P er avere un quadro di come ancora oggi (non) viene affrontato il discorso sulle sostanze stupefacenti in Italia, senza nessun eufemismo, bisognerebbe partire da questo libro: Piccola città, sottotitolo “Una storia comune di eroina” (Laterza, 2018). L’autrice è la storica Vanessa Roghi – già in queste pagine aveva raccontato la dipendenza da pillole di eroina negli Usa – che prende spunto da una vicenda personale e ha come contesto appunto una piccola città, Grosseto, due validi pretesti per raccontare una storia comune di fine secolo scorso.
Il dibattito pubblico sugli stupefacenti inizia nel ’23 ma riprende nel ’53 e nel ’75 con la distinzione fra spacciatore e consumatore, per una serie di provvedimenti ambigui che permettono al giudice di perseguire pesantemente il consumatore. L’approccio moralistico del Paese spinge verso lo stereotipo del giovane drogato capellone, uno sfaccendato che si configura nei “costumi degenerati della società e il lassismo dei partiti di sinistra”. È la perquisizione al New Sporting Club di Roma nel marzo del 1970 a far scoppiare “l’emergenza drogati”; si mette a punto il pregiudizio secondo cui le droghe leggere conducono a quelle pesanti, quindi pericolose in ugual modo, oppure lo storytelling della Cina maoista che diffonde l’eroina per finanziare politiche antiamericane, allacciando il vizio a una precisa componente politica. Mentre per lo più le sostanze arrivavano dalla Thailandia, dal Laos e dalla Birmania, “da quei paesi da decenni sotto il controllo indiscusso delle potenze coloniali prima e degli Stati Uniti poi”. L’autrice la chiama: ideologia della droga.
Un’ideologia reazionaria che per compattare la realtà sociale e mantenere il catalogo di forme, quando appare la devianza, ha bisogno di assoggettare il popolo conformista, minando magari quei corrotti status symbol della bellezza o della carriera di una celebrità, come nel caso dei due attori William Berger e Carolyn Lobravico che, in un’operazione antidroga che vede circondata la villa sulla costiera amalfitana dove trascorrono l’estate del ’70, finiscono in due ospedali psichiatrici differenti. Come in passato, psichiatria e giustizia diventano la stessa mano di una repressione feroce, con Lobravico che muore nel letto di contenzione.
L’eroina fa soffrire la famiglia, fa soffrire la società. Come se non ne facesse parte, un corpo estraneo, che si isola, quindi da isolare. Questa rappresentazione esemplifica uno sguardo che diventerà egemone e avrà conseguenze importanti sulla percezione sociale delle tossicodipendenze da eroina quando queste diventeranno un fenomeno di massa. Se la cocaina enfatizza i peggiori difetti della società l’eroina nega alle radici la convivenza civile, quindi è davvero qualcosa con cui è impossibile convivere.
Ogni fatto di cronaca diventa casus belli in quanto un nemico della società deve essere represso (e non curato), mentre nelle edicole vanno le liste di proscrizione redatte dai giornali locali che, senza omettere nomi e cognomi, segnalano chi oltraggia il perbenismo della sonnolente provincia, specialmente da quando si associa la droga all’HIV e all’omosessualità. E nei ricordi affiora ancora il terrificante alone viola e lo slogan “se lo conosci lo eviti” dei più recenti inizi ’90, con il moralismo che intercetta e manipola in suo favore ogni manifestazione del diverso. Per la destra è un complotto dei comunisti, per la sinistra è colpa della CIA con l’operazione Bluemoon, mentre tossicodipendenti o presunti tali muoiono nei reparti psichiatrici. Stigmate tuttora aperte, tanto che alcuni chiedono all’autrice di non pubblicare il proprio nome nel libro, oppure rispondono con un “Non saprei, non ricordo”.
Nome e cognome campeggiano in ognuna di queste notizie sulle prime pagine dei giornali, che sono la voce della gente perbene della piccola città, che li usa per diffondere una morale cha ha a noia ogni diversità, ogni pubblico scandalo, e soprattutto, di lì a poco, ogni capellonismo.
Nelle pagine convivono non senza scossoni citazioni di Luciano Bianciardi, Burroughs, Cassola, il poeta Zanzotto o Franco Basaglia, ricerca archivistica, dati, memorialistica e delicate incursioni dei vissuti dell’autrice che, adolescente della quinta ginnasio, si ritrova il papà in galera. Una storia privata che va avanti e indietro nella linea del tempo ma che pian piano si espande per ricostruire un quadro mistificatorio di colpevolizzazioni, spesso parcellizzato in molecole di afasia. La droga come ricerca di nuove sensazioni che con la spinta degli anni ’70 poteva essere libertà e condivisione, la droga come luogo per mitigare il dolore diventa esclusione, oppure è la società escludente che favorisce la comfort zone promessa dalla droga? In ogni caso ai tossicodipendenti si para davanti una barriera d’incomprensioni, come l’entusiasmo per l’arrivo del metadone nel ’75. Mentre le statistiche precise sui decessi iniziano dall’87.
Così anno dopo anno, canzone dopo canzone, cartone dopo cartone, divento una ragazza, scrivo ogni giorno sul diario, ma quando arrestano mio padre per uso e spaccio di eroina e io ho ormai quindici anni su di lui non scrivo una riga perché la cosa che mi sta più a cuore è il ragazzo che mi piace. È il 1987.
Con il dipanarsi dei luoghi comuni, del business delle comunità terapeutiche e della strumentalizzazione politica, Roghi riesce senza mai puntare il dito a delineare un lato intimistico e le dinamiche umane legate al senso di ribellione o di rassegnazione che si sprigionano dalla tossicodipendenza. Attualmente il Dipartimento per le politiche antidroga della Presidenza del Consiglio dei ministri è moribondo, con addirittura il sito fermo al 2013, ma i dati ci dicono che in Italia l’uso di eroina sta aumentando specialmente fra minori e fino a 25 anni (in fondo non se n’è mai andata), con una crescita nel 2018 delle morti per overdose del 9,7%. Di pari passi vanno solo gli strumenti repressivi contro gli stupefacenti, come per esempio i numerosi interventi che la cinofila svolge nelle scuole come previsto dal decreto Scuole Sicure, militarizzando di fatto i luoghi d’istruzione per sequestrare quantitativi di poco conto e quindi togliendo risorse all’unica arma utile: l’educazione. Il problema, a ben vedere, è che Piccola città purtroppo potrebbe essere verosimilmente una storia del 2019, di un piccolo Paese.