanda, che è gentilissima e molto preoccupata che io riesca a farmi un’idea del culto. Mi propone di portarmi a visitare il tempio di Yemanjá, la dea-sirena che protegge i naufraghi ma al tempo stesso amministra la potenza distruttrice del mare. Ci incontriamo a Rio Vermehlo di fronte alla statua di bronzo di Jorge Amado e Zélia Gattai, i coniugi scrittori che si tengono per mano. Lo scrittore bahiano ha dedicato molto spazio ai culti afroamericani nei suoi romanzi. In Dona Flor e i suoi due mariti (1966), ambientato proprio a Salvador, il ritorno del fantasma del primo marito di Flor, Vadinho, introduce “lo scatenarsi di una guerra degli spiriti, ai crocicchi delle strade, nelle notti di macumba, nei terreiros e nell’immensità dei cieli”. Vadinho era un giocatore d’azzardo e un bevitore, “un imbroglione”, “un eretico”, “un tiranno”: “l’amore era per lui una festa, fatta d’infinita gioia e libertà, cui egli s’abbandonava con l’abituale entusiasmo, alleato a una competenza attestata da innumerevoli donne di diverso ceto e condizione”. Muore durante il Carnevale “ballando una samba con una vivacità scatenata”. Il nuovo marito Teodoro, al contrario, è un dottore, saggio, gentile, e fedelissimo. Le divinità di umbanda e candomblé non riescono a fermare il morto che torna, sempre presente al fianco di Flor come un ragazzino provocatore, a chiedere “con parole zuccherose” altri baci e altre notti d’amore, richieste a cui Flor, nonostante le resistenze morali, finisce col cedere. Alla fine Flor allestisce un sacrificio rituale per scacciare il morto, ma lei stessa, quando Vadinho brucia ridotto “a quasi niente”, torna a salvarlo. L’unica soluzione sarà un compromesso: la coppia appare felice e invidiatissima a passeggio di domenica, Flor sottobraccio a Teodoro, con il fantasma di Vadinho che le svolazza intorno toccandole i seni e le natiche, “lieta della vita, soddisfatta dei suoi due amori”. Non è strano che gli Orishas, le divinità umbandiste, non impediscano il ritorno di Vadinho, poiché il loro compito è stato per secoli quello di tutelare le forze della natura, la vitalità proibita, proponendo un diverso equilibrio tra i poteri spirituali del Brasile.
Di questa energia che gli Orishas fanno erompere dai corpi dei fedeli, l’axé, nel tempio di Yemanjá non trovo traccia: la Pasqua ha temporaneamente chiuso l’accesso agli spiriti, l’impressione è di visitare una casetta sul mare, un luogo di vacanza abbandonato. Dentro c’è un piccolo altare simile a una fontana, in cui si affollano delle statuette di plastica, simili a Barbie in abito azzurro, con collanine d’argento, specchi e altri accessori, alcune con la pelle nera, altre più nettamente simili alla Maria cristiana, da cui Yemanjá subdolamente si traveste. Sulle pareti, schematici dipinti in cui la dea appare come sirena, e scritte edificanti. Un bimbo nudo col pannolino gioca con le bambole. Una donna prega, un’altra lascia un’offerta. Fuori c’è una luce abbagliante, una statua colorata della sirena, una barca a remi tirata a riva. Kamila mi mostra sullo smartphone dei filmati di rituali affollatissimi nelle chiese di Salvador: con donne e uomini che ballano nell’incenso, alcuni che si piegano, gridano, tutti si abbracciano.
Non mi arrendo: mi faccio portare da un tassista in uno dei terreiros più famosi, un complesso di edifici bianchi in una zona molto lontana dalla costa, ma un’insegna avvisa che la riapertura avverrà dopo Pasqua. Mi aggiro intorno al Dique di Tororò, il lago degli Orishas, sulla cui acqua spuntano le statue delle divinità: Exu il messaggero, che porta calma o caos, Ogum il guerriero, Oxum la dea dei fiumi e della bellezza, il cui corso può essere delicato e violento come una cascata. Qui Oxum ha un vestito intero, ma nella sua effige originale ha i seni neri scoperti e una veste d’oro sulle gambe, tiene sul braccio una rete piena di conchiglie e si specchia. Sulla sponda del lago alcuni uomini alternano sonnellini a oziose camminate sotto gli alberi.
Non mi arrendo e tento in un altro terreiro, che un tassista sostiene essere aperto. Il complesso sorge su una collina ripidissima. In cortile non c’è nessuno, ma il cancello delle scale è aperto. In cima ci sono delle case bianche, con porte e finestre sbarrate. Ci viene incontro una donna magrissima, con un sorriso triste, e spiega che le case dei santi aprono tra qualche mese. Intorno a lei saltellano dei bambini filiformi e seminudi, che continuano a seguirmi giù per scale. Mi portano a uno spazio sacro, di nuovo sagomato come lo scafo di una barca. Accanto c’è una fontana con Yemanjá: la dea-sirena è ferma in un gesto che non comprendo, l’acqua è chiusa.
La prima volta che ho sentito parlare di umbanda, candomblé, santeria, vodu e affini culti afroamericani, è stato leggendo La terra del rimorso di Ernesto de Martino (1961), lo studio nato dall’eroica spedizione in cui lo storico aveva osservato le cerimonie del tarantismo pugliese: donne e uomini che si dimenavano per giorni, accompagnati dai musicisti, attuando una drammatizzazione di crisi represse, incertezze esistenziali e turbamenti erotici, da cui uscivano ristorati. Nel sincretismo tra questo rituale coreutico e il culto cristiano di San Paolo, de Martino individuava un caso di una classe di fenomeni più ampia, che interessava la Sardegna, l’Africa mediterranea, e anche Nigeria e Benin, luoghi d’origine delle divinità Yoruba che con la tratta degli schiavi sarebbero approdate nell’America Latina. A proposito di questo ampio contesto geografico e culturale, de Martino citava lo storico delle religioni Henri Jeanmaire, che assimila questi culti a quelli dionisiaci della Grecia antica. Alla luce di questa descrizione la giovane Maria di Nardò, della cui estasi de Martino era stato testimone, assomigliava a una baccante:
Si tratta di pratiche a carattere popolare, eseguite da elementi appartenenti agli strati più bassi della popolazione, senza limitarsi a essi, soprattutto per quel che concerne la popolazione femminile. Ci si trova in presenza di adepti che prestano un culto particolare non ad una divinità principale, ma ad una folla di geni gerarchizzati. Tali geni si manifestano, nel corso delle sedute date dalle congregazioni, mediante lo stato di possessione accompagnato da trances consecutive in cui cade l’adepto, e che si traduce in danze frenetiche a cui il posseduto si abbandona.
Delle cerimonie umbandiste, in particolare, si occupa Antropologia della performance (1986) di Victor Turner, che negli anni Settanta vi assistette nei terreiros della periferia di Rio. Il cadere in trance, o cair no Santo, è indotto da ritmi e ginnastiche rituali. Gli adepti sono guidati e confortati dal pai-de-santo che prega, benedice il corpo, abbraccia tutti, impartisce consigli. La possessione colpisce all’improvviso, ma non è solo o necessariamente frenesia. La posseduta, che porta il nome della divinità, comincia a parlare con un’altra voce, si rilassa, a volte beve e fuma. Mentre si abbandona, come sottolinea Turner, sembra avere momenti di lucidità, di quieta riflessione, in cui scioglie i nodi che la tormentano. Per Turner questi rituali, anche nel loro aspetto di “divertimento”, comportano una dialettica tra il “flusso” di ebbrezza, indotto dal contesto cerimoniale, e l’emergere di una “riflessività” critica, in cui gli stereotipi culturali e psicologici che gravano sull’individuo sono vissuti con distacco e rielaborati.
“Il flusso forse scopre o ‘provoca’ l’emergere dei livelli inconsci dell’io. La trance umbandista è forse una sorta di ‘iper-flusso’, ma le sue manifestazioni inconsce sono sottoposte all’esame dell’io conscio. Probabilmente non in termini ‘scientifici’, ma certamente in termini di valori conservati ed elaborati nelle innumerevoli performance dell’Umbanda che si svolgono ogni notte in tutto il Brasile.” Un altro studioso citato da de Martino, Alfred Métraux, commentava in modo convincente questo genere di cerimonie performative sottolineando un aspetto della loro efficacia terapeutica: “il piacere che procura a gente schiacciata dalla vita il diventare centro di attenzione e il sostenere una parte soprannaturale e rispettata”. Sono vent’anni che medito su questi testi, che desidero assistere o partecipare a questo istituto di teatro terapeutico, che ne lamento la scomparsa in Europa, che rifletto sulla sua funzione e cosa l’abbia sostituita. Ma la Pasqua sembra impedirmelo con la sua austera sospensione e promessa: arriva il giorno di lasciare Salvador, torno a San Paolo. Il giorno dopo ricevo un messaggio di Kamila. Mi dice di contattare un pai-de-santo di San Paolo che forse può aiutarmi. Scrivo a Marcelo, che dapprima è sospettoso, mi chiede chi sono, poi, quando spiego, mi dà appuntamento alla sera successiva.
Un rito
È già buio quando arrivo all’indirizzo, una piccola casa privata in un sobborgo di San Paolo. Marcelo mi viene incontro al cancello, mi accoglie calorosamente. Ha un viso da bambino, è alto e corpulento con il codino. In veranda ci sono altre persone, forse famigliari, che mi offrono acqua e sigarette. Marcelo mi mostra la stanza dedicata al rituale, con statuette e attributi degli dèi in una nicchia coperta da un sipario bianco, poi torna a prepararsi. Dai dintorni cominciano ad arrivare altre persone: donne e uomini, bianchi e neri, uno di loro ha il volto inconfondibilmente giapponese. Sono tutti vestiti di abiti bianchi, cominciano a infilarsi collane, cavigliere, bandoliere. Marcelo torna e mi indica le sedie, dicendomi di accomodarmi dentro. Entra l’assistente percussionista, che sistema i tamburi e comincia a suonare un ritmo sincopato. Aprono il sipario: un angelo vestito d’arancio sopra le solite statuette di plastica colorata, candelieri, fiori nei vasi; nelle nicchie sul muro scudi e alabarde, ampolle e bicchieri. Marcelo alza le mani e comincia a salmodiare, tutti vanno in circolo. Gira un fornellino fumante, che un assistente passa vicino ai piedi nudi e intorno al corpo di tutti. Poi Marcelo si mette a girare su sé stesso con i pugni appoggiati contro le tempie. Alcuni adepti s’inginocchiano a lato suonando campanelli, altri cantano e battono le mani. Alcuni entrano nel cerchio, si battono indice e medio sulla spalla, fanno il gesto di lavarsi viso e braccia, appoggiano una mano chiusa dietro la schiena con le dita che formano una v, o le corna. Alcuni visi sono contratti in una smorfia, come per lo sforzo di affrontare con caparbietà un momento amaro.
Cominciano a girare sigarette e bicchieri, s’indossano cappelli neri con la falda, si fuma camminando in cerchio. Mi ritrovo in mano un bicchiere del liquido trasparente, un alcolico piuttosto forte che non riconosco, mi offrono da fumare. Potrebbe essere una festa qualsiasi, un momento di ballo spensierato, se non che tutti sono concentrati, qualcuno ogni tanto si piega in avanti e lancia una specie di grido di battaglia. Marcelo, che è sempre al centro delle danze, comincia a chiamare a sé adepti e spettatori, appoggia affettuosamente il grasso braccio intorno al collo, trascina nelle sue giravolte, abbraccia e sussurra consigli. Alla fine impugna le campanelle, e mentre tutti si genuflettono rivolge ultime invocazioni ai santi, china il capo al suolo, si rialza, tutti riprendono a cantare, lui li congeda. Durante tutta la cerimonia sono a un passo dagli adepti, scatto delle foto, scambio sguardi e parole. Una baccante, emergendo dalla sua concentrazione, mi sorride affabile, un guerriero mi stringe la mano sorridendo innocente. Non c’è aura, non c’è distanza, la sensazione è che la cerimonia sia stata un fatto del tutto naturale, più delle occupazioni a cui tutti ritorniamo alleggeriti.
Alcuni giorni dopo ricevo da Marcelo un messaggio su Whatsapp. Mi scrive che, oltre a essere un pai-de-santo, da venticinque anni fa il cantante “con gioia e soddisfazione”. Allega due filmati di lui che canta in un locale, spera mi piacciano, aggiunge i suoi rispetti e un abbraccio. Questa continuità tra privato e rituale, gioia e dramma, culto e spettacolo, rimanda a un episodio di qualche mese prima, lontano da qui, lungo un cerchio di spazio e tempo che si chiude.
Vivo a New York, dove passo diverse serate con amici sudamericani. In questa città di transito capita di darsi appuntamento per ritrovarsi in altri continenti, e proprio qui conosco gli amici che ritroverò in Brasile. A Brooklyn, dove abito, non mancano i templi delle Orishas, in cui le divinità Yoruba sono arrivate dopo un’ulteriore traversata oceanica, con gli immigrati dell’America latina. Di questo però verrò a sapere dopo, riflettendo su un incontro inaspettato. Una sera degli amici cileni mi invitano, insieme ai brasiliani, in un bar di Bushwick. Poco dopo l’arrivo sale sul palco un tizio con la parrucca bionda, in abito da sera scollato, e comincia a cantare. Poi sale un nero in pelliccia, caschetto platinato e tacchi a spillo rosa. Le drag queen si alternano sul palco accolte da ovazioni del pubblico. Due drag king, in gessato e baffetti neri, salgono a ballare sul tavolo. Tra le risate s’accendono sguardi seduttivi. C’è qualcosa del Carnevale e dell’entusiasmo incantato delle feste tra bambini nelle esibizioni delle drag, che consistono nel ballare e fingere di cantare su pezzi in playback.
Durante gli attimi di riflessività che si alternano all’ebrezza mi dico che questa festa è del tutto tipica di New York e di tutto ciò che New York rappresenta, uno spazio libero e cosmopolita nell’America di Trump, e mi capiterà di rivedere simili volti e travestimenti nelle marce che nei giorni successivi sfileranno contro il presidente appena eletto. Ma per quanto a New York non sia raro incontrare persone così vestite anche per strada, c’è la netta sensazione di essere in un luogo d’eccezione, in cui il travestimento e la musica comportano una liberazione altrimenti impedita, ed è questa la ragione, mi dico a un certo punto, della felicità che vedo sul volto di tutti e che sento anch’io.
Durante un intervallo Luciano, l’amico brasiliano che mi ammonirà poi sui pericoli di San Paolo, che sa delle mie letture etnologiche, mi tira da parte e mi segnala un dettaglio: sopra il bancone, a fianco alle bottiglie di whiskey rovesciate, dominano la scena le statuette di Yemanjá, Oxum e altri Orishas. Il gioco sensuale di identità e trasformazione che si sta giocando questa sera a Brooklyn è lo stesso che si gioca in altri continenti sotto la guida di queste divinità malleabili, adatte alle stive e ai salotti, indifferenti alle rigidità degli abiti, dei nomi, dei confini, delle nazioni: perciò immortali.